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    Pezzi di storia

Genova e il Barbarossa
di Teofilo Ossian De Negri

Genova – dicembre 1961

Il 19 giugno 1162 ì genovesi ottenevano dal Barbarossa il riconoscimento giuridico della autonomia comunale. E' una data questa che Genova non può ignorare per l'innegabile significato civico e morale e per il primato che costituisce nel lento fecondo processo delle conquiste civili.

Spinola Oberto Spinola, ambasciatore di Genova, sostiene davanti al Barbarossa i diritti della Repubblica. Sono con lui l'annalista Caffaro e gli altri componenti l'ambasceria.
(Affresco di Andrea Semino, palazzo Doria, già Spinola: via Garibaldi)

Teofilo Ossian De Negri disegna in scorci ampi e chiari il panorama storico dove maturano le "convenzioni" imperiali; ne viene fuori così un esauriente articolo, scritto apposta per "Genova", dal quale l'avvenimento risulta inequivocabile tanto alla luce del più rigoroso accertamento scientifico, quanto nella realtà dei valori che lo illuminano e lo spiegano, non estranei, è vero, alle concrete e pratiche virtù dei genovesi, abili sempre nel trarre profitto da tutto e da tutti; ma valori indubbiamente espressivi del loro atavico amore per la libertà.
Quindi le "convenzioni" del 1162 restano, anche al vaglio della critica, una tappa fondamentale nella storia delle libertà comunali e rappresentano per Genova un titolo che, forse, usiamo il dubitativo per eccesso di scrupolo, altri può difficilmente vantare.
Non pensiamo affatto a celebrazioni clamorose, ma siamo convinti che nel quadro di una qualificata assise di studio mettere a fuoco le vicende, specialmente per quanto riguarda Genova, che portarono alla libertà dei Comuni costituisca rendere omaggio alla dignità dei popoli che tale conquista seppero meritare; primo tra questi il genovese.


L'anno 1962 ricorre una data centenaria non priva di significato per Genova. Sono passati ottocento anni da quando il 9 giugno a Pavia nel Palazzo Regio i rappresentanti del Comune strinsero con l'imperatore Federico una convenzione solenne che suona riconoscimento imperiale della piena autonomia cittadina e legittimazione del Dominio «da Monaco a Porto Venere», con tutta una serie di altre concessioni militari, politiche e fiscali che nel loro insieme costituiscono un fatto molto significativo per parte dell'assertore intransigente dell'assolutismo imperiale. Or quando si pensi che in generale i Comuni dell'Italia superiore giungeranno ad un riconoscimento analogo, e forse neanche così ampio, solo dopo una ulteriore lotta di oltre tre lustri, con la pace di Venezia del 1177 e definitivamente con quella tanto più celebre di Costanza del 1183, vien fatto a noi di pensare al patto genovese del '62 come ad un primato nell'ordine delle conquiste italiane delle libertà nei confronti dell'Impero tedesco.

