La grande Genova – febbraio 1928
Nella grande varietà di navi che, pel corso di secoli, frequentarono la Liguria e Genova un tipo – unico – può rivendicare la qualità di «nazionale» nel
senso esatto di questa espressione. Si diceva «pinco genovese» in tutto il Mediterraneo, per determinare una data costruzione navale anche se questa non
usciva dai nostri cantieri.
«Pinco», molto probabilmente, non è una denominazione d'origine ligure: i nordici avevano i loro pink in Olanda e sulle coste della Manica, e
quel termine è forse importato, nel secolo XVIII. E' vero che il Guglielmotti vorrebbe tentare una reminiscenza «pelasgica» in proposito, ma la
deduzione rimane assai incerta. Comunque non è il nome il nome che importa, ma la cosa. Ora, il tipo del «pinco genovese» compare perfettamente
delineato molto prima del suo nome. Alcune pitture della fine del XVI secolo (si possono citare due esemplari: nel Chiostro di Villa Cambiaso) ci mostrano già le
linee caratteristiche, bene individuate ed espresse senza equivoco. Una nave «latina» che teneva molto nelle sue linee d'acqua della galera e
della fusta, e portava sull'«opera morta» e solamente a poppa, un «castello». L'attrezzatura comprendeva tre alberi verticali a
«calcese» con antenne e un bompresso. A prima vista il «pinco» specialmente per la sua sovrastruttura e per l'attrezzatura potrebbe
scambiarsi con una «caravella» se questo genere di nave non fosse totalmente scomparso, alla fine del cinquecento. Ma l'analogia - salvo pel castello di
poppa - è più apparente che reale. Nel tipo «caravella» le linee della carena erano rigonfie e il pescaggio considerevole come nelle navi
rotonde. Infatti la caravella poteva ascriversi alla classe delle navi oceaniche. La «pinco» invece era una derivazione degli scafi
mediterranei: la galera, la fusta, il liuto. Ed era un adattamento sapientemente combinato, della nave da corsa con la nave da carico.
La navigazione di cabotaggio tendeva all'uso di legni leggeri poco profondi - per la facilità ad essere tratti in secco - e relativamente capaci di
carico: veloci e maneggevoli. Queste qualità vennero poco a poco raggruppate nel «pinco genovese». La nave «quadra», o pesante, offriva
unicamente il vantaggio della capacità e quello della resistenza all'alto mare, mancava di rapidità e non poteva abbordare le coste; inoltre l'attrezzatura non si
adattava ai nostri paraggi. La galea era, prima di tutto, una nave da guerra ed ogni cosa in essa subordinata e sacrificata a questo intento. Le derivazioni
della galea: sciabecca, fusta, brigantino, liuto si avvicinavano troppo al prototipo per consentire un carico di merce adeguato e rimunerativo.
Nel «pinco», in seguito a tentativi dei quale l'evoluzione e la durata non sono ancora conosciute, si trovano, nel secolo XVIII, definitivamente
riuniti questi caratteri:
Le linee d'acqua notevolmente affusate e solo ripiene al centro: la ruota di prua calcata esattamente sul modello della galea con un falso sperone rinfrancato
da graticci - l'opera morta rientrante a poppa e portante una sovrastruttura ordinariamente doppia, a castello, dove era sistemata la camera o alloggio.
Ogni installazione fissa di palamento - apposticcio o scalmiera delle galee e delle fuste abolita. L'attrezzatura, di carattere latino. Due alberi
maggiori e una mezzana, a calcese, variamente inclinati (il trinchetto abbattuto sul bompresso) un notevolissimo sviluppo velico. Altre
caratteristiche - appariscenti a prima vista - del pinco erano la poppa quadra e una originalissima disposizione del carico, fuori bordo. Una collana
di botticelle infatti, qualche volta in doppio ordine, erano imbragate all'esterno dell'opera morta su tutta l'estensione del castello. Documenti
dell'epoca, pel secolo XVIII, hanno conservato il ricordo esatto di questa particolarità, non casuale ma metodica. E un rapporto di naufragio intorno al 1835
sulle coste brettoni parla di un colpo di mare che asportò completamente le faiscières d'huile di fuori bordo. Ora queste faiscières o botti di
fascia, erano esattamente quelle usate dai pinchi settecenteschi. E non solo le botticelle ma anche balle di mercanzia facevano parte della singolare collana
di cui abbiamo parlato. I documenti grafici non lasciano dubbio in proposito.
Il «pinco» non aveva, comunemente, argano o molinello per salpare le ancore: anzi, invece do ancore, usava solo semplici ferri, come
ancora attualmente avviene in certe barche da pesca.
