Le Scienze – luglio 1996
Aspetti biologici e storici di una importante risorsa del Mediterraneo che necessita di una adeguata politica di gestione
Il corallo rosso ha da sempre affascinato l'uomo, il quale anche in tempi lontanissimi ne faceva l'uso più diversificato, come pietra preziosa e ornamento,
afrodisiaco, medicamento, moneta, oggetto apotropaico. Frammenti di corallo, usati probabilmente come amuleti, sono stati rinvenuti in sepolture di circa 30.000
anni fa a Chamblades, in Svizzera, e nella necropoli preistorica di Vinica, in Slovenia; peraltro ciò testimonia un attivo commercio del prodotto anche in luoghi
distanti da quelli di raccolta.
L'uomo si è interrogato a lungo sulla natura di questa «sostanza», rossa come il sangue. L'alessandrino filosofo Teofrasto (370-288 a.C.) fu il primo ad attribuire al corallo natura di vivente e non di minerale (« simile ad una radice che cresce nel mare»), mentre Ovidio (43 a.C.-17 d.C.), nelle Metamorfosi, ne collega l'origine al mito della gorgone Medusa (dallo sguardo pietrificatore), decapitata da Perseo che « distese giunchi nati sott'acqua e vi depose il capo di Medusa I giunchi appena colti e il loro ancor vivo midollo poroso assorbirono il forte potere [pietrificatore, N.d.A.] del mostro; al suo contatto s'indurirono e ricevettero una rigidezza ignota a rami e fronde Pur oggi ai coralli resta immutata la natura: al contatto dell'aria assumono durezza; e quanto nell'acqua era flessibile giunco, fuori dell'acqua diventa dura pietra». La felice intuizione di epoca ellenistica andò dimenticata col tempo se ancora nel XVI secolo Giovanni Plateario, medico della Scuola salernitana, lo considerava « composto di terreno frammisto ad un certo umore umido e vischioso delle grotte marine che si trasforma in pietra».
Finalmente, nel 1599, Ferrante Imperato nel trattato Dell'historia naturale descrive il corallo come organismo vivente, appartenente però al regno vegetale.
Nel 1706 l'oceanografo Luigi Ferdinando Marsili ne descrive addirittura i «fiorellini bianchi»; successivamente un suo allievo, il medico francese
Andrea Peyssonnel, per primo si rende conto che «
il fiore di questa petrosa pianta è in verità null'altro che un insetto simile ad una piccola medusa o
polipo» e che, pertanto, «
il calice di questo preteso fiore è il corpo stesso dell'animale che fuoriesce dalla sua cella». In realtà, già
un secolo prima due italiani, l'alchimista e astrologo napoletano Filippo Finella e il livornese Diacinto Cestoni, avevano proposto, indipendentemente l'uno
dall'altro, che il corallo avesse natura animale, ma non si volle dare loro credito in ambito accademico. Ancora oggi, a più di due secoli dalla definitiva
risoluzione dell'interrogativo «minerale-vegetale-animale», nella corrente cultura popolare il corallo viene erroneamente considerato una pietra o
tuttalpiù una pianta marina.
Il corallo rosso (Corallium rubrum L., 1758) è un animale coloniale marino, appartenente al grande phylum dei Celenterati (o Cnidari), che, tra
l'altro, comprende organismi come le idre, le meduse e le attinie. La forma generalmente «a ventaglio» e la struttura anatomica della colonia sono
tipiche dell'ordine dei Gorgonacei (sottoclasse Alcionari, classe Antozoi), cui appartiene. Dal punto di vista tassonomico, contrariamente a quanto si possa
credere, il corallo rosso ha una parentela solo molto lontana con gli organismi costruttori delle famose «barriere coralline» dei mari tropicali.
