Il Comune di Genova – 31 luglio 1923
A Santa Margherita si ha notizia di un maestro, padre Francesco Spina, presente dal 1491, mentre la prima scuola pubblica risale al 1630 (rif. articoli della
Gazzetta "Per la storia della Pubblica Istruzione a S. Margherita Ligure" del 2015 e "Scuola 'Quaquaro': la prima a Santa Margherita" del 2021.
Il problema della coltura ligure medioevale. L'età carolingia.
Nella storia della cultura medioevale il problema della coltura ligure è quanto mai delicato e sottile, non potendosi ragguagliare immediatamente la valutazione
del sapere che qui a Genova fiorì e si sviluppò con quella generale delle condizioni culturali d'Italia. La forma caratteristica della vita genovese determinò una
forma egualmente caratteristica di coltura, pratica in grado sommo, ma non per questo meno coltura: se, di fronte all'ambiente spirituale degli altri e
maggiori centri di vita italiana, Genova appare in tutto il Medioevo isolata e improduttiva, ciò non significa che vi manchi una qualsiasi mentalità colta, ma che
l'indirizzo di essa è tale da straniarsi, in tendenza e in ispirito, dalla corrente principale della coltura italiana, perché retto da un principio diverso e
tuttavia non trascurabile. Il dio della tenacia ligure, assetata di dominio e di ricchezza, non è un idolo che divori e pretenda in sacrificio ogni spiritualità
culturale, ma la assorbe e la assimila nella propria azione fattiva: solo una considerazione ristretta può negare che ciò significhi la sua distruzione. Vero è che
questa coltura pratica, intesa in un senso naturalmente più largo che quello semplicemente economico, non si poté attuare, come vedremo, se non dopo le Crociate:
perché prima Genova non era un centro così potente di vita da assurgere a una formazione mentale autonoma. Pure anche nei secoli tenebrosi della barbarie essa non
fu chiusa del tutto agli spiriti del tempo: vi recarono a fiotti la luce arte e religione, le due sorelle che il Medioevo riuscì a congiungere in buona e feconda
convivenza.
Fu chiusa invece, durante quelli che son chiamati tradizionalmente, ma non bene a ragione, i «secoli dì ferro», ai radi soffi di scienza che
aleggiarono allora qua e là per l'Italia, nutrendo poche e scarse fiammelle. Nell'età longobarda Genova rimane alla periferia del cerchio a mala pena illuminato da
Roma e Ravenna: e la periferia era quasi oscurità. Ma è noto ormai quante limitazioni debbano farsi al concetto della decadenza culturale prima dei Carolingi e a
quello della decadenza scolastica. Ricordiamo la pergamena modenese del 796, che assegna come servizio di Cristo da parte dell'umile pievano l'insegnamento assiduo
nella scuola: le scuole parrocchiali continuano a vivere sotto i Longobardi, e vivono le sedi di coltura monastica, per quanto modestissimamente. Milano, che il
Versnm de Mediolano civitate chiama metropoli dì Liguria, e Pavia, come sede regia, opposero certo qualche proprio titolo al bizantinismo romano e ravennate:
non molti, ma certo dal nulla non venne la rinascita carolingia presso di noi, o meglio sul nulla non posò nel passare le Alpi recando dappertutto l'esempio vivo
della Schola Palatina. Ma la riforma scolastica di Carlo Magno, sancita nella Karoli epistola de litteris colendis e dominata per il tramite di
Alcuino da un forte influsso anglosassone, riesce a fondare in Francia la scuola episcopale di Stato, non in Italia: qui essa penetra giuridicamente, non
praticamente. Tanto che deve cercare di promuover lo sviluppo di tali scuole Lotario, fondandone otto con il capitolare olonese dell'825, nel quale gli studenti di
Genova sono assegnati, con quelli delle odierne provincie lombarde e del Novarese e del Monferrato, a Pavia: mentre gli studenti, pur liguri, di Ventimiglia e
Albenga e Vado sono assegnati a Torino. A Pavia insegnava Dungal, monaco irlandese, forse quello stesso che aveva avuto incarico dal vescovo di Torino, Claudio, di
combattere l'eresia: in ogni modo un dotto di vaglia, della scuola alcuinica, dal quale i non molti liguri accorsi avranno potuto apprendere anch'essi copia di
doctrina, più e meglio che altrove: dato che la doctrina, secondo il capitolare lotaringio, era dappertutto in decadenza assoluta per la mala volontà
dei vescovi, restii a promuoverne la fioritura. E in realtà la Francia e l'Italia vedevano allora, sotto forme diverse, compiersi da parte dell'episcopato uno
sforzo concorde per ottenere che l'autorità regia staccasse la scuola laica dall'episcopalc ed esimesse il clero dall'obbligo di istruire i laici: questo appunto è
il risultato della riforma di Lotario, la quale istituisce scuole apposite per i laici in ciascuna delle principali città, salvo che a Ivrea. Ciò induce anche a
ritenere che la doctrina di cui parla Lotario non fosse esclusivamente ecclesiastica, come credette il Giesebrecht, ma anche letteraria e liberale (Novati).