La nave che, nel settecento, si avvicinava di più al «pinco» era lo «sciabecco». Ne differiva però decisamente per le forme di poppa, non
rialzata da alcuna sovrastruttura a castello. Lo «sciabecco» poi usava vari tipi di attrezzatura, da quella latina (simile in tutto alla velatura
del pinco) a quella mistica col trinchetto quadro, e due latine e altre fogge svariatissime.
Il pinco invece impiegava solo come attrezzatura di fortuna i trevi, vele quadre su pennoni che si issavano al posto delle antenne quando la pressione
del vento rendeva pericoloso l'uso di queste.
Il commercio costiero e delle isole, in tutto il Mediterraneo, era nel secolo XVIII esercitato in prevalenza dai «pinchi genovesi», mentre quello
puramente locale per la Liguria, usava navi di minor mole come le feluche e i liuti o leudi.
I «Pinchi» erano specialmente adibiti pel trasporto di liquidi, olii e vini. Abbiamo già visto la collana di botticelle che circondava il castello
di poppa ma in coperta e nella stiva era sistemata anche una dotazione di botti allineate in cantieri e trattenute da legature o imbragature. Si può
dire che i «pinchi» per oltre un secolo tennero il posto che le scune viareggine conquistarono poi.
Qualche volta rimpiazzavano le botti della stiva con sacchi di cereali, con materiali da costruzione, majoliche, e altre mercanzie. All'Archivio di Stato, serie
intiere di «Registri delle Gabelle» contengono la specificazione del carico di queste navi il cui numero si era straordinariamente accresciuto nella
seconda metà del settecento e ricordano il nome dei padroni e degli armatori quasi tutte famiglie ancora esistenti, i cui membri di padre in figlio non hanno mai
cessato di navigare con diverse fortune, seguendo le vicende dei tempa. Ma dopo la metà del secolo XVIII nonostante i disastri della guerra e le depredazioni degli
Austro-Sardi (1746-47) correvano, decisamente pel cabotaggio, tempi di prosperità. Molte firme di armatori divenute poi celebri, avevano incominciato
modestamente la loro vita coi piccoli velieri che tanto profittavano a chi li sapeva adoperare. Le spese di manutenzione erano minime per gli scafi che si
carenavano facilmente e ovunque e per le attrezzature semplici, quasi rudimentali. Anche il numero d'uomini della ciurma era ridotto. Le domande di nolo
affluivano, per la rapidità delle comunicazioni e le agevolezze di sbarco della merce lungo le coste anche in mancanza di porti. La proverbiale abilità dei nostri
padroni riduceva al minimo la percentuale dei naufragi e delle avarie. Per molto tempo si era stabilizzato il tipo, il campione della nostra
nave, il tipo che sopperiva a tutti i bisogni del commercio costiero. Specialmente attive erano le comunicazioni con la Provenza e con la Catalogna. Da Genova a
Malaga, si può dire, era il regno della vela latina, mentre i Greci e i levantini in genere avevano introdotto altre forme di i caicchi e le
sacoleve rappresentano i campioni più conosciuti. Il «Pinco» come d'altronde quasi tutte le altre navi anche di piccole dimensioni, in quei
tempi, era armato, più o meno, in guerra. Agli sportelli del «quadro di poppa» sporgevano le gole di due cannoncini: petrieri di
bronzo o di ferraccio. Quella minuscola artiglieria era sistemata più per la difesa che per l'offesa, la posizione in cui l'avevano relegata lo indica chiaramente.
Oltre i cannoncini non mancava mai a bordo una dotazione di fucili, di pistole, di coltellacci e di asce. E per sfuggire ai «corsari», barbareschi o
cristiani che fossero, tutta la ciurma sapeva combattere, qualche volta accanitamente e perfino eroicamente come se ne hanno esempi.
Genova possedette sul finire del settecento dei «Pinchi» esclusivamente armati in guerra. Erano tutto quello a cui si era ridotta la marina potente
degli avi. La difesa delle nostre coste – privilegio per quasi due secoli della dinastia dei Doria – dopo l'annientamento dell'ultima parvenza di flotta, nel
1684 sotto le bombe del Re Sole, la difesa costiera dipendeva in gran parte ed era combinata con l'opera del «Riscatto degli Schiavi». Le finanze
di questo Istituto unite con quelle del «Magistrato di Marina» permettevano di armare una flottiglia di pinchi e altre navi leggere. Il campo
d'azione di questa piccola armata si esplicava per lo più nel golfo ligustico.