Queste, infatti, sono costituite in massima parte da «madrepore», celenterati che fanno parte addirittura di una sottoclasse (Zoantharia) diversa
da quella (Alcyonaria) cui appartengono i «coralli» nel senso proprio del termine, cioè le specie del genere Corallium. L'equivoco nasce
soprattutto dal fatto che il termine corals viene correntemente utilizzato in lingua inglese anche per indicare le madrepore. Pertanto, sarebbe più corretto
parlare di «barriere madreporiche» piuttosto che di «barriere coralline»; peraltro i coralli «veri», per le caratteristiche
ecologiche che verranno discusse in seguito, non vivono in habitat di bassa profondità e molto soleggiati, quali sono tipicamente quelli delle barriere madreporiche.
La riproduzione
Per quanto riguarda il ciclo riproduttivo è a tutt'oggi un importante riferimento lo studio condotto nel 1864 da Henri-Félix de Lacaze-Duthiers. Lo studioso
francese parla di colonie di corallo «unisessuate» anche se, ammettendo la possibilità di rinvenire polipi maschili e polipi femminili nella stessa
colonia, non escludeva del tutto l'ermafroditismo. Dopo lunghe indagini in laboratorio su un gran numero di colonie, nel 1972 quest'ultima possibilità fu
decisamente esclusa dal biologo italiano Marco Vighi, che parlò di «gonocorismo assoluto», osservando che al più è possibile rinvenire nella colonia
alcuni polipi sprovvisti di apparato riproduttore ma morfologicamente identici a quelli fertili. La concentrazione maggiore di questi polipi con gonadi non ancora
sviluppate si riscontrerebbe soprattutto nelle zone apicali della colonia, dove più intensa è la formazione di nuovi individui per «gemmazione», un tipo
di riproduzione asessuata dei polipi mediante la quale la colonia si accresce aumentando di dimensioni e numero di ramificazioni.
La riproduzione sessuata consente invece la formazione di una nuova colonia. In questo caso, occorre l'intervento di due colonie «genitrici», una con polipi maschi e una con polipi femmine. I gameti maschili emessi dai polipi di una colonia vanno a fecondare i gameti femminili contenuti nei polipi dell'altra. Occorrono dai 20 ai 30 giorni di «incubazione» (brooding) perché, all'interno di ciascun polipo femmina fecondato, dallo zigote si sviluppi una piatta larva ciliata della grandezza di pochi millimetri (planula) che, fuoriuscendo dall'apertura boccale, inizia a nuotare libera nell'acqua. Dopo un periodo di tempo variabile dai 4 ai 12 giorni, la planula si fissa al substrato e metamorfosa in un piccolo polipo. Quest'ultimo inizia a secernere le spicole calcaree del futuro sclerasse e, dopo circa un mese, forma un altro polipo per gemmazione; così, per gemmazioni successive dei polipi, inizierà a svilupparsi una nuova colonia. Il corallo si riproduce una sola volta all'anno, generalmente in estate; tuttavia sembra che il periodo vari anche in rapporto all'area geografica, poiché le segnalazioni di autori che hanno lavorato in diverse aree del Mediterraneo non sono del tutto concordi. Differente è, poi, il ciclo di maturazione delle gonadi, che è annuale per quelle maschili e biennale per quelle femminili.
Presso la Stazione zoologica di Napoli, è stata recentemente osservata la produzione di propaguli di corallo rosso per distacco delle parti apicali di alcune
colonie, in seguito a un processo di autotomia. I frammenti di colonia, contenenti alcuni polipi, che si staccano dalla colonia madre, cadono sul substrato e sono
in grado di fissarsi a esso mediante la formazione un disco basale adesivo; i polipi, poi, tramite una normale riproduzione per gemmazione danno luogo a una nuova
colonia. Si tratta, quindi, di un processo di riproduzione asessuata, che però riguarda l'intera colonia e non i singoli polipi. Similmente, anche frammenti di
colonie rotti deliberatamente durante la sperimentazione hanno prodotto ciascuno un disco basale, dando luogo a colonie indipendenti sul substrato.
Questo particolare aspetto della strategia vitale del corallo rosso merita ulteriori approfondimenti, soprattutto mediante adeguate osservazioni su popolazioni
in natura. Infatti, la riproduzione per frammentazione, oltre ad aprire interessanti prospettive per la gestione produttiva della specie (si pensi per esempio al
ripopolamento dei banchi per trapianto di frammenti di colonie), presenta importanti implicazioni anche nella biologia delle popolazioni, dato che le nuove colonie
così formate, a differenza di quelle derivanti dalla riproduzione sessuata, hanno tutte lo stesso patrimonio genetico della colonia madre.