Osserviamo anche, un momento, l'opera parallela del potere pontificio: un canone (il 34°) di Eugenio II stabilisce nell'826 per la coltura ecclesiastica
che in tutti i vescovati, e pievi sottoposte, e in ogni parte si provveda a porre maestri di lettere, d'arti liberali, e dei «sancta dogmata»: la Chiesa
non voleva restare seconda al potere civile nemmeno su questa strada, dopo che per breve tratto essi erano proceduti di pari passo, sotto Carlo Magno. E voleva
anche riservare l'istruzione così impartita ai propri gregari: il canone eugeniano non esclude ancora i laici, ma li esclude il concilio convocato a Roma nell'853
da Leone IV, concedendo inoltre la preferenza, nelle scuole per tal modo precluse a chi non intendesse farsi prete, all'insegnamento ecclesiastico, sopra
l'insegnamento delle arti liberali, del quale si poteva nelle pievi anche far a meno, non trovandosene agevolmente maestri. Ma dove si preparavano allora, in
Liguria, gli studenti laici che intendevano frequentare lo studio regio di Pavia o di Torino? Perché certo non v'andarono senza qualche notizia elementare, che
l'insegnamento di Dungal certamente presupponeva: e forse poterono riceverla nelle scuole parrocchiali, finché vi furono tollerati. Piccole scuole sperdute per i
monti di Liguria o affacciate sul mare, all'ombra di un campanile: piccole e modestissime conservatrici di un tesoretto più tenue forse che altrove, ma appunto per
questo più caro.
Le scuole ecclesiastiche dopo il Mille
A queste scuole ecclesiastiche restò legato il filo sottile della coltura ligure attraverso i secoli post-carolingi, in mezzo alla nuova decadenza della coltura
italiana. Ma questa decadenza, più apparente che reale, celava in sé il germe della nuova coltura ecclesiastica: se durante il secolo X l'Italia rimase assente dal
movimento spirituale che si andava compiendo oltre le Alpi, le scuole del clero mantennero la loro tradizione: dal Piemonte, ove Attone II, vescovo di Vercelli,
proibendo ai laici (o meglio ai laicizzanti fautori della coltura pagana e liberale) di far scuola in presenza dei chierici, definiva rigidamente l'esclusività
dell'insegnamento ecclesiastico, - fino a Roma e all'Italia meridionale, nonostante l'invasione saracena. E anche nel secolo XI gli esodi numerosi dei dotti
italiani all'estero non tolsero che nella penisola avessero vita gli studi: anzi, poiché ne uscivano già addottrinati, essi sono la prova più palmare che vi
sussistevano le possibilità, se non di una produzione feconda, certo di una formazione culturale, almeno nella valle padana, da Bologna alla Novalesa. Troviamo però
Genova assente dai sincroni cataloghi di scuole, tutta presa com'era nel travaglio del suo nascimento politico, maturo ormai con la prima Crociata, che vide le
gesta di Guglielmo Caput mallei.
Certo la nuova e riformata scuola ecclesiastica non dovette (data la mancanza di notizie) penetrare a Genova prima di aver mosso passi nuovi dalle sue vecchie
basi, prima cioè del grande risveglio della legislazione scolastica pontificia sul finire del secolo XI: quando nel 1079 Gregorio VII faceva proclamare da un
concilio romano l'obbligo per tutti i vescovi di far insegnare nelle loro chiese le artes litterarum, precorrendo di un secolo, l'introduzione compiuta da
papa Alessandro III, di un insegnamento gratuito ai poveri impartibile nelle chiese per opera di un magister de beneficio, in una col divieto
dell'infeudazione simoniaca del diritto d'insegnamento. Veniva così a originarsi e a prender piede la dignità di magischola. che doveva ricevere nel 1179 la
sua sanzione dal pontefice avversario del Barbarossa: e dovette prender piede molto rapidamente se Alessandro III, legalizzandola, fu anche obbligato a combatterne
di già una degenerazione, quella simonia cioè per cui il magischola cedeva a prezzo il tutto o una parte delle sue funzioni didattiche, oppure esigeva un
compenso per conferire il semplice titolo d'insegnante. Lo stesso Innocenzo III, nel 1215, riconfermando l'insegnamento gratuito nella grammatica facultate et
aliis, condannava i maestri ecclesiastici che contravvenivano alla gratuità della scuola: ma in pari tempo dava ormai l'ultimo tocco a questa caratteristica
istituzione e, dentro i limiti della più stretta onestà, tendeva ad assicurarle il monopolio dell'insegnamento.