Portovenere Stemma di Portovenere

D'altra parte la storiografia ufficiale, a prescindere naturalmente dagli autori genovesi, poco manca che taccia del fatto, e non gli dà comunque quel rilievo che pur sembra meritare. Per vero è consuetudine inveterata di quella storiografia di sottacere o di sottovalutare i fatti che riguardano la nostra città, quand'anche la citazione non venga fatta per dileggio: sicché accade che noi soli li ricordiamo; e celebrandoli con quella qualche ampiezza che ci suggerisce l'affetto particolare, sembriamo campanilisti. Di qui l'impegno nostro di rifarci alle fonti e alla luce della storiografia generale, per ridimensionare il fatto, come usa dire oggi, inquadrandolo nella storia politica dell'Impero e dell'Italia nel secolo che vide la crisi del Medioevo e le origini di un'età nuova, sia che la nostra ricerca debba pervenire ad una "celebrazione", sia che dobbiamo in fine accontentarci di riconoscere una "verità", qualunque essa sia.
La convenzione in Caffaro e nel testo del trattato
A parte il testo del trattato, di cui è perso l'originale, ma che possediamo in copia nei Libri Jurium ed in altri fondi dell'Archivio di Stato, la fonte più autorevole in merito è Caffaro, che narra l'episodio nelle ultime pagine della sua cronaca insigne. Il Barbarossa è al colmo delle sue fortune: «Federico Romanorum imperator et semper augustus, più di tutti gli altri Cesari attendendo a restituir l'impero ne' suoi diritti, piegando ognuno al giuogo del suo trionfo, meritò di star sopra ciascuno ed al poter di tutti». Debellata e distrutta Milano dopo tre anni di assedio, un senso di terrore prende l'Italia, e «le città e terre di Lombardia e delle parti marittime in fino a Roma» accorrono a far atto di sottomissione. Anche i Genovesi, sollecitati, inviano sine mora alla curia imperiale in Pavia una missione con due consoli e sette de melioribus civitatis qui honorifice recepti fuerunt; ma essi, anziché assoggettarsi, come le altre città, all'omaggio sollecitato dai curiali, protestano la costante fedeltà genovese, senza frode alcuna, e "umilmente" rivendicano dall'imperatore, nel confronto delle altre città, un trattamento speciale, corrispondente a quella speciale fedeltà ed all'eccezionale "servizio". L'imperatore si mostra molto compiaciuto e rimette ai legati lettere con cui chiede, entro otto giorni, una nuova missione per trattare del "servizio" e del relativo compenso. I nuovi messi, due consoli e cinque maggiorenti che conducono seco opportunamente «Iohannem scribam comunis fidelem et magne legalitatis virum cuius fidei singulis annis totius reipublice scriptura comittitur», trattano per più giorni con Rainaldo arcivescovo di Colonia ed arcicancelliere del Regno d'Italia «cuius sensus et fama Ciceronis per singula secuntur vestigia»; infine «ad presens fidelitatem imperatori iuraverunt, et determinatum servicium, sicut in privilegiis scriptum habetur, facere promiserunt. Quapropter imperator Ianuensibus cuncta regalia civitatis et possessiones quas tenebant, et multa alia concedendo, per privilegium aureo sigillo signatum in perpetuum confirmavit».
E' già stato osservato come Caffaro, che prepara con una certa solennità il suo racconto, non dia poi gran rilievo al trattato, di cui tace i termini, rimandando al «Libro dei privilegi»; e come si affretti a celebrare le concessioni fatte a Genova in precedenza, nel marzo, da Alessandro III, il papa ben noto per la sua ostilità a Federico e che Genova ha accolto ed ospitato nella sua fuga da Roma ove è presente l'Antipapa Vittore, sostenuto dal Barbarossa. L'annalista quindi si diffonde nella compiaciuta narrazione della guerra tosto scoppiata con Pisa a seguito dell'aggressione dell'embolo genovese a Costantinopoli: guerra che tanto spiacerà all'imperatore, il quale si sforza di comporla a Torino, prima di ritornare, dopo sei anni di assenza, in Germania. Noi sottolineiamo il tono minore di Caffaro, e ci riserviamo di confrontarlo con quello che egli usa in circostanze anteriori, necessarie, a nostro avviso, a capire il significato di questo episodio più clamoroso.
E intanto leggiamo la convenzione nei Libri Iurium. Il documento meriterebbe, data la circostanza, una trascrizione integrale ; senonché esso è ampio, e dobbiamo limitarci all'indispensabile. E cioè, alle concessioni ed ai riconoscimenti: il dominio sulla "maritima" da Monaco a Portovenere, salvi i diritti dei Conti e dei Marchesi, e su quanto i Genovesi posseggono oltre mare (castra omnia, portus, regalia, possessiones, iura, et res universas, quas in citramarinis vel ultramarinis partibus tenent, habent vel possident…); segue il possesso di Siracusa e di 250 caballarie, e cioè giornate arative, in Val di Noto, oltre un quartiere con chiesa, bagno, fondaco in ciascuna delle città del Regno di Sicilia quando sarà conquistato dall'imperatore con l'aiuto navale genovese, le esenzioni fiscali e la facoltà di escludere da quei porti le navi provenzali e francesi, il che prelude al monopolio di Genova nel commercio del Regno. Più importante delle "promesse" siciliane, condizionate alla conquista, è quanto si riferisce alla vita del "comune", che è tanto più sobrio di parole e in realtà sostanzioso: «donamus et concedimus in feudum consulibus et comuni Ianue liberam facultatem eligendi ex se ipsis, firmandi et habendi consules et eis utendi, qui habeant ius et facultatem liberam faciendi iustitiam et puniendi maleficia in civitate et districtu suo, bona fide, legitime et secundum bonos mores ipsius civitatis. et eis aliam potestatem non imponemus». La facoltà di amministrare la giustizia con propri giudici, nonché quella di usare propri pesi e misure, è ulteriormente confermata per i cittadini e per tutti i Genovesi che comunque si trovino in terre appartenenti a Genova in virtù del presente trattato; ed è, senza dubbio, la concessione giuridicamente più interessante da parte di un sovrano che sempre tenne a riservare per sé, nel criminale, le colpe più gravi. Ma anche il principio dell'autonomia nell'elezione dei consoli è ribadito con efficacia in calce all'istrumento imperiale, là ove Federico conferma che «nullus archiepiscopus, nullus episcopus, nullus dux, nullus marchio, nullus comes, nullus gastaldio, nulla magna vel parva imperii nostri persona in his, que Ianue consulibus et comuni Ianue concessimus, tam in civitate Ianue, quam extra, vel que, Deo auctore, in futurm concedemus, inquietare, molestare, offendere, vel disvestire presumat.»
Tralasciamo alcune concessioni minori e transitorie, oltre che eventuali e fasulle, circa la ripartizione del bottino e l'impegno a difendere i Genovesi contro eventuali aggressori, particolarmente durante la loro assenza dalla città per ragione della spedizione siciliana. I Genovesi da parte loro non sono tenuti ad altra spedizione oltre quella contro il Regno, a meno che l'imperatore non abbia a perdere «civitatem aliquam de maritimis aut maritiman ab Arelate usque ad montem Sancti Angeli… quatenus ad eas partes poterunt navigio pervenire tunc bona fide adiuvabunt nos perdita recuperare»; e pronunciano una amplissima formula di giuramento in cui nulla è trascurato che riguardi la spedizione, neanche l'impegno a non eleggere consoli cittadini che non accettino questo Caffaro stesso giuramento…
Ma ciò che nel documento più fa specie è la solennità dell'introduzione. «E' onore e decoro dell'Impero e gloria nostra amare e proteggere tutti i nostri fideles…». Tuttavia la nostra diligenza deve esser maggiore verso coloro da cui attendiamo una esaltazione maggiore della nostra corona; verso costoro sarà anche più generosa la nostra imperiale munificenza. Or «perché abbiamo udito che la città di Genova fin dalla sua fondazione ha levato alto il capo sopra ogni altra marittima città, ed eccelle per virtù ed opere insigni per mare e per terra in ogni tempo, piacque alla nostra maestà guardare con ogni benevolenza alla fedeltà dei cittadini genovesi ed onorarli coi benefici più grandi. Ed in particolare volendo noi avvalerci dei loro preziosi servigi, specie nella guerra navale in vista del nostro programma di dilatare e rafforzare la gloria e l'onore dell'Impero Romano non solo in terra, ma anche nel mare, per tutto ciò sappiano i "fedeli" lutti dell'impero presenti e futuri "quanto gratie nostre et honoris titulo, quanta omne beneficiorum collatione, quanto dilectionis emolumento civitatem Ianue exaltandam digne duximus et honorandam". E' evidente l'intenzione di celebrare Genova, città "navale"; ma in sostanza per celebrare l'Impero, che fa suo il vanto di quella grandezza, cui conferisce la sanzione e il decoro del suo alto riconoscimento. A parte il fatto che la lode della città marittima tende a cattivare all'imperatore quell'aiuto navale che Genova è in grado di dargli, non in virtù di valori maturati nell'ambito del mondo feudale, ma fuori di esso, nello spirito di avventura e di sacrificio degli uomini del mare che sanno bene l'autonomia di questa loro forza, e l'hanno già fieramente protestata a Federico a Roncaglia, come vedremo.
A questo punto noi ci domandiamo: come si spiega la magnanimità di Federico, proprio all'indomani dell'umiliazione di Milano e durante l'ossequio pressoché indiscriminato di tanti comuni lombardi e toscani? Solo perché gli ambasciatori genovesi, come racconta Caffaro, hanno avuto l'astuzia di dichiarare la loro fedeltà da sempre e di chiedere il compenso (talionem) adeguato, sicché l'imperatore ne è rimasto per così dire divertito, come per una battuta del buffone?
La risposta ce la danno quasi concordemente gli storici: la convenzione è solenne nel tono quanto vacua ed inconsistente nella sostanza. C'è sotto un sottile gioco diplomatico, da entrambe le parti, ben calcolato, o forse troppo calcolato. Dobbiamo fare una di queste due ipotesi: o Federico ha largheggiato perché non poteva fare altrimenti, e cioè ha concesso solo quel che già Genova teneva, e non era più in potere dell'imperatore di revocare, e tenta di ricavare dal riconoscimento giuridico del dominio e della autonomia, che preesistono, il massimo utile contingente per sé, e quanto meno la amicizia di una città che il suo prestigio non gli impone di punire; oppure il Barbarossa ha concesso e promesso nella speranza di conquistare, con la Sicilia, una forza tale in Italia da poter soverchiare ogni altra, e così, poi, contenere, e magari revocare, a cose fatte, le concessioni. Quel che successe alla fine del secolo con Enrico VI, quando finalmente gli Svevi conquistarono il Regno con l'aiuto genovese, ci autorizza ad avanzare anche questa ipotesi anzichenò maligna. Quello che sarà stato il pensiero dei Genovesi, a vantaggio dei quali certo il gioco si risolvette, emergerà dalle considerazioni più generali, alle quali dobbiamo rifarci.