L'habitat
Tra i vari fattori ambientali, è soprattutto la scarsa intensità luminosa a favorire la fissazione delle larve e lo sviluppo delle colonie, sicché il corallo
passa da habitat criptofilici ad habitat acrofilici con l'aumentare della profondità e con la conseguente diminuzione dell'intensità luminosa. Quindi il corallo si
può rinvenire sia a pochissimi metri di profondità, ma esclusivamente sulle volte delle cavità sottomarine, sia sulle superfici rocciose a oltre 100 metri di
profondità (la profondità massima alla quale è stato segnalato nel Mediterraneo è di 280 metri).
Secondo alcuni studiosi, il corallo rosso troverebbe condizioni ottimali di vita a un'irradianza relativa compresa tra il 2,1 e l'1 per cento (ma tollera valori tra
lo 0,01 e l'11 per cento) di quella presente alla superficie del mare in un giorno soleggiato; questi valori si riscontrano generalmente a una profondità compresa
tra 40 e 80 metri, in acque abbastanza limpide. E' probabile, infatti, che il corallo prediliga habitat caratterizzati da un delicato equilibrio fra la quantità di
particellato presente nell'acqua, che deve essere sufficiente al sostentamento alimentare delle colonie, e il regime idrodinamico, che deve essere abbastanza
elevato per mantenere il particellato in sospensione, evitando una eccessiva sedimentazione con conseguente soffocamento dei polipi.
Esistono, poi, organismi strettamente associati al corallo rosso, che a loro volta lo utilizzano come habitat esclusivo. Si tratta di due specie dalla biologia
poco nota, che vivono cibandosi e riproducendosi sui rami delle colonie: la lumachina (mollusco, gasteropode) Pseudosimnia carnea e il rarissimo gamberetto
(crostaceo, decapode) Ballssia gasti. Quasi certamente la prima, come le altre specie cogeneriche, si nutre del cenosarco e dei polipi del gorgonaceo; invece
è probabile che il secondo si alimenti asportando il film batterico e il muco presenti sulla superficie della colonia, fungendo così da «pulitore».
Forma delle colonie
Il corallo rosso è un organismo sessile fissato al substrato solido, che si nutre «passivamente», ossia raccogliendo ciò che il flusso d'acqua
veicola nei suoi dintorni; le colonie, quindi, durante la crescita tendono ad assumere forme tali da ottimizzare i processi di cattura dell'alimento da parte dei
polipi. Di conseguenza la diversa morfologia delle colonie è strettamente correlata sia all'intensità sia alla direzione delle correnti portatrici di alimento.
Studi condotti su diversi animali marini sessili, e soprattutto sui gorgonacei, hanno dimostrato come la crescita in verticale delle colonie sia inversamente
proporzionale all'intensità del flusso di corrente: pertanto colonie allungate e con ramificazioni sottili sarebbero caratteristiche di ambienti a basso
idrodinamismo, mentre colonie tozze e con ramificazioni robuste sarebbero caratteristiche di ambienti a elevato idrodinamismo. Ancora, la disposizione planare
(«a ventaglio») delle ramificazioni è caratteristica delle colonie soggette a flussi di corrente unidimensionali (come per lo più avviene lungo le
«pettate»), mentre la disposizione in più piani («a cespuglio») è caratteristica di colonie soggette a flussi di corrente bidimensionali
(più frequenti sulle «chiane»). La morfologia delle colonie, oltre a fornire tali utili informazioni sulle caratteristiche idrodinamiche dell'habitat di
provenienza, ha una notevole rilevanza anche di tipo commerciale poiché le colonie «a ventaglio» consentono una lavorazione migliore di quelle «a
cespuglio».
