Testata Gazzetta
    Pezzi di storia

Corsari genovesi
di Antonio Calegari

Genova – giugno 1952

Il duello da secoli combattuto fra Croce e Mezzaluna non accennava a ristare; il Mediterraneo corruscava di fiamme e battaglie, di violenze e rapine. Il mare era una ladronaia. Turchi e Cristiani si battevano senza quartiere, del pari eroicamente. La vittoria di Lepanto aveva insegnato che i turchi non erano imbattibili; essi correvano tuttavia i mari da padroni. Le navi crescevano ai musulmani come «le barbe tagliate», secondo la pittoresca espressione del rinnegato Gran Vizir Mehemet Sokolli. Ma, paradossi dell'umana vicenda, le armate turche debbono praticamente ritenersi… cristiane! Esse erano formate da navi costruite da veneziani e genovesi, armate di artiglierie portate dall'Italia o fuse in Turchia da europei: al loro bordo agivano e combattevano rematori cristiani, marinai italiani, greci e dalmati, giannizzeri e leventi di gente cristiana; e, soprattutto, erano comandate da ammiragli cristiani rinnegati, in gran parte italiani e greci. Che sarebbe stato l'Impero Ottomano senza i rinnegati?

capitano Capitano di nave musulmana
(da un manoscritto marosano).

Dall'innumerevole pleiade di questi rinnegati - spesso ne è ignoto il nome cristiano - balzano fuori, quali astri maggiori, gli ammiragli Barbarossa e Dragut, Luccialì e Sinan - italiani quest'ultimi due - che vanno annoverati fra i più grandi marinai del tempo.
Le loro gesta sono famose; né è da credere che fossero tutti scellerati e perversi; come sono descritti nelle storie e nelle cronache del tempo.
Cristiani e mussulmani si rendevano bravamente pan per focaccia: il fanatismo cristiano non era meno irriducibile di quello nemico. Certo, se turchi e barbareschi alleati pirateggiavano le acque, se devastavano le nostre costiere, buttandosi a far bottino su tutto quanto lor capitava sotto gli artigli, e ricchezze e genti, specialmente donne e fanciulli da condur schiavi al remo ed ai lor serragli; se avevano tramato insidie contro grandi personaggi, quali Papa Leone, il Duca di Savoia, il Gran Maestro Lilladamo e la bellissima Giulia Gonzaga, non meno fieri, tempestosi ed inesorabili furono i cristiani durante le loro imprese nei mari del Levante, spesso capeggiate dai Cavalieri di Malta e di Santo Stefano.
All'odio reciproco i turchi aggiungevano il disprezzo.
Prova ne sia questo episodio: durante la festa della circoncisione del figlio di Amurat (1582), fra gli altri spettacoli fu dato il bombardamento di un castello con bandierine rosse e gialle, dal quale uscirono poi grugnendo quattro maiali, alludendo alle potenze cristiane di cui era presente il corpo diplomatico; ed in più si fece sbranare da un leone un quarto porco fatto uscire dal palazzo dell'ambasciatore imperiale.

Sinan flagello dei mari, successore di Lucciali nell'alto comando della flotta ottomana, era figlio di Visconte Cicala e di donna Lucrezia. Visconte Cicala, Cavaliere di San Giacomo della Spada, discendeva da una nobile casata genovese che, trapiantatasi in Sicilia, aveva dato uomini illustri alla Chiesa, alla scienza, alla marina e alle armi. Scipione stesso aveva portato in oriente il tumulto avventuriero ed eroico del sangue che gli scorreva nelle vene.

Padrona Capitano della "Padrona" di Biserta.
(dis. del Cav. D. Fabroni, anno 1675).