Liber Jurium Il Liber Jurium

I Comuni e l'Impero: aspetti generali
L'inquadramento storico del fatto suggerisce due domande: che cosa è un "comune", ed in particolare il comune genovese, e che peso ha nella costituzione giuridica di esso il riconoscimento imperiale del '62? Come nella politica italiana del Barbarossa si inserisce l'«episodio» genovese, ed in particolare quale rilievo esso ha nella storia generale dei Comuni italiani?
La risposta sommaria alle due grosse domande faciliterà il riesame delle relazioni intercorse tra Genova e il Barbarossa dal '54 al '62, e così la valutazione giuridica e storica, per quanto possibile, del documento or ora riassunto.
La prima è una domanda che fa paura. Senonché al nostro assunto non importa una ricerca genetica ed analitica, difficilissima, ma solo uno sguardo sui successivi atteggiamenti del comune nei confronti del mondo feudale entro il quale si è generato, e poi, divenuto un organismo politico efficiente e cosciente, di fronte all'Impero, che lo conosce solo tardivamente, appunto perché nato fuori o ai margini delle sue gerarchie.
Gli storici e i giuristi sono oggi d'accordo nel riconoscere al comune cittadino un'origine quanto mai dilatata nel tempo ed indefinita nelle forme particolari. La varietà degli aspetti originari tende ad attenuarsi col tempo, quando, coll'estendersi del fenomeno ed il suo farsi cosciente, i vari comuni amano mutuare l'uno dall'altro caratteri molto significativi: come il titolo fascinoso dei "consoli" che rinverdisce la tradizione romana, viva nei ricordi più che negli istituti; ed è cosa generale intorno al 1100.
D'altra parte il momento in cui il comune nasce è mal definibile, ed il distacco dal mondo feudale non avviene "per frattura, ma per un insensibile slittamento, e l'intreccio delle forze resta a lungo inestricabile» (Brezzi). Val la pena di ricordare le felici parole pronunciate da Roberto Lopez a conclusione del dibattito su La città nell'Alto Medioevo a Spoleto nel 1958: «La città non si distingue dalla non città come l'uomo dal cane e il bianco dal nero. In mezzo c'è una zona grigia nella quale le linee di demarcazione non coincidono sempre». Pertanto non si può dire quando questo o quel comune sia nato, o che l'uno è nato prima dell'altro. Gli elementi "formali" della sua costituzione, l'affermazione dei borghesi di fronte al vescovo e ai visconti, la cessazione delle "regalie", i privilegi ed il riconoscimento di questa o quella consuetudine, si intrecciano e si avvicendano in modo che ogni discriminazione è impossibile. La presenza poi dei visconti stessi nella libera associazione cittadina, quand'anche non si debba parlare di iniziativa lor propria, rende anche più difficile separare il momento "feudale" dal momento "comunale" della città.
Le associazioni poi si fanno e si disciolgono a seconda delle circostanze. Anche quando il comune, intorno al 1100, è sostanzialmente costituito, la sua forma è vaga e discontinua; i consoli ci sono e non ci sono, ed il loro numero, anche in una stessa città, è variabile a seconda delle esigenze. Per Genova Caffaro ha cura di precisare ad ogni elezione il numero dei consoli eletti. Ed è un fenomeno, in origine, "privato", e perciò circoscritto e come chiuso in una crisalide che lo matura e non lo manifesta. Spesso anzi «il nuovo organismo ama nascondersi, soprattutto per le sue imprese e conquiste interne, dietro il vescovo che è dotato di maggiori ed indiscutibili titoli di dominio» (Brezzi), ed in genere dietro il potere viscontile e feudale, che è l'autorità costituita, e perciò un paravento e un usbergo contro signori sospettosi od intransigenti, e il potere centrale c'è caso che neanche ne avverta, per anni, l'esistenza.
In effetti il "comune" è un fatto storico imprescindibile, naturale, che non sorge contro o a dispetto dell'Impero, ma solo in difetto di esso. Mai l'imperatore conferisce al comune la libertà; soltanto la tollera o la ignora, e quando non può ignorarla, la riconosce. Anche il riconoscimento è sporadico e graduale, soggetto a revoche e limitazioni, non appena il sovrano può riaffermare la sua autorità. L'origine del comune è vaga anche sotto questo profilo e, a rigore, può farsi risalire lontano. Gli storici ricordano un primo esempio di concessione sovrana dì autonomia nel 904, col diploma di Berengario I al vescovo ed ai concìves di Bergamo, per la difesa della città. Noi amiamo richiamare il diploma di Berengario II e Adalberto, che nel 958 largisce agli habitatores Ianue l'immunità secundum consuetudinem illorum. Non è certo il "comune"; ma è pur riconoscimento di consuetudini in atto, e insomma della presenza di una collettività di cittadini che forma in qualche modo «una entità giuridica, con obblighi e poteri abbastanza ben definiti, preludente all'associazione comunale» (Brezzi).
Ma prescindiamo da cotesti "incunaboli", che ricordiamo solo per la loro formale affinità coi privilegi più ampi del 1100, quando il fenomeno si fa generale e caratterizza un'età. Nel corso del sec. XI l'assenza degli imperatori, che lascian spesso l'Italia in balia di se stessa, porta via via le città, che rinascono a vita nuova, a fare da sé; e quando i "sovrani" verranno a rivendicare il tributo dell'Impero, non saranno disposte a far loro parte di una ricchezza per il conseguimento della quale non hanno avuto di là alcun conforto; anzi essa è stata spesso frutto di iniziative "private", formalmente viziate di illegalità, come nel caso delle città marittime, che vedremo.
I Comuni affermano decisamente la loro autonomia nel quarantennio 1080-1120. Si sa come la lotta per le investiture, pur non toccando il fenomeno in sé, abbia largamente contribuito alla affermazione dei Comuni di fronte all'Impero, nell'assidua gara tra i contendenti per procacciarsi alleati. Soprattutto Enrico V concede privilegi a molte città per cattivarsene l'amicizia, o almeno garantirsene la neutralità. Talché i Comuni considerano definitive le libertà allora conseguite; e quando il Barbarossa tenterà ancora di ridurli al suo arbitrio, pur dopo un trentennio di nuova "assenza" imperiale, con Lotario e Corrado, che li ha ulteriormente rafforzati, essi rivendicheranno i diritti e le consuetudini acquisite sotto Enrico. E non importa se nessuno, prima della lotta col Barbarossa, ostenta pretese alla sovranità, che è comunque dell'imperatore, fonte di ogni diritto. Che anzi in molti di essi l'autorità feudale coesiste ancora accanto alla nuova autorità cittadina, e l'autonomia non comporta indipendenza; e vien fatto di considerare che i Comuni ambiscono alla presenza anche personale, nell'ambito loro, di un rappresentante del potere sovrano, che copre la loro "irregolarità", in virtù del quale cioè il fatto nuovo, altrimenti rivoluzionario, si inserisce nell'«ordine». E' la visione squisitamente ghibellina, accettata da molti Comuni anche dopo la rottura provocata dal Barbarossa con la sua politica intempestiva ed assurda.
Aspetti particolari del Comune genovese
Fin qui, pur tenendo presente anche Genova, abbiamo parlato in generale, per non cadere nel facile errore di perseguire nel suo solo aspetto particolare un fatto che si vuol poi valutare "comparativamente". Ora vediamo di cogliere il carattere del nostro Comune, prima di avventurarci nella politica di Federico e di metterla a confronto con la realtà comunale italiana, nel suo insieme e nelle sue particolarità.
A Genova, città marittima (e, precisiamo, tirrenica), si avverte anzitutto un anticipo nell'attuazione dell'autonomia per quella tempestiva azione di difesa e poi di offesa contro i Saraceni, e di liberazione dei mari dalla loro pirateria, che si inizia per parte della città ligure e di Pisa intorno al 1000, dopo la distruzione di Genova stessa e di Luni nel secolo X e l'aggressione di Pisa del 1004; e per necessità di cose si opera al di fuori dell'ambito dell'Impero e senza il suo intervento diretto. Tant'è vero che le prime spedizioni antislamitiche rispondono di preferenza ad iniziative di gruppi particolari, "privati": e sono le imprese contro "re Mugetto"1 del 1015-16 e l'espugnazione di Mahedia del 1087. Sono ancora cittadini privati ad accordarsi per armare le galee che partecipano tanto efficacemente, nel 1097, alla prima Crociata, conseguendo da Boemondo un quartiere in Antiochia, che i "compagni" trasferiscono nella comunità. Questa viene così a fruire di un beneficio che essa per sé non ha cercato e non ha provocato; anzi solo in virtù del "dono" per parte dei liberi associati la comunità acquista figura e consistenza: ed il felice esempio della spedizione in Terra Santa sembra motivo determinante, nel racconto di Caffaro, della definitiva accettazione del Consolato e della Compagna non più come semplice associazione privata, ma come Compagna Comunis, e del superamento delle ultime incerte resistenze e contraddizioni del potere viscontile e feudale (Manfroni).
Con ciò non è detto che l'attività militare e mercantile dei Genovesi, che è all'origine delle fortune della città marinara, si trasferisca senz'altro nel "comune". E' stato autorevolmente dimostrato che pubblico e privato a Genova interferiscono a lungo, in parte fino alla fine della Repubblica nel 1797, e comunque che l'attività economica genovese è affidata per tutto il Medioevo non tanto al Comune, ma a "famiglie commercianti" (Vitale). E saranno, fin dagli anni primi dell'espansione, gli Embriaci, i Castello, i da Costa, i Tartaro, i Dalla Volta, i Vento…, signori di Gibelletto, di Siracusa, di terzieri2 in Acri, in Alessandria; più tardi gli Zaccaria, i Giustiniani, i Gattilusio, a Chio, a Focea, a Lesbo, per ricordare soltanto gli esempi più illustri. Ma, per limitarci al nostro tempo, non è fuor di luogo ricordare che la città da un lato riceve dai cittadini parte dei frutti della loro iniziativa, e dall'altro tende a ridistribuire ai cittadini stessi, a singoli e a gruppi, parte dei benefici e delle rendite che la consuetudine da tempo attribuisce alla comunità. Proprio negli anni che precedono l'incontro di Genova e del Barbarossa la crisi economica seguita alla onerosissima ed infeconda spedizione di Almeria (qualcuno ha parlato di "collasso") ha costretto il Comune a cedere a cittadini privati la gabella del sale ed altre rendite privilegiate (e sono le prime «compere»), e ad infeudare a prezzo irrisorio persino alcune delle "colonie" del Levante, come Gibelletto, Acri ed Antiochia agli Embriaci (1155).