Crescita delle colonie
Le colonie raggiungono in media dimensioni di 20-25 centimetri di altezza e 10-15 centimetri di larghezza, con ramificazioni di diametro variabile da 1 a 15
millimetri. La loro velocità di crescita è correlata all'età, alla forma (disposizione delle ramificazioni) e alla densità della popolazione, e può quindi essere
molto variabile. Biologi della Stazione marina di Endoume, presso Marsiglia, hanno rilevato che colonie giovani, non ancora ramificate, incrementano la loro altezza
di 4-6 millimetri l'anno, mentre colonie dotate di ramificazioni secondarie avrebbero un allungamento dei rami di 2-5 millimetri l'anno. Peraltro, le informazioni
fornite dai corallari sono molto discordanti: alcuni danno un tasso di allungamento annuo dei rami di 1-7 centimetri, altri addirittura di 7-15 centimetri.
L'incremento del diametro di base, che dovrebbe essere di circa 1 millimetro l'anno, sembra essere un parametro di crescita delle colonie più costante.
Tuttavia, anche in questo caso si riscontra una certa variabilità legata alla densità delle popolazioni. Infatti, studi demografici in situ hanno evidenziato
che, per effetto della competizione intraspecifica per lo spazio e l'alimento, le colonie di maggiori dimensioni si rinvengono in banchi alquanto radi e, al
contrario, popolazioni molto dense sono costituite mediamente da colonie di piccole dimensioni. Solo orientativamente si può proporre l'esempio di un banco con una
densità media di 400 colonie per metro quadrato, aventi dimensioni medie di 5-6 centimetri di altezza e 5 millimetri di diametro di base.
Una stima precisa dell'età in anni può essere effettuata contando, nelle sezioni di sclerasse, il numero di bande concentriche. Infatti, similmente a quanto
accade nel tronco degli alberi, anche nello sclerasse del corallo si alternano, con frequenza annuale, strati deposizionali di differente tonalità di rosso.
Distribuzione geografica
Corallium rubrum è considerata specie del Mediterraneo, anche se la sua presenza è stata segnalata nell'Atlantico orientale, dal Portogallo meridionale
alle isole Canarie e, lungo la costa africana, fino a Capo Verde.
Nel Mediterraneo, tuttavia, nonostante la copiosa letteratura biologica, si ha un quadro incompleto e spesso contraddittorio della reale distribuzione della
specie. Per esempio, solo nel 1983, durante la prima Consulta tecnico-scientifica della FAO sul corallo rosso, è stata segnalata per la prima volta, dalle imprese
trasformatrici del settore, l'esistenza di banchi di corallo sfruttati commercialmente nel Mediterraneo orientale. In realtà, già dall'inizio del secolo i greci
avevano denunciato un'attiva raccolta da parte di pescatori italiani intorno alle isole dell'Egeo, sebbene inutilmente le autorità locali tentassero di individuare
i banchi. Quanto poi all'Adriatico, il corallo è certamente presente lungo le coste orientali, dal golfo del Quarnaro alle coste greche e, probabilmente, anche
lungo quelle occidentali, a sud del Gargano; tuttavia anche per questo mare la localizzazione dei banchi è ancora incerta.
Nel bacino occidentale del Mediterraneo, la presenza del corallo rosso sulla piattaforma continentale è praticamente continua. Infatti si è a conoscenza di banchi
in Spagna, lungo le coste della Catalogna, di Valencia, della Murcia, di Granada, e fino a Gibilterra, e intorno alle Baleari, dove le coralline spagnole hanno
esplicato regolarmente la loro attività. In Francia i banchi maggiormente sfruttati sono quelli lungo le coste provenzali. Nella parte meridionale del bacino sono
segnalati banchi importanti lungo le coste della Tunisia, dell'Algeria e del Marocco.
Per quanto riguarda l'Italia, vi erano banchi di una certa consistenza lungo le coste tirreniche da Imperia fino a Reggio Calabria; in particolare in Campania
erano noti banchi nei golfi di Napoli (per esempio il banco del «Pampano» e quello «della Montagna») e di Salerno (presso gli isolotti dei
«Galli» e al largo di Punta Licosa).