Visconte Cicala si era dunque stabilito con la famiglia in Messina, accolto fra la nobiltà, console genovese nel 1553; egli era capitano di due galere proprie, spesso armate in corso, con le quali si era distinto in brillanti imprese a danno dei barbareschi.
Fu nel 1561 che, mentre veleggiavano verso la Spagna per dirimere una vertenza con Duca di Medinaceli, Visconte ed il figlio Scipione, quattordicenne di bellissimo aspetto, vennero catturati dal famoso Dragut, il quale, in agguato fra le isole Egadi, piombò loro addosso con tre galeotte. Benché combattessero valorosamente, coadiuvati da Don Osorio, furono sopraffatti e dovettero arrendersi. Nel combattimento perì Don Pietro Urries e sua moglie la baronessa d'Aierbe fu menata schiava assieme ai Cicala.
Quest'ultimi furono mandati da Dragut a Costantinopoli, in dono al Sultano. Questi era Solimano, Sultan Suleiman, chiamato il Magnifico dagli storici cristiani e Kanini, il Legislatore, dal suo popolo.
Guidato dalla bionda, intelligente e gioconda moglie Rossellana, forse di sangue toscano, egli innalzò l'impero ottomano ai più alti fastigi di potenza; fu per ben 13 volte comandante supremo in campagne di guerra, tolse Rodi ai Cavalieri Gerosolimitani lealmente combattendo; conquistò Belgrado, la Georgia ed altre regioni; gettò le basi di una grande marina, promulgò codici, costruì famosi monumenti, protesse arti e lettere dimostrandosi spesso di animo cavalleresco.
Il padre venne rinchiuso nelle prigioni dette delle sette torri; il figlio, dai tratti intelligenti e dai modi gentili, piacque assai al Gran Signore ed entrò paggio nel suo serraglio. Era fatale che il giovanetto, pressato da lusinghe e minacce e più ancora sospinto dalla speranza di rendere la libertà al padre con la sua abiura, si convertisse ben tosto all'islamismo, prendendo, come dicevasi, il turbante. Ma infelice il padre che, liberato, fu subito ucciso col veleno!
I paggi di Solimano erano destinati, come gli adolescenti di Alessandro, al raggiungimento di alte cariche dello Stato. Ed ecco Scipione fra i giannizzeri, truppe scelte prelevate in tenera età fra le popolazioni cristiane soggette al turco: «… ed in ora si vede - scrive il bailo veneto a Costantinopoli Senatore Antonio Tiepolo - riuscito in l'estremo favore il Cicala con grado di Agà dei giannizzeri, giovane ancora di 28 anni. Onde tiene memoria ancora e della lingua e delle cose dei cristiani; ma si mostra durissimo contro di loro; forse perché veramente sia fatto turco…».
Quando Scipione era Agà dei giannizzeri altri rinnegati coprivano gradi fra i più importanti: c'era Luccialì (Luca Galeni) calabrese, Ammiraglio della flotta e Sokolli, bosniaco, Gran Vizir; Piali-Pascià, ungherese, vizir della Cupola; Ahmed-Pascià, stiriano, e Mahommed Pascià, austriaco, rispettivamente 2° e 3° vizir e poi Welzer, transilvano, capo degli eunuchi dell'harem.
Attraverso le relazioni dei baili nella capitale ottomana si può d'uno sguardo abbracciare la rapida ascesa del Cicala, il quale sposò successivamente, dopo il 1576, due figlie del potentissimo Gran Vizir Rustem Pascià, genero di Solimano.
Dal 1585 Scipione si segnala per atti di valore combattendo strenuamente nelle lunghe guerre contro Persiani e Ungheresi; diviene governatore di città, e creato Pascià è finalmente ricchissimo; tanto che, appoggiato a corte dalla potentissima sultano Marmath, compera per 200.000 zecchini il capitanato del Mare. Quale ammiraglio e berglierbei delle isole dell'Arcipelago, ne incassa annualmente 40.000. Intanto corre incessantemente i mari italiani, prode, astuto e terribile, assalendo navi e squadre e convogli, menando strage e rapina in città e riviere. Sul mare gli spagnoli sentono il suo ferro, in terra specialmente Reggio soffre la sua rabbia, infelice città già distrutta prima da Barbarossa e Dragut. Conquista e consegna al suo Gran Signore le città di Tripoli e Tunisi.

medaglia Allegoria della lotta sul mare tra Cristiani e Musulmani (da una medaglia coniata in onore
di Don Giovanni d'Andria).

