Genova, settembre 1969
I giovani e i giovanissimi presero parte a tutte le manifestazioni insurrezionali del Secolo, anche se, a Genova, forse per la natura ironica e praticistica del
popolo, i motivi scherzosi sono più ampiamente documentati di quelli ideali e commemorativi
Mettiamo le mani innanzi per rintuzzare le prevedibili insinuazioni sulla nostra postuma simpatia per i «batôsi» ottocenteschi. Comprendiamo anche
noi che nel sottofondo di molte imprese dei giovani contestatori genovesi d'altri tempi c'era il sentimento definito esattamente da un antico motto nostrano:
«Megio o rotto che l'intrego». Qualche volta, anzi, una bella dose di maleducazione o, peggio, di malvagità vera e propria. Le cronache del secolo XIX
riferiscono di ragazzacci che se la prendono con i minorati di corpo e di spirito, con i mendicanti, con i venditori di «rostie», con le vecchiette
maniache, architettando ai danni di questi poveracci tiri per metà burleschi e per l'altra metà soltanto cattivi. Né ci sembrano plausibili i lanci di sassi contro
i finestrini dei treni, troppo spesso segnalati dalla «Gazzetta» e dal «Caffaro», anche se non è difficile scorgere in queste malintese
esuberanze una protesta, forse inconscia, di una gioventù malnutrita contro i viaggiatori, in un'epoca nella quale i viaggi ferroviari erano un lusso concesso a
pochi privilegiati.
Sentiamo invece maggior indulgenza nei riguardi delle spedizioni ladronesche nel porto e altrove. Non abbiamo il diritto di infierire quando non sappiamo se
questi figlioli avessero una famiglia come oggi s'intende e se in casa qualcuno preparasse loro pranzo e cena. Dispiace anche a noi leggere sul
«Caffaro» di quell'infelice doganiere che si prese una grossa porzione di sassate nel tentativo di fermare all'uscita di Porta Siberia una squadra di
giovanissimi furfanti ben provvisti di illecita paccottiglia. Ma i tempi erano grami, di cupa ed assillante miseria. Questi ragazzi erano scalzi, cenciosi, molto
probabilmente anche affamati.
I nostri avi, parliamo dei borghesi, non si curavano di loro. Si limitavano a richiamare sulla ragazzaglia l'intervento dell'autorità solo quando ritenevano che
la loro incolumità e la loro tranquillità potessero essere sfiorate da qualche ombra di pericolo. Assai indicativa è, al proposito, l'indifferenza dei quotidiani
genovesi sulle celebri battaglie dei «batôsi» sul greto del Bisagno, sul Pian della Rocca, in Portoria. Il Bisagno, ai tempi di Vittorio Emanuele
I, di Carlo Felice e di Carlo Alberto era stato teatro di manovre militari in grande stile alla compiaciuta presenza delle Loro Maestà. E' ragionevole pensare che
le vere guerre dei piccoli abbiano avuto origine dall'imitazione dei finti combattimenti dei grandi. Erano sassaiole da far paura: gli eserciti di San Fruttuoso e
di Borgo Pila si scontravano sotto il ponte di Sant'Agata. Il tiro delle opposte artiglierie, con le munizioni inesauribili fornite dal letto del torrente in secca,
si concludeva sempre con un buon bilancio di teste rotte. Alla sera, di regola, qualcuno doveva farsi ricoverare all'ospedale. Altro che via Paal! Se Molnar avesse
visto i ragazzi genovesi, avrebbe rinunciato a descrivere quelli di Budapest. I benpensanti si mantenevano «au dessus de la melée». Come se si trattasse
di combattimenti di formiche rosse con le formiche nere. Il cronista del «Caffaro» il 16 giugno del 1879 si chiede se queste zuffe selvagge giovino a
tener desti gli spiriti bellicosi del popolo e, sotto questa luce, se ne rallegra. Ma poi vien sfiorato dall'idea che un ciottolo del Bisagno, lanciato da un
artigliere maldestro, possa rasentare la sua riveritissima testa, ed allora invoca pronti e spietati rimedi. Per le stesse ragioni i giornali mostrano un costante
ribrezzo nei riguardi del gioco della lippa: ora è un degno notaio che in Piazza Colombo viene «lippato» nel cilindro, ora è un magnifico dottore che
alla Foce si busca una scheggia roteante sulle scientifiche spalle. In questi casi l'indignazione è generale: nessuno si preoccupa se i giocatori possono perdere un
occhio. Peggio per loro.