Notissimi sono, poi, i banchi al largo delle isole maggiori; da segnalare sono quelli del Canale di Sicilia (come il banco «Scherchi»). Anche tutta
la costa occidentale della Sardegna, da Capo Teulada a S. Antioco, al litorale algherese (noto come «riviera dei coralli») è ricca di banchi
storicamente sfruttati per la raccolta di corallo; lo stesso dicasi per quelli delle Bocche di Bonifacio. Lungo la costa orientale della Sardegna sono da segnalare
i banchi presso l'isola della Maddalena, quelli del Golfo di Olbia e quelli di Capo Carbonara.
Purtroppo, la maggior parte dei banchi di corallo delle coste italiane è stata sfruttata troppo a lungo in passato, fino a depauperarsi quasi del tutto.
Depositi di corallo morto
I banchi di corallo «vivo», cui si è accennato nel paragrafo precedente, vengono anche denominati «banchi attivi» e, per dirla con
Lacaze-Duthiers, sono costituiti da «l'insieme di rocce
sulle quali il corallo cresce». Del tutto diversi sono i banchi di corallo
«morto», per i quali sarebbe più appropriato usare il termine di «depositi».
Tali depositi sembrano essere la conseguenza di fenomeni sismici e tettonici sottomarini (probabilmente come quelli che, nel 1831, furono accompagnati dall'attività
eruttiva che provocò l'emersione e il successivo inabissamento dell'Isola Ferdinandea, nel Canale di Sicilia), i quali provocano la rimozione dai banchi attivi di
frammenti o di intere colonie che, morendo, vengono trasportati dalle correnti anche a notevole distanza dai siti di origine. Questi resti di colonie generalmente
si accumulano in avvallamenti del fondo mescolandosi al sedimento fangoso-argilloso.
Le dimensioni dei depositi variano in relazione all'intensità e alla durata dei fenomeni che li hanno prodotti. Famosi per le loro dimensioni eccezionali sono i
tre depositi scoperti fra il 1875 ed il 1880 nel Canale di Sicilia, al largo di Sciacca, nei pressi del Banco Graham (edificio vulcanico sottomarino che è ciò che
rimane dell'Isola Ferdinandea), ove si calcola siano stati raccolti oltre 11 milioni di chilogrammi di corallo.
Anche di recente sono stati rinvenuti depositi di corallo di una certa entità. Nel 1981 coralline di Torre del Greco (NA) ne hanno scoperto alcuni presso
l'isola di Alboran (Spagna), sfruttati attivamente per diversi anni. Nel 1983 è stato scoperto un altro deposito nei pressi dell'isola di Pantelleria, che però è
solo parzialmente utilizzabile per la lavorazione a causa delle non buone condizioni di conservazione; lo stesso dicasi per il deposito scoperto, sempre negli anni
ottanta, presso l'isola di Malta.
Le non buone condizioni di conservazione dei rami di corallo sono dovute allo stato avanzato dei processi di fossilizzazione, che determinano la
rimineralizzazione dello sclerasse, oppure all'attacco da parte dei clionidi, spugne perforanti che scavano gallerie all'interno del calcare e, quindi, anche
all'interno dello sclerasse, rendendolo tipicamente «cariato». Anche i coralli vivi sono soggetti all'attacco dei clionidi, che inizia dalla base, ove
lo sclerasse è a diretto contatto col substrato infestato, e può diffondersi all'interno dell'intera colonia.
Comunque, oltre che per le loro dimensioni, i depositi di corallo morto sono commercialmente interessanti anche per la facilità con cui si raccolgono le colonie
e soprattutto perché il loro sfruttamento potrebbe permettere una diminuzione della pressione di pesca sui banchi attivi che, come detto, si stanno fortemente
depauperando per il sovrasfruttamento. Però, a tutt'oggi, non esistono criteri affidabili per l'individuazione di nuovi depositi, poiché ancora non è stato
sufficientemente chiarito il concorso dei fenomeni alla base della loro formazione e, quindi, il loro rinvenimento è purtroppo affidato al caso.