Quando i semafori - allora si chiamavano le guardie - avevano segnalato colle fumate di giorno, coi fuochi di notte l'apparizione dei corsari, le nostre
navi perlustravano la costa e l'alto mare. Ma il più delle volte le «fuste» dei barbareschi sorgevano improvvise dalle piccole cale a ridosso dei capi e
degli scogli ove s'erano rimpiattate. E spesso rimorchiavano audacemente prede già fatte, navi da cabotaggio o da pesca, la cui ciurma era passata ad accrescere il
numero degli schiavi vogatori. Gli avversari scambiavano finte e «si tastavano» vicendevolmente. Il combattimento classico dopo qualche cannonata, era
l'abbordaggio. Ma non sempre, anzi raramente, si giungeva a tale epilogo sanguinoso. Il fatto d'arme abituale era uno scambio di proiettili con la resa del
più debole. Resa significava la cattura della nave e degli uomini. Quando la sorte favoriva i nostri quelli dei prigionieri che erano cristiani venivano liberati e
gli «infedeli» proposti in iscambio, ai bagni di Tunisi, d'Algeri e della Turchia, con altri cristiani. Così funzionava l'Opera del
«Riscatto» nel settecento.
I «Pinchi» di cui abbiamo trovato memoria nelle carte d'Archivio portavano iscritti sul quadro di Poppa svariati nomi di Santi con l'aggiunta
invariabile «Nostra Signora del Soccorso» patrona speciale dell'Opera.
Era anche frequente il caso che questi Pinchi non fossero proprietà della Marina Genovese e dell'«Opera» ma solo noleggiati. Allora il
padrone veniva ad assumere la figura di «corsaro patentato» ed eseguiva a suo rischio o a suo profitto - oltre il nolo - le operazioni di polizia
marittima. Gli schiavi barbareschi venduti o riscattati contavano per lui come un certo numero di zecchini che gli erano regolarmente accreditati.
Ecco ora l'inventario di un Pinco «Nostra Signora del Carmine e S. Antonio» comandato nel 1781 dal Capitano Pier Paolo Spinola. Questa nave era già
stata armata in corso dalla Repubblica, con l'aiuto finanziario dell'Opera del Riscatto degli Schiavi. In seguito a non so quale combattimento, il
«Pinco Corsaro» era andato a finire nelle mani degli «Infedeli». Allora Padron Agostino Chichizola, comandante un altro Pinco «Nostra
Signora del Soccorso» si era preso la rivincita, impadronendosi della galeotta barbaresca e della preda genovese. Insieme agli allori della vittoria Padron
Chichizola non mancava di curare, da buon genovese, i propri interessi. Da un porto dell'Italia Meridionale accompagna i suoi rapporti con l'inventario del
Pinco ricuperato, perché in base a quello gli fossero computate le «parti di presa».
Il documento che qui riproduco non è completo. Può però bastare largamente a dar un'idea della nave e di certi particolari.
Archivio di Stato. LXXIV - 27.53)
«23 Sett. 1781, Inventario fatto etc.:
In tutto questo elenco, non completo e scritto alla rinfusa, quelli dei lettori che si interessano alle cose di mare sapranno certo scegliere gli elementi per
ricostituirsi idealmente l'ambiente del «Pinco Nostra Signora del Carmine e S. Antonio» al comando, or sono centocinquant'anni, di Pier Paolo Spinola.
Soprattutto i particolari prodigati a proposito del bagaglio personale ci mostrano al vivo la cameretta di poppa coi suoi «strapontini», la
«Tavola rotonda per mangiare», le «careghe» e via via fino agli oggetti di toilette (di cui uno, intimo, e indiscretamente rivelato,
al N. 51) alla gabbia dei «Canaris» e all'icona di bordo.
Le analogie fra questo Pinco e certi velieri ancora in uso (pareggia e tartana) permettono di applicare a prima vista i vocaboli dell'attrezzatura,
facendo un po' d'archeologia nautica comparata.
Il «Pinco» colle sue linee fine, eleganti e le grandi ali bianche e acute delle vele è stato il «motivo» preferito dai pittori di marina.
Basta scorrere la raccolta delle grandi stampe che Cochin incise dei quadri di Vernet, per riconoscere a prima vista i numerosi esemplari di «Pinchi
genovesi» sotto tutte le andature, dalle bonacce in cui l'attrezzatura si specchia tremolando nell'azzurro del Mediterraneo, alle burrasche famose del Golfo
di Lione quando l'esile scafo è «mangiato» dai cavalloni arricciati e spumeggianti. Soprattutto la Stampa del «Porto di Cette» ne presenta
una figura in primo piano con l'equipaggio in coperta tutto intento a manovrare le vele. A poppa il padrone, imboccando il portavoce, comanda la manovra in mezzo
alle raffiche e al rimbalzo delle onde. E' una scena resa con efficacia straordinaria.