Alessandro III Alessandro III
(da un affresco di Spinello Aretino - Siena)

Il carattere squisitamente marittimo dell'economia genovese, che conduce la città alle sue prime affermazioni di potenza e di autonomia, in confronto delle altre città continentali d'Italia nel Medioevo, implica un interesse minore per la terra, anche se a Genova, non meno che altrove, si operò nel corso dei secoli X e XI quel processo di incontro tra campagna e città che fece sì che in Italia la città venne a coincidere col comitato (il "contado"), e quindi si rinnovò nell'età dei Comuni quella territorialità della "civitas" antica che ne era stata una caratteristica fondamentale (Ottokar). Ma quando ai primi vaghi legami residui di Genova con la talassocrazia3 bizantina o all'opera tenace ed audace di "polizia dei mari" contro i Saraceni seguirà, come frutto di quelle stesse fortunate operazioni, una nuova talassocrazia genovese che dal Tirreno tenderà ad estendersi ai mari del ponente e del levante, il Comune sentirà l'esigenza non soltanto di un territorio suburbano, riserva per il vettovagliamento della città e il reclutamento di uomini per la difesa e per l'armamento delle galee, ma soprattutto di un "dominio" delle Riviere, la "maritima", e di un controllo dei porti nell'arco del golfo «da Monaco a Portovenere» che costituisca la garanzia del suo commercio, e insomma la base del suo "monopolio".
E' una territorialità nuova, che va molto oltre i termini del comitato ed investe la fronte marittima di tre marche, Arduinica, Aleramica e Obertenga, e non è una confederazione di città e di Comuni, come spesso si verifica in Lombardia, ma un vero e proprio dominio che solo per opportunità formale appare una libera "associazione", la Compagna, che città e signori del contado saranno via via chiamati o costretti a giurare. Nella creazione e nell'esercizio di questo dominio gli uomini del Comune genovese acquistano un abito all'imperio che non sapranno più facilmente disvestire.
Un ultimo aspetto ci è caro segnalare dei comuni marittimi, ed in specie del nostro. La marineria è una attività di tradizione essenzialmente romana. I barbari non la conobbero affatto, ed i latini stessi ne dimenticarono o perdettero l'uso nei secoli più tragici del Medioevo. Genova e Pisa la ricreano, quando rimangono sole di fronte all'arroganza saracena, imitando la bizantina, che è "romana", e che fino a pochi decenni prima ha protetto le loro coste dalle antiche basi della Corsica e della Sardegna. E quel che le due città imitarono non da Bisanzio, ma dagli arabi, è pur esso "romano", perché nel Medioevo non meno gli arabi che i bizantini sono eredi e continuatori, nell'arte come nella navigazione, della civiltà mediterranea "romana". La marineria dunque nel mondo occidentale costituisce l'attività di tradizione più squisitamente romana, l'unica che il mondo germanico abbia totalmente ignorato. Il Comune genovese potrà ben a ragione richiamarsi un giorno a quella tradizione; e lo sentiremo nelle parole di Caffaro.
I Comuni e l'Impero a mezzo il sec. XII
Quanto siamo venuti fin qui discorrendo conferma il fatto, che al principio del sec. XII in Italia «quasi tutte le nostre città conseguirono la pienezza dell'autonomia e, nel ricordo di Roma, scelsero come loro capi i consoli». Ed «i diplomi imperiali più che una concessione sono il riconoscimento di una condizione di cose ormai stabilite, e legalizzano le nuove forme di governo libero» (Brezzi). Ma si tratta di una realtà rivoluzionaria, nella sostanza, e sia pure senza saperlo, senza volerlo, e soprattutto senza ostentarlo, perché, come si è visto, il nuovo stato cittadino non ha alcuna velleità di supremazia e tanto meno di "sovranità", anzi gradisce e sollecita dalla potenza sovrana che è sempre, senza contraddizione, l'Impero, in certo modo l'investitura con il riconoscimento formale. Esso infatti da un lato vale a legittimare il nuovo "stato" e a conferirgli dignità di fronte ai gruppi assoggettati ed agli "altri", come lui giunti all'autonomia; e dall'altro è riprova della insufficienza e della eccezionalità del fenomeno, che non è valido se non quando rientra, col riconoscimento, nella unica entità di diritto, l'Impero. Vorrei dire che le concessioni e i privilegi sono la sola forma con cui ancora si attua la sovranità dell'imperatore, che in virtù di esse "finge", e cioè "fa" che i poteri sovrani e le regalie, che si configurano in "vie pubbliche, fiumi, porti e ripatico, diritto di batter moneta e di amministrare giustizia, e gabelle varie", non vengano "usurpate" dai nuovi magistrati cittadini, ma ad essi elargite come forma suprema della sua benignità e sensibilità. Si tratta poi di vedere quanto di tali concessioni è spontaneo e quanto è estorto, e insomma quanto è acquisito nel corso degli eventi e quindi frutto di una evoluzione "naturale", e quanto invece è conquistato "contro" la resistenza sovrana e poi da questa rinunciato obtorto collo, in un processo rivoluzionario che nella legalizzazione ultima di una conquista ha il suo superamento. Sono tutti aspetti, ancora una volta, vari e mutevoli da tempo a tempo, da luogo a luogo, da circostanza a circostanza, talora anche soggetti all'indefinitezza che deriva per noi dalla insufficiente e lacunosa documentazione.
E' chiaro tuttavia che questo stato di cose è possibile soltanto e soprattutto in virtù di quell'assenza di potere imperiale effettivo ed efficace di cui si è accennato, e che l'imperatore non può tollerarlo se non a condizione di rinunciare alla sua dignità ed alla sua stessa funzione moderatrice della pace universale di cui si sente investito da Dio. Siamo, è vero, alla crisi del Medioevo, in cui l'universalismo si risolve nell'individualismo, e questo si ricompone in libere associazioni di individui che si fanno depositarie ed interpreti del potere "particolare". Ma una rivoluzione di tanto rilievo non si attua senza scosse e contraddizioni, che hanno anche il compito, quasi la missione, di mettere alla prova le nuove realtà, temprandone il carattere e controllandone la validità. La prova ha un nome fascinoso ed illustre: Federico.
La politica italiana del Barbarossa
Un esame anche solo sommario della politica del Barbarossa si impone solo che vogliamo capire il processo storico che ci interessa, ed in particolare le ragioni di una priorità nel riconoscimento dell'autonomia delle città marittime in confronto di quelle continentali, come Milano, che è il fatto precipuo della nostra ricerca. A tal fine, prescindiamo ovviamente dalla vecchia tradizione storiografica risorgimentale italiana che nella lotta dei Comuni contro il Barbarossa vedeva soprattutto gli incunaboli, e anche più, del nazionalismo di marca ottocentesca, e si è continuata a lungo fino al periodo tra le due guerre mondiali, mettendo con insistenza l'accento sulle leghe antimperiali, e tacciando di defezione e di tradimento, o quanto meno di insensibilità, il diverso atteggiamento di quei Comuni che parteggiarono per l'Imperatore o rimasero rigidamente neutrali. E rinunciamo pure a più specifiche indagini, che non sono da noi, per rifarci ad uno studio acuto ed informalissimo, nella sua sobrietà, di Paolo Brezzi, storico insospettabile, perché, in certo modo "guelfo", tende ad esaltare moderatamente il programma di Federico ed a riconoscere la piena legittimità della sua azione anche nei confronti del papa: che se poi questa azione fallì, fu per mancanza di aderenza alla realtà che si veniva evolvendo in forme nuove, e diverse.