In una delle battaglie del ponte di Sant'Agata accadde una volta che un galantuomo, atterrito dal crescente accanimento della lotta, s'infilò in casa sua, prese
la doppietta e cominciò a sparare all'impazzata. I ragazzi, dell'uno e dell'altro campo restarono allibiti. I colpi d'arma da fuoco erano fuori legge. Uscirono
dalle trincee e dalle fortezze e si guardarono attorno. Le sapevano bene loro, le regole del gioco. Non erano come i grandi che si facevano vanto di aggirarle e di
dispregiarle. Constatarono che la perversa iniziativa era partita da un adulto: in quel giorno firmarono subito un trattato di pace. Sarebbero piaciuti all'Ariosto,
questi ragazzi.
Altri episodi di contestazione giovanile ci trovano oggi apertamente solidali. La sera del 12 gennaio 1849 le belle madame genovesi si faceva accompagnare al
«Carlo Felice» in portantina per prepararsi alla fatica di ascoltare il celebre tenore Raffaele Mirate, nella «Lucia». 1849, abbiamo detto.
Nella depressione morale di quell'anno che era cominciato male ed era destinato a continuare peggio. Le portantine furono bersagliate di sassi: non era difficile
trovarne, in quel tempo, anche nel centro della città. «Abbasso il lusso!» gridavano i giovani contestatori dell'epoca. E tiravano le pietre, con
qualche buona ragione in più, rispetto ai loro imitatori odierni. I giovani e i giovanissimi - è storico - presero parte a tutte le manifestazioni insurrezionali
del secolo. Anche per uniformarsi al già citato adagio «Megio o rotto che l'intrego». D'accordo. Ma, in buona misura, per un impulso generoso, per
l'istintivo bisogno di schierarsi dalla parte dei ribelli contro l'autorità che, verso la popolazione povera, conosceva solo la strada della repressione. Il 23
giugno del 1869 la dimostrazione dei repubblicani, dispersa ed umiliata al suo nascere, continuò spavaldamente per molti giorni per l'iniziativa ardita e tenace dei
giovanissimi, incuranti dell'irritazione furente della prefettura e del sarcasmo della «Gazzetta» che annotava, malignamente, la degenerazione della
rivolta in una «gazzarra delle ragazzaglie». Era ben degna quella «ragazzaglia» del magnifico slancio di quei nove monelli torinesi che il
21 marzo del 1886 si arrampicarono sulla torre del Palazzo di Città per issare al vento la bandiera della Comune di Parigi.
A Genova, però, forse per la natura ironica e praticistica del popolo, i motivi scherzosi e burleschi sono più ampiamente documentati di quelli ideali e
commemorativi. Quell'annerito monumento che è il lavatoio dei Servi, «Liberté, Egalité, Fraternité», residua testimonianza della repubblica democratica
del 1797, nel novembre del 1886 fu teatro di un grosso tiro birbone. I «contestatori» turarono tutti gli scarichi dei truogoli sicché, ad un certo
momento, una fluttuante fiumana si incanalò giù per Via della Marina travolgendo le pettinatrici e le loro clienti che si esibivano in mezzo della strada, i
friggitori ambulanti e le pluriarrotondate erbivendole. Fuggi fuggi generale, schiamazzi da far crollare i muri e sonanti risate.