Scrive il celebre Matteo Zane al Senato Veneto: «Il Cicala, Capitano del Mare, siede in divano come bassà vizir nel primo luogo dopo il Ferat, e se lo è guadagnato con una continua servitù sino da allora che uscì di serraglio, e in Persia gli sono successe fortunatissime imprese, nelle quali ha mostrato più ardire e più valore della persona, accompagnato con inganni e stratagemmi, che giudizio e prudenza per un supremo comando… E' ricco a meraviglia e per natura avarissimo… Fa professione alla scoperta di nemico delle serenità vostra, dicendo, benché sia nato a Messina, di discender da Genova, patria naturalmente poco amica di questa Serenissima Repubblica». E Gianfrancesco Morosini osserva che «… E' stimato uomo molto valoroso…; ma per essere italiano non si fideranno mai di lui compiutamente».
L'elezione a Sultano di Maometto III segna una battuta d'arresto nella carriera del Cicala. Egli cade in disgrazia per intrighi di corte dovuti alla longa manus femminile, com'era costume avvenisse nel secreto degli harems imperiali. Non solo è destituito dal comando della flotta, ma, in seguito a sospetti di sua compartecipazione ad una sommossa militare contro il Gran Vizir Ferhad, è esiliato a Kara Hissar nelle vicinanze di Cesarea.
Ben presto però la sua stella ritorna rapidamente a splendere. Nel 1595 è richiamato ed inviato al fronte ungherese, dove conferma il suo valore. Il contributo da lui dato alla vittoria del 15 ottobre 1596 è tanto essenziale ed evidente che riceve sul campo il grado e le insegne di Gran Vizir. L'anno dopo eccolo nuovamente Ammiraglio.
Aveva ragione il Morosini: «… ma per essere italiano non si fideranno mai di lui compiutamente…».
Infatti il Cicala macchina grandi progetti, che purtroppo non riuscì mai a realizzare; le cause furono tante, diverse, difficili a sondare, perché forse troppo sepolte in lui stesso.
La sua azione, poco nota, diventa comunque interessantissima e si intesse sopra un telaio di supreme idealità, dove altresì si muovono re e imperatori, ed il Papa stesso; né, come vedremo, fu tutta fantasia la sua. Solo gli eventi, forse, vollero diversamente.
Egli dunque teneva le fila di una complessa e sia pur tortuosa vicenda, destreggiandosi presso la corte ottomana. E nulla frattanto sfuggiva alle sottili indagini della diplomazia veneta.
La sua mente si era accesa al bagliore di nobili imprese durante l'incontro con la madre nelle acque dello Stretto, ed all'incoraggiamento materno si era aggiunto quello di due parenti religiosi, i padri Antonio e Vincenzo Cicala.
Particolari e riservatissime trattative ebbero inizio fra Scipione, il Papa, l'Imperatore ed il Re cattolico. Egli avrebbe dovuto ritornare alla fede cristiana, ribellarsi con l'intera flotta al Sultano, spodestandolo insieme a tutti gli accoliti; impadronirsi insomma dell'Impero ottomano, colpendolo a morte, con l'aiuto degli alleati, nella sua potenza basilare e più significativa: nel dominio del mare.
Donna Lucrezia si era rivolta al sommo Pontefice, riferendo l'incontro avuto col figlio, chiedendo consigli e preghiere perché costui ritrovasse la via smarrita. Ed il Papa, dopo aver teneramente risposto all'afflitta madre, invoca e propone presso l'Arciduca d'Austria e Filippo III una nuova Santa Lega contro il Turco; quale ambasciatore sceglie il Padre Antonio Cicala.

lotta Lotta tra Cristiani e Musulmani
(particolare da un'incisione del volume di G. Catena "Vita di San Pio V").