Il magister scholarum, titolo di cui magischola è la consueta abbreviazione, poteva delegare altri ad regere scholas, ma ne conservava la
suprema direzione, in uno col diritto di attribuire la licentia docendi, che era ad un tempo il titolo di merito e il permesso pratico dell'insegnante. In
mezzo a una popolazione indotta, a un clero scarsamente erudito, questo magischola era non solo un prelato autorevole, ma una persona d'importanza politica,
specialmente se al sapere univa l'abilità. A Genova, - che è, dopo Milano, la città in cui egli assurge più presto a grande potere, - troviamo che nel 1179
l'arcivescovo Ugo partiva proprio per quel concilio lateranense, da cui dovevano uscire importantissime decisioni scolastiche, accompagnato da Ogerio Galletto,
magischola della cattedrale, fidando probabilmente nel sussidio della sua dottrina. Se nel 1191 una carta non più che ricorda un presbiter Jordanus,
magister della Collegiata di San Lorenzo; nel 1201 il magiscola genovese e l'abate di Borzone sono delegati da Innocenzo III a decidere sopra una questione di
diritto canonico fra l'arciprete di Rapallo e il rettore di Sant'Ambrogio della Costa: nel 1254 e nel 1299 due documenti appaiono redatti alla presenza e per opera
dello stesso dignitario (actum in domo Archiepiscopi ubi reguntur scole per magistrum Rubaldum; Actum in canonica S. Laurentii in camera magiscolae [text:
majusc] presbiteri Ugonis magistri scolar. Janue): e fra i testimoni dei capitoli di pace conclusi dai Genovesi coi Pisani per possesso della Sardegna e
della Corsica c'è anche Tedisio, magister scholarum S. Laurentii Ianue. Nel 1297 questo medesimo Tedisio presenta lettere pontificie nanti il notaio Corrado
Stefano: come nel 1304 un suo successore, Facino Cardinale, viene da Bonifacio VIII investito della prepostura di Lavagna. Ma a questo punto l'autorità del
magischola aveva già oltrepassato il suo apogeo e cadeva in progressiva diminuizione: tanto che vedremo dei magischolae discesi alla condizione di
insegnanti privati, alla pari con i laici. L'esiglio avignonese del potere ecclesiastico, togliendo anche a questo ramo della Chiesa la sorveglianza diretta e
imminente di cui aveva tanto bisogno, lo lasciò immergersi in una esautorante incapacità, per non dire corruzione.
Fin dalla seconda metà del secolo XII fiorì in Genova anche la scuola claustrale benedettina, portando anche qui le solide forme caratteristiche della coltura
cenobiale, riprese e ampliate poco tempo di poi dai Domenicani. In quello stesso scorcio di secolo le scuole di quest'ordine monastico cominciavano a raggiungere
appunto la loro prima maturità, consolidata più tardi nei capitoli sanciti proprio a Genova, nel 1304. In un documento, sinora inedito, del 30 aprile 1225 noi
vediamo il priore genovese dei Domenicani, Iacopo, far registrare da un notaio la carta costitutiva generale delle scuole superiori dell'ordine, emanata da Gregorio
IX: nell'intento probabile di realizzare senza indugio la nuova iniziativa. E invero nel 1229 la scuola esisteva già in forma di studio, retto dal Priore
medesimo con funzione di magister: quello Studio dove insegnò Giovanni Balbi, e che nel secolo XIV ereditò dal magiscola il diritto di conferire il titolo e
le insegne magistrali, sottraendolo all'infeudazione del clero. In questo Studio, secondo i capitoli del 1304, dovevano prosperare gli studi filosofici (sulla base
della logica nova e dei naturalia) e i teologici, affidati a maestri che avessero studiato in un pubblico studio, o Parigi, per un dato numero di
anni: la frequenza dei corsi parigini era anzi condizione sine qua non per poter commentare le Sentenze di Pier Lombardo, il testo accademico per
eccellenza della teologia. Così, nel secolo di Dante, Genova otteneva l'elevazione della sua coltura ecclesiastica nella misura di tutte le grandi città. Ma
l'interessante e il nuovo per noi è invece di seguire le sorti della coltura laica in Liguria dentro gli stessi limiti di tempo.