Codice Codice Caffaro - anno 1162
(Archivio di Stato Genova)

Federico assume giovane il potere con un programma preciso: la restaurazione dell'autorità e della funzione universale dell'Impero, in Germania di fronte ai feudatari costantemente ribelli, ed in Italia di fronte al Pontefice e ai Comuni, che rappresentano per l'imperatore tedesco il "segno" dell'universalità. Ai Comuni vorrebbe revocare molte delle concessioni elargite dai predecessori, ristabilendo le "regalie" riconosciutegli anche dai giuristi bolognesi: il diritto di conferma dei consoli eletti, il ristabilimento del fisco imperiale, l'amministrazione della giustizia per mezzo di un suo "podestà". Di fronte a queste pretese, legittime, ma intempestive, molte città resistono, altre senza più si ribellano. E l'imperatore deve venire a transazioni con le une per poter punire le altre; e cioè deve praticare da un lato quella stessa politica di concessioni contro la quale dall'altro muove guerra. E questo è un ovvio motivo di debolezza dell'azione imperiale.
D'altra parte nel programma di Federico è anche l'incoronazione romana, che implica la pace col papa, per tanti motivi vicino ai Comuni; soprattutto c'è la conquista del Regno meridionale, instaurato dai Normanni sulle rovine delle dominazioni bizantina ed araba in quelle contrade. Sulle ragioni ideali e reali che impongono al Barbarossa una azione che è destinata a fallire e a far fallire tutta la sua politica italiana non è il caso che ci indugiamo. Rimandiamo senz'altro agli studi fondamentali del Falco, del Morghen e del nostro Vitale, che citiamo in calce allo scritto. Ma non possiamo non ricordare che in questa zona si incontrano e si contendono il dominio del Mediterraneo, sino a tutto il secolo XI, gli arabi, l'imperatore d'Oriente, le nuove città marinare d'Italia e lo stesso imperatore germanico, che rivendica quelle terre come naturalmente sue, senza avvertire il pericolo di una annessione che trasferisce l'Impero, occidentale ed europeo, in un settore "orientale" che non gli appartiene e per il quale non è preparato.
Federico stesso, che non esita a favorire lo scisma, nel 1159, per realizzare il suo supremo programma di "giustizia", dopo alcuni lustri di effimeri e contrastati successi, sarà vinto (formalmente a Legnano), e si darà vinto, rinunciando ad una politica legittima ma non saggia, e cercherà di salvare il possibile della dignità sovrana "concedendo" ai Comuni quello che essi hanno già realizzato per propria iniziativa e con sacrificio personale. E quanto al Regno, falliti i tentativi di conquista armata, egli si ridurrà ad instaurare il mezzo nuovissimo della conquista "matrimoniale", con le nozze del figlio Enrico e di Costanza normanna. L'esperienza ha insegnato a Federico che l'ideale universalistico volge ormai al tramonto. La crisi della sua politica è la crisi stessa del Medioevo, perché la realtà nuova è contraddittoria rispetto alla vecchia concezione universale. Il mondo è più vasto ormai di quell'Impero di Carlo Magno, di cui il Barbarossa ha un culto più vivo che dell'Impero Romano; e cioè l'impero "cristiano" carolingio-federiciano può estendersi all'Europa cattolica e alle regioni che via via vengono sottratte ai mussulmani (Sicilia, Spagna), ma non al mondo islamico stesso nel Mediterraneo e in Levante, e al mondo bizantino, che del Levante è sovrano, ed è un altro Impero. In esso invece si avventurano le città marinare, evadendo al potere imperiale. Evade fin dall'origine Venezia, nata sul mare, separata dal continente che è appannaggio dei re "barbari" conquistatori, ed è riconosciuta ab initio parte della sovranità di Bisanzio; Genova e Pisa sono in terraferma, ma vivono del mare ed estendono i loro tentacoli tanto lontano… Il Barbarossa si adatta alle contingenze. E di fronte all'affermarsi in Europa di nuovi stati assoluti, che non potrà mai ridurre al suo arbitrio, e, nell'ambito stesso dell'Impero, di città indipendenti per nulla preoccupate di non potersi chiamare sovrane, pur di esserlo di fatto, Federico ha soprattutto la preoccupazione di salvaguardare un prestigio che non è solo di nome, ma è la sostanza della sua forza e della sua sovranità. E così nella pace di Costanza concede ai Comuni la libera elezione dei consoli riservandosene la conferma, e poi rinuncerà a valersi della riserva, pago dell'affermazione di principio.
Genova e il Barbarossa dal 1154 al 1162
E ritorniamo a Genova. L'autonomia anche per essa è una conquista graduale. Le tappe sono il Privilegio già ricordato del 958 e l'altro del 1056, le prime esperienze marinare antislamitiche e la grande esperienza economico-militare delle Crociate, la Compagna nel suo complesso costituirsi e perfezionarsi, tra il 1100 ed il 1130, come associazione giurata o coniuratio in cui finiscono col confluire gli elementi costitutivi della nuova società genovese, la classe viscontile, la pars ecclesiae ed il populus, o la maggior parte di essi, come hanno recentemente dimostrato gli studi del Formentini e del Peri; del 1139 è la concessione imperiale di batter moneta, con Corrado III (nelle monete "Secondo"). Non vorremo dimenticare che nel '33 Genova assurge al grado di archidiocesi, per gran parte in funzione del suo predominio transmarino; e di questi anni è ancora una attività del Comune spregiudicata nella sua autonomia, fino alle spedizioni di Spagna (1146 e segg.), che provocano quella crisi economica e politica che il Comune affronta con le sole sue forze e risolve con una coraggiosa e fortunata azione dei consoli, proprio quando sulla ribalta della politica italiana si affaccia il Barbarossa.
Federico ha convocato a Roncaglia nel novembre 1154 la dieta dei "vassalli" del Regno. Genova invia Caffaro ed Ugo della Volta, che sarà poi arcivescovo. E l'imperatore «con onor li accolse, aprì loro l'animo su certi suoi segreti disegni che s'avea pel regno suo e per la città di Genova, cui promise di dar vantaggi sopra ogni altra d'Italia - ultra omnes civitates Italie honorem Ianuensi civitati facere promisit - e… li congedò, con modi dignitosissimi. E i consoli quei segreti propositi che i legati avevano risaputo dal re, contaron poi a suo tempo ai consoli che vennero dopo di loro eletti, lasciando a lor ragione di vagliarli» (Caffaro).
Nell'anno successivo i consoli fanno cose grosse: quasi stimolati dalle contingenze suddette, riscattano gran parte dei pegni cui erano state vincolate le rendite del Comune per la crisi. E come al momento della elezione avevano provveduto a costruire galee per la difesa della città, così ora «presero a costruire le mura e le porte della città verso entrambe le riviere», e stringono un'alleanza vantaggiosissima coll'imperatore d'Oriente.