E passiamo sopra alle assordanti serenate di pentole e di coperchi implacabilmente concertate ai danni degli sposi attempati. Ne ricordiamo solo una, rimasta
celebre: quella ordita ai danni della Rosa di Campetto, una giornalaia ottantenne che aveva impalmato «o Nicolin» giunto, anche lui, al traguardo della
decrepitezza con l'arte di spacciar nocciole ammuffite e coriacei semi di zucca, detti ironicamente «divertimenti» (30 novembre 1895). Anche quella
volta i sassi recitarono la loro parte ma senza danni accertati e passati alla storia.
Nell'anno 1884 i pretesti dei «batôsi» trovarono ottima esca per attizzare ottime scalmane nelle incessanti rappresaglie dei
«liberali» contro i «paolotti». I soliti malintenzionati avevano collocato due bombe nella facciata della Chiesa dell'Immacolata in Via
Assarotti facendo saltare marmi, intarsi e moltissimi vetri. Pare che la Chiesa fosse stata costruita in funzione di antidoto contro la pubblicazione della
«Vie de Jésus» di Renan: si vede che a Genova c'erano dei tipi a cui le confutazioni monumentali non andavano a genio. Il 16 luglio i
«paolotti» si radunarono in austera assemblea in Piazza Fontane Marose, cantarono i loro inni e scagliarono nell'aria afosa un grido elettrizzante:
«Viva il Papa-Re!». I ragazzi compresero immediatamente che c'era da ricavarne qualche cosa di appetitoso. Scomparvero nei vicoli e tornarono ben presto
con buona scorta di garibaldini e di mazziniani. Costoro intonarono «Fratelli d'Italia», canto considerato allora poco meno che incendiario, anche se
oggi è diventato il simbolo sonoro della nostra Repubblica. Il seguito è facilmente immaginabile: botte da orbi. Il giorno dopo il «Cittadino» e il
«Caffaro» polemizzarono sull'avvenimento discutendo su chi ne avesse buscate di più.
Qualche giorno dopo i «paolotti» cercarono di segnare un punto a loro vantaggio. Ricorreva la festa di San Salvatore. Prepararono una gran luminaria
in piazza Sarzano dove c'era appunto l'oratorio del Santo. I lumini, le bandiere, i festoni, le fanfare, i banchetti di mandorle zuccherate e di
«pateche» conferivano solennità celebrativa alla festa popolare. Ma ecco svoltare dallo stradone di Sant'Agostino una grossa banda di giovanotti
prestanti. Hanno fazzoletti rossi e cravatte nere. Sono i «liberali» di San Teodoro. Appena arrivano in piazza danno fiato alle trombe, attaccando con
l'Inno, l'inno per antonomasia, quello di Garibaldi. Nel pigia pigia partono come saette i primi vituperi, quelli sodi e appuntiti, in buon vernacolo. Sono gli
annunci della rissa generale che si estende clamorosamente nella folla. Le campane fanno da contrappunto innocente alle urla dei contendenti. I ragazzi assistono
dall'alto, divertendosi assai di più che agli spettacoli dello Zane, senza contare che nel trambusto diventa facile sottrarre agli ambulanti qualche fetta di pateca
o un pezzo di croccante. Ma ora, richiamati dal tumulto, arrivano i gendarmi. A completare il quadro variopinto, mancavano proprio loro. Soltanto che il colpetto
definitivo se lo riservano i «batôsi». Alla vista delle odiatissime uniformi si arrampicano sul muri e tagliano di netto le cordicelle che
sostengono i lumini. I poveri lumini gialli e rossi si capovolgono miseramente lasciando colare l'olio, con superiore imparzialità, sulle teste dei paolotti e dei
liberali, sulle spalle opulente delle popolane, sui mustacchi delle guardie. Nel buio scoppiano, come mortaretti, le sghignazzate dei definitivi vincitori della
battaglia.