Le origini della coltura laica
Anche la coltura laica ebbe nel secolo XI, dopo lunga parentesi, un autonomo impulso. Drogone e lo studio parmense d'arti liberali, onde mossero i maestri di
grammatica più reputati: Pier Damiani non solo teologo e riformatore, ma dialettico retore giurista: gli inizi degli studi giuridici, che valorizzando una
precedente tradizione esegetica rimasta in vita a Roma e a Ravenna e in Toscana, riconquistavano nella scuola pavese l'indirizzo romanistico e preparavano la
propria rinascita a Bologna per il secolo XII: tutto conferiva a promuovere, unitamente alla relativa intransigenza del clero, uno spirito nuovo di laicità, consono
all'epoca nascente dei liberi Comuni, quando da Palermo l'imperatore svevo donerebbe all'Occidente il nuovo tesoro delle traduzioni di Aristotele e all'Oriente
lancierebbe il dubbio sottile delle sue questioni filosofiche. Questo ambiente spirituale rappresentò anche la via di due correnti per noi assai importanti:
l'epistolografia e il notariato. Dal 1000 al 1300 è il momento tipico dell'ars dictandi, dal Breviarium de dictamine di Alberico da Montecassino al
cursus romano e ai trattati di Guido Faba: la stesura di una lettera nelle più varie forme e con i più vari contenuti diventa la applicazione di una scienza
pratica, raffinata e sottile. In pari tempo dal notaio chierico dei secoli barbari, quando esso non era più che lo scrivano di fiducia in veste talare (presbyter
scriba), si passa definitivamente al notaio laico, fulcro della vita cittadina. La secolarizzazione del notariato, avviata già da Carlo Magno, cominciò a
prender terreno in Italia nella seconda metà del nono secolo, ma solo dopo il Mille potè dirsi davvero diffusa e attuata, sì da acquistare una crescente e notevole
attività a questo ufficio. Tutto si faceva per mezzo del notaio, pronto anche per le strade anguste e ritorte agli ordini dei contraenti, con il calamaio alla
cintola e il registro sotto il braccio: tutto, e anche i contratti scolastici. Ma i notai non furono solo un tramite della società e della coltura: ebbero altresì
una funzione autonoma, attuando nella propria preparazione quella mescolanza di studi retorici e giuridici, che significava sì un abbassamento di livello degli uni
e degli altri, ma era pure una via per farli sboccare nella vita e volgarizzarli: in un momento spiritualmente così vivace come quel periodo svevo e comunale da cui
nacque la letteratura italiana.
In questo tempo, come nel secolo IX a Pavia, gli studenti genovesi si recavano in gran numero a Bologna, dove i registri dell'Università e dei pubblici notai
spesseggiano di Fieschi, di Adorno, e di altri liguri parentadi. Ma che proprio studenti e studiosi laici dovessero lasciare la patria nihil inde sperantes,
come se fosse posto al bando, per chi non vestisse abito di chierico, ogni culto di Minerva? Un giudizio di questo genere sarebbe molto inesatto, tanto più oggi che
un nuovo gruppo di documenti ci autorizza ad affermare la priorità cronologica (almeno in fatto di documentazione) della nuova scuola laica in Genova rispetto alle
altre città, che tanto e sì presto la vinsero sulla nostra per la fioritura letteraria a cui diedero asilo. Ma se esse ebbero la palma della poesia e lo scettro
dell'arte, a Genova spettò il compito e il merito, più umile ma non meno fecondo, di foggiare per la prima il tipo dei nuovi ordinamenti scolastici, destinati a
dominare per tutto il basso Medioevo, attraverso l'Umanesimo e il Rinascimento, fino alla rivoluzione scolastica operata dalla Controriforma. Limitiamoci qui,
innanzi a tanto spazio di ricerca, a ricostruire il periodo iniziale e più delicato di quello sviluppo secolare, che ci mostra la scuola laica già formata a Genova
nell'anno stesso che S. Francesco fondava la sua Regola, e addirittura vittoriosa quando l'Alighieri, morendo, traeva seco nella tomba il Medioevo. Ma certo le
origini così rapide di una coltura professionale e borghese in forma scolastica (che non è il momento primo né il più semplice) qui dove minori parevano gli stimoli
dell'ambiente, e anzi l'ambiente stesso rappresentava una difficoltà, non sono prive di profondo significato. Perché esse danno una testimonianza storica quando mai
forte in pro del carattere lontanamente preumanistico e tutto laico, anzi (nel miglior senso) plebeo del nostro Dugento letterario. La libertà politica delle
Repubbliche e dei Comuni aveva ormai raggiunto tanta interiorità da manifestarsi ulteriormente in una nuova libertà della lingua, dell'arte, del pensiero: e che ciò
avvenisse prestissimo anche in Genova, povera di tradizioni culturali e di dottrina, a cui da poco soltanto i suoi cronisti lapidari avevano impreso a procurare una
nutrita coscienza storica, è fatto della massima importanza.