della Volta Ugo della Volta

Intanto Federico, calato di nuovo in Italia, ha assediato e distrutto Tortona, per dare un "esempio": per cui tutti gli uomini delle altre città e paesi, terrore commoti, pagano al re un immenso tributo di danaro. Ma i consoli genovesi, quantunque da molti più e più volte sollecitati e ammoniti di pagare anch'essi al re il suo tributo, tuttavia «unius oboli valens dare nec promittere voluerunt». E intanto provvedono ad armare e fortificare i castelli e gli uomini tutti… Il re, come sa di questi preparativi, provoca un nuovo incontro: ibique multa de honore regni et civitatis ad invicem tractaverunt; et ultra omnes civitates Italie cìvitati Ianue rex honorem se daturum promist»; e licenzia i legati con onore, per portarsi a Roma a ricevere in S. Pietro la corona imperiale. Caffaro peraltro si indugia a celebrare i privilegi e le benevolenze di papa Adriano verso i suoi Genovesi.
Del 1156 è la pace col re di Sicilia, che suggerisce al cronista la compiaciuta frase, così espressiva dell'animo genovese: come nel mondo si dica che "molto più e meglio i Genovesi abbian sempre ricevuto che dato". Del '57 sono nuove trattative col papa, con la Sicilia, con Costantinopoli, e la dedizione del conte di Ventimiglia, cui a sua volta il Comune ridà il castello in feudo, con atto "sovrano", che va ben oltre il normale potere e gli stessi confini del comitato antico.
Il '58 è un grande anno. Caffaro lo introduce con solennità particolare. Federico scende in armi per imporre obbedienza, e in brevi giorni costringe Milano alla resa; ma «pietate commotus, preterite inobedientie indulgentiam et non iudicium Mediolanensibus dedit»; e riceve con la "fedeltà" un grosso tributo di ostaggi e di danaro. Onde le città di Lombardia e di Toscana si piegano al volere di lui, che convoca la seconda Roncaglia. Vi vengono anche i Genovesi, a lungo sollecitati, ed in curia sono richiesti con insistenza della fidelitas, degli ostaggi e delle regalie, come tutte le altre città. Ma i messi «caute… ab huiuscemodi debitis se excipiebant, et monstrabant se excusandos. Perché da antico era stato pur concesso e riconfermato per imperatori di Roma come gli abitanti di Genova dovessero in perpetuo esser liberi di ogni tributo: aver essi solo l'obbligo di fedeltà all'impero, e l'altro della difesa del mare da' barbari, né altrimenti in alcun modo poter esser gravati». Or avendo essi ottenuto, col favore divino, che tutta la marittima da Roma a Barcellona sia libera dai pirati che la infestavano, «così che per loro ormai ciascun si potea dormir sicuro presso il suo fico e la sua vite (e il che l'impero non avrebbe potuto conseguir con la spesa di diecimila marchi d'argento ogni anno)», non possono in alcun modo esser sottoposti a tributo. Perciò le ragioni che son valide per gli altri italiani non possono essere richiamate in loro confronto, perché essi non traggono vita da terre dell'Impero, ma da altre parti, e di quel che di là traggono, là pagano i dazi e i tributi… Per cui gli abitanti di Genova hanno verso l'Impero solo l'obbligo della fedeltà, e non possono esser d'altro richiesti.
Il passo, ognun vede, è fondamentale non solo per il suo altissimo tono (Caffaro non sembra aver partecipato alla missione, ma l'ha certo ispirata), ma per la perfetta aderenza al complesso gioco politico che stiamo evocando. Contropartita immediata dell'audace atteggiamento dei legati genovesi è la ripresa della costruzione delle mura, sulle quali ci riserviamo di tornare in altra sede. Qui basti accennare alla altezza anche di questa nobile pagina di Caffaro, non meno epica della precedente.
L'imperatore, lo riconosce Caffaro, non poteva cedere senza più alle giustificazioni dei Genovesi, ma «videns quod antiquam consuetudinem suam non paterentur imminui», prende tempo, e rinvia la partita al convegno del Bosco, alle spalle stesse di Genova, presso Tortona testé ferocemente punita… Ci viene anche Caffaro: e Federico, forse perché il paragone con gli altri "vassalli" d'Italia non è qui così immediato come a Roncaglia, può senza troppo disdoro far grazia ai Genovesi della sua pace e della sua protezione. E i Genovesi accettano di giurare la fedeltà, ma «ea condicione ut per fidelitatem exercitum facere vel peccuniam dare nullo modo tenerentur…»; promettono di riconoscere le regalie legittime, e fanno intanto un grazioso dono di 1200 marchi d'argento.
L'imperatore, che ha vinto, ma con "dispetto", commette a questo punto l'errore di istigare alla ribellione il popolo di Ventimiglia, recente acquisto genovese, e il Comune ha buon gioco nel chiedere riparazioni a Federico, adducendo, al cospetto del "sovrano", prolisse ragioni del "buon diritto" di Genova su quel castello.
Nel '59 notiamo il completamento delle mura, di cui Caffaro ci fa un rendiconto molto diligente. Alle parole conclusive con cui egli esalta l'opera insigne segue, cruda e significativa, la notizia della distruzione di Crema; e della elezione del pontefice romano, quando «nella chiesa il diavolo seminò la discordia», come narra, sempre in Caffaro, il nuovo papa Alessandro all'arcivescovo Siro. Poi per gli anni successivi '60 e '61 nuove estinzioni di debiti, il compimento delle torri sulle mura e di fortificazioni in tutto il Dominio, l'espansione commerciale pacifica in Spagna e in Marocco, e l'ospitalità magnifica a papa Alessandro che si rifugia in Francia. E siamo al '62, quando Federico ritorna in primo piano.
Abbiamo finora lasciato parlare Caffaro: vediamo il significato della sua cronaca, anche troppo intelligente. Genova, come nave senza nocchiero, verso il '54 "dormiva" da anni il suo "letargo", da cui la ridesta l'energia del Vescovo e del popolo, che costringono i consoli ad accettare l'elezione prestando il giuramento di rito. L'orgogliosa presenza di Federico sembra ridestarli come d'incanto, e il Barbarossa a Roncaglia tratta i rappresentanti della città marinara con deferenza. Altre fonti raccontano che i Genovesi si sono presentati all'imperatore con preziosi doni esotici, meravigliosi, segno concreto della vastità del dominio in mondi "diversi", di cui l'imperatore tedesco non ha peranco nozione. Troppo poco per giustificare l'atteggiamento di Federico, se non si pensa, con quasi tutti gli autori, che il Barbarossa già meditasse l'impresa siciliana, e già facesse conto di assicurarsi per essa l'indispensabile appoggio delle galee genovesi. E' evidentemente l'oggetto di quei «multa secreta consilia de honore regni et Ianuensis civitatis» cui accenna Caffaro. E la sua reticenza non deve far meraviglia. Egli tacerà sempre l'impresa di Sicilia, che anche nel patto del '62 non ha nome, e tanto meno commento: essa evidentemente esula in modo assoluto dal programma del vecchio cittadino che si è formato nello spirito della Crociata. Ma intanto, come ha scritto acutamente uno storico, lo Scarsella, a cominciare dalla prima Roncaglia «tra Federico e il Comune di Genova si combatte la guerra diplomatica», nella quale i Genovesi sono favoriti dall'atteggiamento aprioristicamente a loro favorevole del Barbarossa.
Nel '55, pur distruggendo Tortona, Federico si astiene da Genova, che osa persino costruir nuove mura, quasi a sfida. Eppure è evidente (più di uno storico l'ha messo in rilievo) che quelle mura appena iniziate e ancor rudimentali non possono aver fermato Federico, che nel nuovo "convegno" ripete «la promessa di voler colle sue concessioni avvantaggiar Genova su ogni altra città d'Italia». Perché? Non è evidente ancora una volta che Federico tende ad allettare Genova con una benevolenza interessata e sospetta? O sarà solo il "rispetto" per una ricchezza e potenza di cui avverte che non gli appartiene? Certo Genova sente a sua volta questo "complesso" di Federico e lo sfrutta, giocando d'astuzia sul filo del rasoio, con una politica di alleanze trasmarine che ad un tempo irritano ed irretiscono il Barbarossa.
Nel '58 sembra che la corda sia per spezzarsi: ma Genova è ormai nettamente fuori del "collasso" economico del '53, e tiene ben alta la testa in quella orgogliosa affermazione di sé, in nome dei privilegi antichi, che non vuole commenti. Sottolineiamo soltanto la franchezza con cui Genova difende come diritto ormai inalienabile le "consuetudini", la chiarezza con cui definisce la extraterritorialità, se così si può dire, delle fonti della sua ricchezza - per cui nega a Cesare il tributo, anche se fa il dono "grazioso", che è ovviamente altra cosa, e suona quasi irrisione per l'avidità di danaro dell'imperatore - ed infine la fierezza "romana" che ispira tutta la pagina e sembra rivendicare, dopo quasi 14 secoli, il foedus aequum dei tempi annibalici. Ma c'è un particolare che merita un cenno a sé: Genova non mette in discussione la legittimità della "fidelitas", per tutti, e del tributo per le altre città, che non sono marittime (dell'autonomia di fatto genovese non c'è neanche questione). Anzi potrebbe sorprendere, fuori del realismo politico, l'accento posto dai legati di Genova sulla "giustizia" che avrebbero meritato i Milanesi.
La nuova prudente "ritirata" di Federico ancora una volta, in Caffaro, apparirebbe ingiustificata, se non ci fosse la provvisorietà dell'accordo, limitato al giorno di S. Giovanni (24 giugno) del successivo 1159, sicché esso appare bentosto inoperante e conserva pressoché solo il significato ideale altissimo delle affermazioni in esso contenute, che daranno i loro frutti in circostanze più fortunate, nel prossimo '62. Per vero per quasi due anni la cronaca sottace ancora dell'imperatore ed insiste invece nel magnificare Alessandro, il pontefice contro cui Federico ha suscitato l'antipapa Vittore e che Genova accoglierà ed ospiterà regalmente. Non è forse chiara nel cattolicissimo Caffaro, pur così rispettoso, proprio perché cattolico, della sovranità del Sacro Impero, la contenuta accusa, e quasi minaccia, contro l'imperatore scismatico? E così in questi anni che precedono il '62 pressoché tutte le manifestazioni di Genova sono diverse dagli interessi del Barbarossa, (a parte la neutralità, o la non belligeranza, nella lotta di Federico contro i Comuni lombardi), e tali da accentuare per Genova, anziché moderare, quella tendenza all'autonomia e quella effettiva potenza di città-stato che già aveva tenuto in rispetto l'imperatore.