Ma non solo i «marinisti puri» cioè quelli che facevano l'arte per l'arte, come Vernet, anche i «marinisti» di professione ricorrevano
al motivo del «pinco» per animare i secondi piani del mare sul quale troneggia il ritratto della nave, ordinata dall'Armatore mecenate. La
dinastia dei Roux di Marsiglia – d'altronde veri artisti del genere - ci ha conservato fra gli altri un «Pinco genovese» con tutte le spiegate e la
bandiera dalla croce vermiglia, la bandiera di S. Giorgio, sventolante dall'antenna di mezzana. Questo documento esiste a Marsiglia in una collezione privata. Del
resto la Collezione Garelliana, in fatto di «Pinchi», oltre ai suoi Roux ha una infinità d'altri autori e di altre figurazioni che trattano sotto tutti
gli aspetti lo stesso argomento.
Concludendo: l'importanza nazionale di questo tipo e la documentazione relativamente completa ed esatta hanno determinato la Direzione del Museo Navale a
tentare una ricostruzione in modello, che è quella di cui presentiamo le fotografie in queste pagine.
Intorno al 1825 l'Ammiraglio francese Paris, giovanissimo allora, si occupava già di quegli studi che dovevano tanto illustrare il suo nome. Di passaggio a Genova -
come qualche anno più tardi lo storiografo della Marina francese, l'illustre Jal - non tralasciava di ricavare dai quadri, dalle scolture, dai documenti tutto il
materiale possibile per creare un nuovo ramo ancora insospettato nello studio delle antichità e l'archeologia navale.
E nel nostro porto, un caso lo mise di fronte a uno di quei «Souvenirs de l'ancienne Marine» che formavano la sua passione. In un cantuccio del
Vecchio Molo o del Mandraccio sulle acque stagnanti dormiva uno scafo, centenario, in disarmo. Ai suoi tempi - cioè nella seconda metà del settecento - quello scafo
aveva corso i mari sotto il nome di qualche Santo ed era passato presso a poco per quelle vicende che abbiamo riportato più sopra. Era un esemplare di «Pinco
genovese» dell'epoca classica, un venerabile superstite della antica marina mercantile dei Liguri (nel 1825 i Pinchi erano sempre in servizio, molto
modificati dal tipo primitivo). Contemporaneamente in un angolo della Vecchia Darsena, marcivano altri scafi che erano stati le ultime galere e mezze galere
della Serenissima. Massimo D'Azeglio li aveva visti sparire nel 1821 e ne lamentava la perdita. Quello che D'Azeglio, pittore, non aveva pensato a fare, il Paris,
marinaio e archeologo, non tralasciò: una serie di note e di schizzi ritrassero le forme del più antico «Pinco genovese» e solo cinquanta anni più tardi
furono utilizzate nei «Souvenirs de Marine Conservés».
Le note dell'ammiraglio Paris sono state la base sulla quale fu impostato lo studio per la ricostruzione di un modello che farà parte della Serie destinata ad
illustrare la Marina Ligure nella Collezione Garelliana.
La presentazione al pubblico di modelli razionalmente eseguiti è forse il mezzo più efficace per la volgarizzazione dell'antica marina. Anche i profani, i quali
si troverebbero a disagio nella selezione necessaria fra quadri e disegni di un museo, riescono rapidamente a comprendere e a ritenere le forme caratteristiche di
un modello.
Nel caso, pel «Pinco Genovese» avevamo elementi sufficienti per ritenerci sicuri della esattezza archeologica nella ricostituzione del
«tipo». Il lavoro di preparazione, in un anno circa, comprese la raccolta, il confronto, il controllo e la selezione di questi elementi ed a fonti
documentarie e grafiche: la determinazione di un disegno in cui tutti i particolari fossero giustificati e infine, materialmente, l'esecuzione del modello: la parte
più ardua dell'opera, forse.
Il lavoro è stato condotto a termine in questi giorni e ne diamo le fotografie in questa pagina.
Ripetiamo, nulla è stato trascurato per l'esattezza della ricostituzione e nessuna parte lasciata alla
fantasia archeologica. Perfino gli ornati di
poppa dall'apparenza arcaica e dall'arte rudimentale non sono frutto di una licenza qualsiasi: essi sono calcati sui disegni e sulle note del Paris, testimone
oculare. Il modello, che misura circa 90 cm, è una riduzione del vero, alla scala di 1/25. Questa scala è stata scelta perché già impiegata nella ricostruzione
delle Caravelle di Colombo, dall'illustre Capitano d'Albertis, sarà mantenuta nell'esecuzione dei modelli in corso di studio. Così la comparazione, in serie,
avverrà facilmente. Il progetto e gli studi per la ricostruzione del «Pinco Genovese» furono effettuati da chi ha scritto queste pagine, l'esecuzione
tecnica, delicata e riuscitissima, è dovuta all'opera del sig. Boero, modellista della R. Scuola Navale.