Del resto, non è Genova, egualmente, delle prime città che donassero all'Italia i frutti del volgare, per quanto rudi e incolti? Non si satollò essa senza
indugio del pane orzato con cui Dante sperava di satollare le migliaia, e a lui soperchierebbero le sporte piene?
La fiera donna ischernente il giullare provenzale nel contrasto di Rambaut de Vaqueiras, con quel suo dialetto tutto irto di spiranti («quod si per
obblivionem Januenses amitterent z litteram, vel mutire totaliter eos, vel novam reparare oporteret loquelam. Est enim z maxima pars corum locutionis:
que quidem littera non sine multa rìgiditate profertur») - salutava l'alba del nuovo sole, «lo quale surgerà dove l'usato tramonterà, e darà lume a
coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce». E a lei fanno eco, cent'anni dopo, i canti dialettali per il trionfo dei
Liguri sopra i Veneziani, a Laiazzo e a Scurzola (1294-1298). Né poteva essere un deserto dello spirito là dove era nato e cresciuto messer Percivalle Doria,
melanconico cantore della sua passione insoddisfatta, e dove Lanfranco Cigala, Simone Doria, Bonifacio Calvo rimavano con l'animo pregno di tutte le leggi del gaio
sapere; dove fioriva quella scuola cartografica genovese da cui traevano i loro artefici le officine più riputate del tempo, e dove si formò e si foggiò l'arte
maestra di Pietro Veschonte, dominatore delle coste e dei mari con la punta del suo bulino.
Le scuole laiche a Genova: forme, programmi e contratti
La scuola laica cominciò tuttavia da una forma assai modesta, l'apprendistato. Nel 1221 esso era già pervenuto a un alto grado di sviluppo e stava generando de
sé forme più raffinate: ma dovette regnare quasi da solo nel periodo precedente e non ancora in via di evoluzione. La scuola episcopale vedeva sorgersi contro anche
qui, come altrove, un emulo pericoloso nel rapporto fra maestro e garzone: fate che il maestro non insegni solo un'arte manuale, ma insieme delle nozioni teoriche:
tenete conto che queste nozioni per alcune arti erano l'essenziale e costituivano un nocciolo di buona cultura: e avrete l'apprendistato di carattere scolastico e
didascalico, frequente soprattutto presso i notai. Giacché questi, pronti sempre ad ogni angolo di via per soccorrere del registro e della penna i trafficanti
ignari d'ogni scrittura, - e gli scribae civitatis così come i cancellarii, costituivano quasi tutta la gente colta, fuori dei Capitoli e dei
Chiostri.
Ed ecco appunto il 16 febbraio 1221 un Magister Bartholomeus notarius, (il quale teneva una vera e propria scuola, perché il 21 gennaio dello stesso anno
lo vediamo rinnovare il contratto dei locali a questo scopo), assumere per cinque anni a proprio scolaro il figlio (Enrigetum) del banchiere Giovanni di
Cogorno, per insegnargli non solo il latino di sul Donato e sul Salterio, ma anche la propria disciplina e servirsene ad un tempo come di ripetitore per gli altri
alunni e di aiuto per le sue faccende. E il 20 settembre 1233 il guardator Bertramo da Torriglia affida suo figlio Nicolino allo scriba Lanterno (o
Lantellino), per tre anni, col patto che al ragazzo lo scrivano insegnerà la sua arte e quegli lavorerà per lui versandogli due terzi dei proventi corrispostigli
per tali lavori. Ma sommamente importante è un documento del 5 agosto 1237, da cui appare come esistessero a Genova già in quest'epoca scuole di giure, ossia
scribendi et legendi in scientia legum. Uno studente povero aveva infatti preso a prestito i denari per poter frequentarle. Ma queste scuole di giure
dovevano avere un carattere unicamente professionale, senza indirizzi teorici: e costituivano quindi come l'apice d'una gradazione di vari insegnamenti dello stesso
genere (ne conosciamo già due: per l'arte notarile e per quella dello scrivano).