E qui si innesta la strana figura e la fortunata attività del fratello di Scipione, Carlo Cicala, che era intervenuto al famoso incontro. Questi «… di spirito e di ingegno vivissimo…» era già comparso a Costantinopoli verso il 1594 chiamatovi dal fratello; «egli è ricco di denari - dice il portavoce veneziano - e più di entrata, e riscuote una pensione dal Re cattolico di 500 scudi all'anno». Ed ora chiede a Scipione di interporre i suoi buoni uffici presso il Gran Signore per ottenere prebende e favori tuttavia senza dover arrivare ad alcuna esplicita e formale abiura religiosa. Continua il Sagredo «… e conseguì finalmente la dignità (del Ducato di Nixia) con l'obbligo di sborsare al Casnà annualmente 14.000 ducali, non senza mormoratione degli emuli, che pubblicavano così lui come il fratello interessati nelle compiacenze di Spagna; ma per il merito della battaglia di Agria, che spuntava all'accusa dei suoi nemici contro di lui, non si dava credito alle mormorationi…».
Nel 1599 il nome di Sinan Pascià si trova associato nientemeno che con quello del famoso filosofo Tommaso Campanella nella congiura che avrebbe dovuto liberare la Calabria dal dominio spagnolo. Cicala infatti prolunga con le sue navi la costa calabrese; ma, non scorgendo alcuno dei segnali di intesa, sta inattivo e sospettoso fin quando, avuto la prova che la ribellione era fallita, ritorna a Costantinopoli non senza aver assaggiato qualche colpo di mano infertogli dalle «galere del diavolo», come erano chiamate quelle dei cavalieri di Santo Stefano.
Si conoscono le patenti regie (maggio-giugno 1600) mediante le quali al Conte Carlo Cicala veniva data la investitura dell'Isola di Nasso e di altri isolotti delle Cicladi; copia di tali patenti furono ottenute dalla meravigliosa abilità degli astuti baili veneti, i quali poterono altresì aver nelle mani quasi l'intero carteggio tenuto dai fratelli Cicala. In esse Sultan Mehemet concede: «… all'eletto buono et seguace della disciplina et osservanza di Cristo Carlo Cicala residente in Messina…» per intercessione del «… prudentissimo, valorosissimo et del mio Imperio ferma colonna…» fratello Sinan Pascià il Ducato di Nixia a vita «… con pato però di portar la madre in queste bande, et comando che senza tardar né indugiar debbi portar la madre sua et debbi andar nel Ducato sopradetto di Nixia et in sua vita goderlo et governarlo, et così saprai et darai fede al mio imperial segno…».
Certamente Scipione stesso aveva convinto il Sultano a porre come patto il trasferimento della madre a ciò spinto dal non mai sopito amor filiale. Intanto presso Carlo Cicala si concentrano gli armeggi che si tramano in Roma, a Madrid e Costantinopoli. La posizione di questo strano Duca di Nasso è assai delicata; guai se alcuna cosa fosse trapelata! E sì che i nemici eran tanti, e potenti ed occulti.
Tuttavia egli con fine arte diplomatica conduce la faccenda in modo da dare ad intendere propositi totalmente opposti.

vascello Vascello tondo tunisino catturato dai Cavalieri di S. Stefano
nel 1652 assieme al Governatore di Tunisi e ad altri compari (riproduzione inedita dalla carta 31 dell'album di Fabroni).