Metodi di pesca
Senza dubbio il primo contatto dell'uomo con questo animale marino è avvenuto attraverso il materiale spiaggiato dalle onde. Dipinti rupestri nelle grotte di
Cifuentes, in Spagna, e dell'Addaura, in Sicilia, testimoniano come già in epoca preistorica venisse praticata la pesca subacquea in apnea del corallo, mediante il
taglio delle colonie con arnesi di selce. La pesca del corallo è sempre stata nel Mediterraneo alla base di un fiorentissimo commercio e di una sofisticata
industria di trasformazione, monopolio dei popoli che si sono succeduti nel predominio di questo mare. Dalla metà del secolo scorso la città di Torre del Greco è
diventata il più importante centro mondiale di lavorazione e commercializzazione del corallo, incluso quello che, a partire dall'ultimo decennio del secolo scorso,
ha iniziato a provenire in abbondanza dai mercati della Cina e del Giappone. Difatti, se per millenni le attività di reperimento legate a questa risorsa marina
hanno riguardato esclusivamente il Mediterraneo, in epoca moderna l'intensificarsi delle esplorazioni geografiche e scientifiche non solo ha ampliato gli orizzonti
commerciali, ma ha anche aumentato le possibilità di acquisizione della risorsa, per la scoperta nell'Oceano Pacifico di banchi di corallo sfruttabili commercialmente.
Si tratta però di altre specie di corallo, piuttosto simili a quella che vive nel Mediterraneo, anche se ne differiscono soprattutto per la colorazione, la forma e
le maggiori dimensioni delle colonie.
Tradizionalmente la pesca sui banchi di corallo era effettuata dall'imbarcazione, con un attrezzo detto «ingegno» che veniva trascinato sul fondo. La pesca con l'ingegno, largamente diffusa fino a una decina d'anni fa, ha subito in questi ultimi anni una notevole flessione. A conferma di ciò si possono riportare i dati emersi nel corso dell'ultima Consulta tecnica della FAO, svoltasi a Torre del Greco nel 1988: la flotta peschereccia italiana, composta soprattutto da coralline di Torre del Greco, Ponza, Sciacca, Trapani, Carloforte e Alghero, è passata dalle 183 unità del 1983 alle 27 ancora operanti nel 1987; l'ultima corallina di Torre del Greco è stata disarmata nel 1989. A questa drastica riduzione del numero di «coralline» è però corrisposto un sensibile incremento del numero di «corallari», cioè di pescatori subacquei di corallo.
A partire dai primi anni sessanta la raccolta diretta delle colonie di corallo, effettuata in immersione con autorespiratore autonomo, è diventata una pratica che
si è affermata sempre di più, diventando dapprima alternativa e poi soppiantando quasi del tutto l'ingegno. I motivi di questo cambiamento nelle tecniche di pesca
del corallo sono sia di tipo economico - poiché i costi di gestione di una corallina sono molto onerosi e sempre più difficilmente ammortizzabili a causa del
graduale depauperamento dei banchi - sia di tipo politico, poiché cresce il numero di aree del Mediterraneo in cui è vietata la pesca con l'ingegno (per esempio la
Sardegna), considerata devastante non solo per le popolazioni di corallo ma anche per l'intera comunità biologica presente sul fondo. La CEE, nel 1994, ha emesso
una direttiva nella quale vieta l'uso e l'imbarco dell'ingegno o di attrezzi similari.
La raccolta diretta da parte di subacquei è ritenuta molto meno distruttiva perché è selettiva delle sole colonie di corallo. Tuttavia è da osservare che anche
questo moderno metodo di pesca presenta numerosi aspetti negativi, ancora troppo poco considerati: innanzitutto ha consentito l'accesso e la completa distruzione di
banchi di corallo in ambienti mai raggiunti dall'ingegno (come le grotte sottomarine); in secondo luogo, la raccolta diretta, se effettuata indiscriminatamente,
proprio per la sua estrema selettività potrebbe alla lunga risultare molto più dannosa per le popolazioni di corallo rispetto al prelievo casuale con l'ingegno;
infine, il graduale depauperamento dei banchi superficiali sta spingendo i subacquei a profondità sempre più elevate (si è passati dai 30 metri degli anni sessanta
ai 130 metri di oggi), con notevoli rischi per la loro incolumità e con costi in continuo incremento, per la gestione di apparecchiature tecnologicamente sempre più
sofisticate.