L'insegnamento inferiore (non latinantes), il più diffuso certamente, aveva lo stesso carattere tecnico e pratico di questa istruzione superiore: e ci si
manifesta tanto come necessaria preparazione ad essa (con lo studio del Donato e del Salterio per l'apprendista notaio) quanto con scopi indipendenti. La sua forma
più semplice era dapprima l'insegnamento della sola lettura, sopra il Salterio prima e sopra il Donato in un secondo studio: senza che ne fosse intesa, per il
momento, dal discente la lingua. Così il Mag. scol. Pagano promette di istruire in questa maniera i due figli, Guglielmino e Manuele, del banchiere Corrado
Calvo, addì 5 agosto 1248: e non diversa dottrina avrà impartito lo stesso insegnante ai sei bambini di Iacopo Malocello, tolti in sua custodia per un anno dal 15
gennaio 1253. Una forma più compiuta, con fine ben determinato, era la grammatica communiter edocenda secundum mercatores Ianue: vale a dire l'apprendimento
delle nozioni di lingua e di aritmetica necessarie alla contabilità commerciale del tempo, come ci risulta anche dai libri di banchieri senesi e fiorentini ancor
conservatici. A tale scopo una ricca popolana, Beatrice moglie di Bonovassallo Garafia, stipulava il 12 febbraio 1266 un contratto triennale con il maestro Oberto
da Lavagna, che avrebbe insegnato al figlio di lei Antonino tale scienza appunto. E se veniamo al Trecento ecco un altro maestro di cotesta grammatica, Salvo da
Pontremoli, che nel 1310, a Calendimaggio, assumendo a discepolo il figlio, Bartolomeo, del genovese Giovanni Piacentini, promette al padre «quod dictus
Bartolomeus sciet legere instrumenta et scripturas facere breves et quod erit sufficiens pro serviendo in quadam apotheca pro scriba»: e nel 1317, ai 30 di
marzo, «stabilisce con Antonio da Tribogna di ammaestrare suo figlio tanto che nello spazio di quattro anni sappia leggere e anche scrivere lettere brevi, per
bene e a sufficienza, secondo l'uso dei mercanti di Genova»; lo stesso Salvo da Pontremoli che ai 5 dicembre 1315 era creditore verso Corrado de Resto
quondam Gulielmi per la redazione di un documento e di libri di conto e per aver tenuto a pensione suo figlio (e probabilmente anche insegnatogli, dato che
aveva scuole sue proprie).
Ma il Donato e il Salterio non servivano soltanto per uso di sillabario: la loro secolare funzione era stata ed era quella di libri di testo tipici per
l'avviamento agli studi classici. I quali, se non ebbero da principio il grande sviluppo ottenuto dalle forme più rudi, ma anche più pratiche di coltura, non
tardarono tuttavia a prender piede anche in Genova, assai prima che non si sia creduto. L'undici giugno 1267 noi vediamo Guglielmo Crispino, quondam Morandi,
stipulare con il maestro Benvenuto Lavaggio un contratto in forza del quale detto maestro doveva insegnare al fratello di lui Obertino, dal San Michele del '67 alla
Pasqua del '68, l'ars grammatice e l'ars loice (poiché si parla anzi di artes loicales, possiamo intendere tutto il Trivio), stando l'alunno
presso di lui a pensione: e poi s'impegnava, il maestro, una volta che Obertino fosse padrone di queste scienze, a prenderlo nella sua scuola come ripetitore
stipendiato. Dove si vede l'apprendistato trasportarsi anche alla forma più elevata e aristocratica dell'insegnamento, e diventare un vero e proprio tirocinio,
scientifico e didattico ad un tempo. Le condizioni dell'insegnamento, i suoi termini, il suo programma venivano dunque fissati costantemente previo regolare
contratto, di carattere strettamente individuale (solo verso la fine del Trecento si ha notizia di maestri stipendiati dal Comune), steso subito all'atto della
stipulazione, nella casa del padre di famiglia o nella scuola del maestro o per via, in un portico, davanti o dentro una chiesa o una bottega o una casa, in un
angolo qualsiasi (il notaio era pronto dappertutto). E la piena legalità del contratto era garantita da una pena pecuniaria superiore al compenso pattuito, e magari
doppia o tripla, e dalla obligatio di tutti i beni, habita et habenda, delle due parti, per il caso che 1'una o l'altra non agisse, come prometteva,
bona fide et sine fraude.
Quando si trattava di insegnamento e di apprendistato ad un tempo, gl'impegni bilaterali erano molto più complessi che nel caso di semplice insegnamento. Il
padre, o chi per lui, si obbligava che lo scolaro non avrebbe fatto frode al maestro né di robe né di eventuali suoi compensi; che sarebbe sempre andato a bottega e
a scuola; che nel caso di una sua fuga avrebbe provveduto a ricondurlo presso il maestro; e che di ogni danno sarebbe lui garante e responsabile. Per contro il
maestro non solo prometteva di istruire il discente con tutta serietà e compiutezza, ma di non imporgli mai fatiche ed oneri troppo gravi, e di non maltrattarlo.
Abbiamo visto come talora entrasse in questi impegni del maestro anche l'assunzione al proprio servizio del discente stesso, una volta edotto. Il più delle volte il
maestro riceveva per l'apprendistato un compenso diretto: ma se il garzone era in grado di far subito un lavoro redditizio, allora godeva della maggior parte dei
frutti di tale lavoro, a titolo di compenso.