a Genova Federico a Genova

Di fronte a queste posizioni di antagonismo latente, ma non troppo, che tocca l'apice nel 1158 col patto "a termine" del Bosco, la convenzione del '62 per Genova, o quanto meno per Caffaro e la politica di cui egli per anni fa l'ispiratore, suona quasi come una capitolazione: Federico è pervenuto a impegnare Genova nell'impresa di Sicilia, alla quale sino a quel giorno la città si era sempre sostanzialmente sottratta, e che l'annalista, anche in questa suprema circostanza, riesce a non nominare, velandola, come nel '54, se è vera l'ipotesi degli storici, sotto il generico: «servicium, sicut in privilegiis scriptum habetur, facere promiserunt». Di fatto alla convenzione Genova giunge non spontaneamente, ma quasi costretta dal gioco finalmente riuscito del Barbarossa, che ha testé stretto patti vantaggiosissimi con Pisa ghibellina, promettendole aiuto anche in caso di guerra contro Genova. La nostra città ha sempre resistito alle sollecitazioni imperiali per una "pace" condizionata alla guerra antinormanna, pensando realisticamente ai suoi interessi siciliani, fiorentissimi dopo il primo presumibile rifiuto al Barbarossa ed il conseguente patto con re Guglielmo nel '56: ne sono testimonianza di prim'ordine i cartolari notarili di Giovanni Scriba per gli anni tra il '55 e il '62. Ma ora, di fronte alla minaccia di essere totalmente e definitivamente estromessa da quei mercati a tutto vantaggio della irriducibile rivale, Genova deve rassegnarsi alla spedizione, ed al patto, che suona troppo favorevole.
Ma Federico avrebbe concesso tanto, anche di ciò che non risulterà vana promessa e rimarrà acquisito per sempre, se Genova non avesse orientato da tempo la sua politica alla neutralità e all'equilibrio fra i potenti, il papa, il Regno normanno, l'Impero di Oriente e l'Impero di Federico (cui va aggiunta Pisa), che giocano nel decennio una sorda lotta quasi di ogni giorno, in una difficilissima convivenza? Sta di fatto che, in particolare, di fronte al Barbarossa, Genova persegue una politica sorniona e di stancamento, facilitata dal fatto che intanto Federico è impegnato contro Milano e i Comuni lombardi ribelli, e deve tenere a bada chi non gli è aperto nemico. Essa si inchina nell'omaggio formale, ma nega il tributo, e con quello innalza le mura e forgia gli animi alla resistenza; guarda in faccia l'imperatore, che sovrasta dall'alto del suo trono, "universale", sì, ma di "terraferma", e dietro le spalle tiene il remo bene immerso nel mare della sua ricchezza economica e del suo prestigio marinaro, contro cui Federico non possiede armi efficienti. Questa difficile diplomazia, che a volte richiama il dantesco «lungo prometter con l'attender corto» (ma non solo a carico di Genova), non tradisce mai sostanzialmente gli ideali della città ed i suoi fondamentali interessi economici, civili e religiosi (mi riferisco anche all'intransigente fedeltà verso la chiesa, costi quello che costi: e può tornare a buono…). Così Genova è più fedele all'odio contro Pisa che all'amicizia insincera ed inutile con Federico, tratta col Barbarossa quanto basta per tenerlo lontano dalle mura innalzate contro di lui, ma agisce in modo da non essere trascinato in imprese rischiose ed impopolari; ha coscienza della sua dignità "romana", ma soprattutto della conquista tutta personale della ricchezza che è potenza ed in certa misura "libertà"; sente quanto la sua essenza d'eccezione sia "necessaria" all'imperatore, e sfrutta abilmente questa "necessità".
Conclusioni
Il significato storico del trattato