Aspetti gestionali della risorsa
L'aumento della difficoltà di reperimento del corallo rosso allarma settori socioeconomici sempre più vasti. Del problema si sono fatti carico non solo i gruppi
ambientalisti ma anche gli stessi operatori del settore commerciale, pur se da angolature ben diverse.
I paesi rivieraschi del Mediterraneo e le regioni con una certa autonomia amministrativa si sono dotati di strumenti legislativi atti in qualche modo a
regolamentare o addirittura sottrarre allo sfruttamento la risorsa corallo. La Regione Sardegna, i cui banchi sono tra i più importanti del Mediterraneo, da tempo
ha adottato drastiche misure di protezione e di recupero dei banchi, vietando ovunque l'utilizzo dell'ingegno e anche, in vaste aree, il prelievo da parte dei
«corallari», per periodi di dieci anni e oltre. Tuttavia si è sentita l'esigenza di una politica comune di gestione della risorsa in ambito
mediterraneo, che coinvolgesse in maniera coordinata tutti i paesi interessati. Finalmente, nel 1983, a Palma di Maiorca (Spagna), si è riunita la prima Consulta
tecnico-scientifica sul corallo rosso, organizzata dalla FAO (Consiglio generale della pesca per il Mediterraneo), per fare il punto della situazione e iniziare a
gettare le basi per una strategia di programmazione comune. La Consulta è tornata a riunirsi nel 1988 a Torre del Greco per un primo aggiornamento. Queste riunioni
hanno permesso non solo un proficuo scambio d'informazioni tra gli esperti dei vari paesi, ma anche l'individuazione di settori d'interesse da approfondire con
indagini scientifiche. Dopo la Consulta FAO del 1988, in Italia si è formato, tra diversi istituti di ricerca e università, un gruppo di lavoro che sta svolgendo
attivamente indagini su diversi aspetti della biologia e dell'ecologia del corallo e raccogliendo informazioni sull'attuale situazione della pesca e del mercato.
Uno dei problemi più recenti concernenti la politica di gestione della risorsa corallo è scaturito dalle pressioni di gruppi ambientalisti che volevano far
includere la specie Corallium rubrum nella Tabella «A» della CITES, che comprende tutti quegli organismi per i quali sono assolutamente vietati
la cattura e il commercio perché in grave pericolo di estinzione. Il gruppo dei ricercatori impegnati a studiare il corallo rosso ha unanimemente sostenuto che la
specie, nonostante il depauperamento dei banchi, non può considerarsi «in grave pericolo di estinzione». Infatti oggi è sempre più difficile raccogliere
colonie di grossa taglia, idonee per la lavorazione, ma sono ancora molto diffuse, anche a poca profondità, colonie di piccole dimensioni e di scarso valore
commerciale (con diametro di base inferiore a 4 millimetri, ma con piena capacità riproduttiva). In particolare, i ricercatori del Gruppo italiano corallo rosso
suggeriscono una gestione mirata della risorsa, non solo attraverso una più accorta politica di pesca, che tenga conto dei dati sulla biologia delle popolazioni
emersi durante le ricerche, ma anche e soprattutto attraverso una più incisiva attenzione verso lo sviluppo di tecniche di ripopolamento mediante trapianto di
frammenti di colonie. Infatti, i primi tentativi sperimentali di trapianto, effettuati da ricercatori dell'Istituto di zoologia dell'Università di Genova e del
Centro lubrense esplorazioni marine (CLEM), in collaborazione con il Laboratorio di ricerche avanzate della Henkel Italia, finora sembrano dare risultati molto
soddisfacenti.
Quello del corallo rosso è, dunque, un caso emblematico in cui le istanze degli ambientalisti, talvolta non sufficientemente documentate, possono essere mediate
con le esigenze degli utilizzatori della risorsa naturale tramite il contributo conoscitivo dei ricercatori.