Nel caso dell' insegnamento non immediatamente professionale, troviamo che il salario, pattuito globalmente, era versato al maestro o in mensilità o in
annualità, oppure in rate a tempo fisso, delle quali l'ultima e più importante (talora la totalità del compenso) egli non riceveva se l'alunno non si provava del
tutto istruito nel campo prescelto: e doveva, il maestro, continuare in questo caso l'insegnamento fino a realizzare il suo compito. Così la prudenza commerciale
dei Genovesi, con un espediente diretto ad assicurarsi la migliore esecuzione del contratto, poneva insieme uno stimolo tutt'altro che trascurabile per lo
svolgimento dell'attività didattica.
Maestri e scuole
I maestri erano in gran parte forestieri, o almeno del contado, specialmente orientale: ma in ogni caso si acclimatavano ben presto, e la superiorità della
coltura, ancorché minima, agevolava la loro partecipazione diretta alla vita cittadina. La stessa rigidità delle forme contrattuali per questo primo secolo, mentre
esse si semplificano e si attenuano man mano che si procede verso l'Umanesimo e il Rinascimento, ci attesta il gran conto in cui si teneva il sapere e l'importanza
che si annetteva alla scuola: sebbene, d'altra parte, ce ne significhi anche la scarsa diffusione.
Noi possiamo seguire, molto da lontano per vero, l'incremento della classe magistrale attraverso i documenti giuridici non scolastici dove i suoi membri
compaiono come testimonii o come attori. Così in un atto del 26 agosto 1251 troviamo il Magister Durandus scolarum che dichiara sciolto Bonifacio quondam
Alberti de Vexina dall'impegno che questi aveva con lui per averlo Durando liberato dal carcere. Testimonia in un atto del 14 aprile 1273 (qui oltre citato) il
maestro Baliano da Novara, e in altro del 3 gennaio 1282 un presbyter Guido de Manarolio, magister scolarum.
Ma l'incremento maggiore è segnato dallo stesso sviluppo esteriore dell'attività didattica. Il maestro non insegna più, ben presto, a un solo alunno o ad alunni
di una sola famiglia (solo una volta troviamo un padre che affidando, d'un tratto, sei propri figli ad un insegnante, esige che questi non ne prenda oltre un solo
di più, salvo suo consenso): ma ne riceve molti e li raccoglie in un'aula improvvisata, in una sua scoletta. Così egli non è solo magister, ma altresì
rector scolarum: e si dice che regit scolas. La scuola è alloggiata in un locale preso in affitto, non sempre con criteri igienici. Come già
avvertimmo, conosciamo il contratto di rinnovamento della locazione tra un Thomas fornarius filius quondam Ugonis fornarii e il maestro-notaio Bartolomeo. Il
rinnovamento (21 gennaio 1221) è triennale, dietro una pensio annua di trentasei soldi genovesi in moneta povera: ma il locale è una volta nella
domus del fornaio, e il padrone deve promettere all'affittuario di fare aprire una finestra, ut melius luceat, a proprie spese, e così anche di far
purgari trexendam. Così il 17 agosto 1229 un Johannes affitta al maestro Bernardo de Landro un analogo voltone della propria casa (cum ingressu et
exito suo) attualmente occupato da un maestro Baldo, a partire dal 1° ottobre successivo e per un anno, al prezzo di soldi quaranta e con la promessa di non
fare aumenti. Ora, che già nel primo decennio per il quale abbiamo notizia di scuole laiche a Genova si avessero tali contratti di locazione, indica manifestamente
come si debbano supporre dei loro inizi anteriori anche al 1221, sebbene a noi ignoti.
E l'incremento prosegue con i patti di associazione diretta fra coppie di maestri, dividentisi il locale e il guadagno. A tale scopo si accordavano, per esempio
il 25 maggio 1248, i maestri Alberto da Pistoia e Andreolo de Ratione: promettendo ciascuno all'altro per conto suo di insegnare in comune con lui nello stesso
locale, così l'onere di metà della spesa d'affitto e l'impegno di versargli metà dei propri profitti. Ma il primo dei due, come iniziatore dell'impresa, doveva per
il primo mese riscuoter lui omnes introitus et denarios scolarum senza spartizione. La cosa per altro non era nuova, dato che sei mesi prima (25 febbraio
1248) convenivano per ricomporre le loro questioni due altri maestri, Alberto da Casale e Rubaldo da Santo Stefano, i quali il 23 febbraio 1247, precisamente un
anno addietro, avevano contratto un analogo accordo e poi erano entrati in dissenso per irregolarità nella divisione. Tra i consiglieri di Rubaldo nella
conciliazione è un altro maestro, Johannes de Morra.