lapide Lapide di Porta Soprana

Vogliamo ora tentare una valutazione conclusiva della convenzione del '62? Per vero, per quanto riguarda la forma, la "concessione" dell'autonomia può non essere un fatto nuovo; altre, più o meno limitate e parziali, sono venute prima, nel lungo cammino della storia della città: e non le richiamiamo. Anche questa è una tappa: ma è l'ultima, che corona l'edificio, che accende la fiamma: ed è quanto basta.
C'è da considerare la quasi ventennale precedenza dell'autonomia genovese rispetto a quella, ad esempio, dei Comuni lombardi e toscani. A rigore si deve ricordare che anche altre città conseguirono in questo tempo privilegi di rilievo: e sono quelle che favorirono Federico, o comunque non lo osteggiarono, contro il Papa e gli stessi Comuni ribelli. Primissima Pisa, che precede Genova di tre mesi (6 aprile '62) con quel trattato "parallelo" che è forse anche più effimero del nostro, perché Pisa solo in parte conferma nel tempo i privilegi. La sua persistente politica ghibellina porterà, di fatto e di diritto, ad una notevole riduzione dell'autonomia, specie con Federico II, che pur rispetta, almeno di nome, le franchigie e la libertà di commercio. Treviso, nel '64, ottiene il riconoscimento imperiale degli usi e dei privilegi, il diritto di fortificare ed ingrandire la città "ad honorem imperii", il proscioglimento dagli impegni presi per la spedizione di Puglia, Calabria e Sicilia, l'esenzione dal fodro4 e dalle gabelle; ma deve ancora subire il nunzio imperiale. Nello stesso anno anche a Pavia, la fedelissima, Federico concede bensì facoltà di eleggersi i consoli, ma riafferma il suo diritto di celebrare l'investitura degli eletti personalmente, o per mezzo di un nuncius specialiter ordinatus.
La precedenza pertanto sussiste, tenuto conto della pienezza e dell'efficacia dell'autonomia che Genova ottiene e mantiene, ed è un fatto storicamente giustificato dai rapporti, che abbiamo chiarito, dell'imperatore ambizioso con Genova marinara, e soprattutto di Genova mercantile con Federico espressione di sovranità, nel quadro più vasto sia del programma di restaurazione imperiale verso i Comuni ed il Regno, sia in particolare della divisione degli stessi Comuni, a seconda dei loro interessi, nell'ambito dell'azione del Barbarossa: che è un argomento che oggi noi non siamo chiamati a giudicare. Or essa è una gloria o un "accadimento"? è una semplice "precedenza" o anche un "primato"? Certo, al momento, non apparve una grande conquista. Di qui il tono minore di Caffaro, che s'è visto; di qui forse anche il discreto silenzio degli storici d'oggi. La risposta ultima in merito verrà dopo.
Sotto un altro punto di vista il patto in sé è un'esperienza negativa, per l'assenso alla spedizione di Sicilia, con le sue promesse fasulle, che saranno effettive solo a condizione della conquista anche genovese; e già abbiamo accennato, sull'esempio di quanto accadrà nel 1194, quando si vollero revocare anche i "privilegi" del '62, quanto poco ci si potesse fidare delle promesse teutoniche.

Ventimiglia Stemma di Ventimiglia

Ma bisogna considerare come Genova è giunta a quel trattato, e tener conto delle convenzioni imperfette, ma quanto espressive, degli anni che precedettero, del '54, del '58, le quali illuminano e condizionano il patto nuovo. E' qui che esso acquista il suo vero significato. Vuoto di valori politici contingenti, esso ne ha uno storico e giuridico perenne: non tanto Federico ha concesso, quanto Genova si è diplomaticamente guadagnato. Genova accetta indifferente ogni condizione, anche se vana, e non ci crede; ma non può, rifiutando, irritare le illusioni di Federico. Non si esalta, ma neanche si deprime: attende gli eventi; e gli eventi giocano in suo favore. La spedizione malaugurata di Sicilia per ora non si farà, e i Genovesi, entrati tosto in furibonda lotta con il coalleato pisano, non hanno certo contribuito alla sua effettuazione… E intanto fiscalmente non dan nulla… Il Barbarossa probabilmente pensa di vendere fumo, ed invece le vicende impensate faran sì che si tratti di arrosto, perché Genova, caduta la scoria, considera quelle concessioni come ben valide, come controparte di un ossequio formale che non intende negare - ed è questa la sua saggezza - anzi presta tanto più sinceramente in quanto ha conquistato di fatto la piena autonomia, senza neanche la riserva delle conferme imperiali, e crede nella sovranità dell'imperatore, fonte della giustizia e del potere. Può sembrare che Genova non riceva nulla, e invece riceve la pienezza di quella libertà e autorità che ha conquistato col sudore e col sangue. Essa ora lo sa e non lo sa; ma lo ricorderà nei secoli venturi, quando si farà forte della concessione sovrana per confermare contro tutti i detrattori e i nemici la sua dignità; e lo ricorda soprattutto nelle contingenze immediate, quando dal naufragio di tante vacue parole saprà col suo innato senso del diritto salvare quelle che non sono parole, contro il dispetto del Barbarossa che solo dopo Legnano diventerà più mite, contro la malafede di Enrico VI, contro la tenacia soprattutto di Federico II. Ed è qui che Genova guelfa merita, e conferma per sempre, la sua libertà.
Ma il supremo insegnamento della vicenda che ci ha distratto così a lungo è forse ancor questo: che ognuno ha quel che si merita, e che la libertà non è un dono: è una conquista. Genova non ha ricevuto: ha voluto la sua autonomia.


1 Così era chiamato Mujāhid ibn 'Abd Allāh al-'Āmirī (960-1044), arabo spagnolo, "uomo erudito, valoroso, amante della scienza e dei dotti". Le guerre civili che colpirono il califfato di Cordova gli offrirono l'occasione di farsi largo e di rendersi potente. Nel 1015 conquistò la Sardegna, da dove fu cacciato dalle navi pisane e genovesi.
2 Suddivisione della città in tre "quartieri".
3 Dominio del mare.
4 Diritto degli ufficiali pubblici e del sovrano di essere riforniti di foraggi e biada per i cavalli.

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