Ad una certa epoca ecco riuniti a Nasso i due fratelli e il Padre Vincenzo. Nulla si seppe circa l'argomento dei loro colloqui. Stabilirono essi un piano, una comune direttiva di marcia intesa al raggiungimento delle grandi finalità caldeggiate? E' molto probabile. Fatto si è che l'attività di Padre Vincenzo diventa sempre più serrata. Da Nasso è dal Santo Padre inviato alla Corte di Spagna, con la quale anche Sinan Pascià è in relazione diretta; quattro mesi dopo è di ritorno e riferisce al Papa sul buon esito delle trattative col Re Cattolico; dalle quali scaturiscono due Brevi, interessantissimi per la stesura ed il contenuto, da consegnare al rinnegato Cicala. Il primo è in data 5 Aprile 1603.
«Al nobile uomo, diletto figlio, Scipione Cicala
Clemente Papa VIII
La benignità del Salvatore degli uomini, Gesù Cristo, ci ammaestra con precetto e coll'esempio a ridurre nella via della salute i fuorviati, e ad agevolare l'ingresso alla gente smarrita largheggiando con esso di favori e di grazie.
La forza di avverse fortune ti ha costituito in questo caso.
Tu e il tuo padre Visconte Cicala, navigando in alla volta di Spagna, rimaneste preda di Corsari. Eri tu allora nel fiore dell'adolescenza; e portato dinanzi a Solimano, vinto dalle costui blandizie, rinnegasti la fede, che avevi professato nel sacramento della rigenerazione. Passati quindi molti anni, fosti sollevato alle più alte cariche di mare e di terra, circondato dell'onore e della stima di tutti; pure un perpetuo rimordimento ti agitava l'anima, e in mezzo agli onori desideravi da lungo tempo riabbracciare la fede cristiana, ma per vari motivi hai differito sino a questo tempo. Ora sei venuto nel proposito di ritornare nel grembo della Chiesa e di condurvi eziandio la tua famiglia e le milizie da te dipendenti, e inoltre di recare in tuo potere i regni e le provincie tutte dal Turco tiranneggiate, e tutte convertirle alla Religione cristiana così fieramente combattuta dal Turco.
Ciò tu confidi di ottenere, qualora ti secondi la Sede apostolica colle sue forze e con quelle de' Principi cristiani.
Noi, dopo aver trattato ponderatamente tutto questo negozio con Rodolfo, Re de' Romani, imperatore eletto, e con Filippo Re Cattolico, l'abbiamo esortati con lettere e con ambascerie a prestarti forze e favori, a gloria e incremento della fede cristiana. De' quali Rodolfo approvò il tuo consiglio e promise armi e soldati; e Filippo si è obbligato ad assisterti con navi e milizie e gran forza di danari.
Così sta espresso nella convenzione stipulata tra te e lui, ch'egli ha segnato di sua mano e suggello e Noi abbiamo approvato e colla presente lettera intendiamo sanzionarne il valore…
Noi dunque motu proprio e di scienza certa disponiamo che quando tu abbia abiurato e detestato l'apostasia e gli altri errori, e giurato di astenertene in avvenire, alla presenza di un notaio e testimoni e di un sacerdote qualsiasi purché in unione alla Sede Apostolica: Noi ti sciogliamo dalla scomunica e dalle altre pene, ti ricongiungiamo colla Società dei fedeli, e cancelliamo ogni macchia d'infamia che per quelle possa pervenire sopra di te. Intendiamo però di obbligarti ad adempiere la penitenza, che per tua richiesta t'ingiungeremo; e dovrai inoltre spedirci attestati della tua riconciliazione.
Inoltre del regno costantinopolitano, quando e perché tu li abbi ridotti in tuo potere: In nome della Trinità SS.ma per la sua gloria, per la propagazione della Chiesa Romana, e per la tranquillità della cristiana Repubblica Noi ti conferiamo l'investitura e i diritti, e i domini e i titoli sopra le province acquistate o da acquistarsi, in quel valore e maniera che esistevano ne' sovrani cristiani prima che dal tiranno de' Turchi fossero rapiti, trasferiamo in te con diritto di trasmissione a' tuoi figlioli; purché e per quanto tempo conservino la religione cristiana. (E' fatta riserva dell'Ungheria per Rodolfo, di Gerusalemme, de' Ducati di Atene e di Neopatria per Filippo, secondo le convenzioni stabilite). I diritti, che vi possano avere Re o Repubbliche cristiane, per non esservi quasi più speranza di farli valere, li trasferiamo in te e nella tua discendenza.

barca Barca Tripolina dell'epoca di Mohammed – Giovanni Soffietti oriundo genovese, Bey e Pascià di Tripoli
(riproduzione inedita dalla carta 201 dall'album del Cav. Fabroni).