Passeranno venticinque anni, e le scuole si vedranno fiorire tanto meglio che il 14 aprile 1273 il Magister Andreas Canonicus ecclesiae sancte Marie de
Castro, e il Magister Wilielmus de Novara avranno bisogno di pattuire una mutua promessa amichevole, «quod ad annum unum proxime venturum aliquis
illorum non docebit nec accipiet in scolis suis aliquem puerum ex illis quos nunc habent». Dunque non più necessità di associazione per un rendimento maggiore
dell'opera didattica, ma necessità di limitare la concorrenza. E' quasi un microscopico esempio di Kartel scolastico.
Infine durante l'ultimo quarto del Dugento le scuole laiche a Genova sono ormai così numerose, e consumavano quindi tanto materiale scrittorio, che il 10 agosto
1286 due commercianti forestieri, Ponzio Ermengardo di Montpellier e Costantino Anglico (l'Inglese) trovano di loro pieno interesse la costituzione di un
mutuo consorzio decennale, accomunandovi la loro opera di lavorazione e vendita delle tavolette bianche e cerate per scrivere.
La corporazione dei maestri
Significativo quel canonico Andrea della Chiesa di Santa Maria di Castello che esercita le funzioni di maestro laico! Ormai le scuole ecclesiastiche e
claustrali erano in piena decadenza, o almeno oscurità: per non risorgere, dominatrici, se non con la Controriforma. La scuola secolare le vinceva e assorbiva, in
quanto forze vitali, con la sua ascesa irresistibile. E in quest'ascesa le energie prima disperse dell'insegnamento extraconfessionale si venivano organizzando e
cementando, fino a porre le origini dell'istituto magistrale corporativo, che una volta sorto regnerà in Genova per due secoli e più, indisturbato.
Il primo atto in cui compaia in forma costituita il collegio dei maestri è il noto documento notarile del 27 maggio 1298, registrante la scelta fatta da alcuni
maestri, a nome loro e di chiunque dei loro et Universitatis et collegii universorum magistrorum grammatice de civitate et suburbiis Ianue, di un notaio del
collegio e sindaco e attore e procuratore e nunzio speciale ad omnes causas lites et questiones, nella persona di Guglielmo d'Albaro. Sede dell'atto è
l'Arcivescovado, e tra gli undici magistri gramatice che lo firmarono dopo i due consoli dell'arte, Rufino de Terdona e Tomaso de Firmo (l'uno dunque
tortonese, l'altro marchigiano), troviamo anche un magister Leonardus canonicus ecclesie sancti Ambrosii. «Parole non ci appulcro»: la Chiesa non
era più se non testimone e parte, invece che suprema autorità. Nel 1304, ai 4 di luglio, ecco di nuovo il collegio dei maestri, raccolto nella chiesa di
Sant'Ambrogio, rogare l'accezione di due nuovi insegnanti, Percivalle da Zoagli e Pagano de Calexi, previo un esame che li aveva dimostrati suffìcientes in
scientia grammaticali, e autorizzarli ad esercitare in Genova l'arte loro, nonché risiedervi liberamente. E questa alla funzione giuridica (che in addietro era
privilegio esclusivo del magiscola di S. Lorenzo) ci attesta la piena legalità ormai raggiunta dalla corporazione. La quale poi il 5 dicembre 1315 sceglieva
ancora, nella chiesa di S. Lorenzo, un suo certum nuncium et procuratorem, che fu questa volta Pietro di Sant'Ambrogio. Qui non si parla più di semplici
consules, ma di un consul et rector: doppio titolo della stessa carica che ne significa la cresciuta importanza. Ché anzi il termine rector
prevale già nel citato documento del 1304: e anche qui il magistrato è uno solo, come rimase poi in tutto il Rinascimento.
Erano queste le basi di tutto il magnifico sviluppo, che ebbe poi la corporazione durante l'Umanesimo e il Rinascimento, e di cui restò monumento insigne lo
statuto del 1467. Si poteva dire pertanto che i Genovesi fossero «pien d'ogni magagna», quando li visitò l'Esule sdegnoso e peregrinante in cerca di
onestà e di pace? No, certo: ma l'immensa distanza che intercedeva tra la loro comune mentalità e quella di Dante non permetteva a Lui di scorgere quel valore
spirituale che stava celato nell'apparente idolatria del commercio, estesa alla stessa cultura: e quanta autonomia e, sebben contenuta, originalità vivesse nella
modesta vita delle libere scuole genovesi, prime tra le prime a sorgere, avanti ancora che a Firenze s'udisse l'eloquente esortazione di Brunetto. Qui, è vero, non
s'insegnava come l'uom si eterna: bensì come poteva ogni figlio del mare tener sotto i suoi registri, come sotto le bombarde delle galee, i potenti della
terra: qui si faceva, non l'eterno, ma il terreno e marino spirito della grandezza.