Potrebbe accadere che per vari motivi tu debba indugiare la esecuzione de' tuoi propositi. Quindi ci preme provvedere alla tua anima, la cui salute vale più che tutti i regni del mondo. Diamo dunque facoltà a qualsiasi sacerdote (purché in unione con Noi) che tu abbi scelto a tuo confessore, di scioglierti dalla scomunica e dalle altre censure; ciò intendiamo che valga solamente nel foro della coscienza. E mancandoti il confessore qualora tu abbia vera contrizione de' tuoi peccati e desiderio di confessarli, noi in virtù della presente ti assolviamo delle censure e pene; sì veramente però che alla prima occasione tu adempia l'obbligo tuo col confessore; se no ricadrai nelle stesse pene…
Dato in Roma ecc.».
Nel secondo Breve, dopo aver rammentato come nell'antecedente che lo assolveva di tutte le pene incorse per la sua apostasia, il Pontefice così prosegue:
«Sappiamo della gloriosa impresa che vai meditando conforme a Noi all'Imperatore e al Re Cattolico hai fatto intendere molte volte; e come ultimamente ti sei deciso di voler mettere a esecuzione le cose divisate… Quando tu insorgerai contro il Tiranno de' Turchi e contro di lui pubblicamente avrai levato le armi, noi spingeremo tutti i principi cristiani a portarti soccorso. In oltre comanderemo a tutti gli Ordini Militari d'Italia e a' Grandi Maestri di San Giovanni Gerosolimitano, che co' loro soldati armi e galere concorrano teco all'impresa comune. Di più le nostre triremi armate e pronte, con quel nerbo di denaro che ci sarà possibile, saranno adoperate in tuo aiuto. Vogliamo poi che tutte le milizie tanto estere come nostre portino le bandiere e le insegne della Santa Chiesa Romana…».
Lo Scià di Persia ha dichiarato guerra all'Impero ottomano.
Nel giugno del 1604 il Kapudan Pascià Sinan è nominato Comandante supremo delle forze turche; l'esercito muove contro l'Armenia. I nemici hanno già occupato alcune città di confine, fra le quali Schiran, di cui è governatore il figlio di Cicala, Mahmud.
Ma alla grande battaglia di Tabriz (6 Agosto 1605) la stella del rinnegato violentemente tramonta; i turchi, sconfitti, ripiegano decimati su Van. Freme il prode Sinan, sfoga la sua tragica rabbia in atti di crudeli ed inutili risentimenti. Si rifugia in Diarbekir nel Kurdistan, dove muore di crepacuore il 2 Dicembre 1605. Forse più per la vergogna della patria sconfitta, lo ha abbattuto il fallimento dei grandi progetti, che nel vecchio cuore cristiano ardentemente tuttora coltivava. Gli erano pervenuti i Brevi del Vicario di Cristo? Aveva letto la ineffabile conferma papale che sarebbe stato proclamato Signore di una Turchia redenta al cristianesimo?
Appena saputa la morte del Pascià, il Sultano non indugia un momento a far piazza pulita nel Bagno del rinnegato, fornito di oltre cinquecento schiavi, ed a far bollare tutte le case da lui possedute sia in Costantinopoli che in Pera, all'infuori di quella abitata dalla Sultana sua moglie «presso la quale si dice che sia il tesoro grande d'oro, ed zogie che possedeva, nel quale di già ha la sua maestà principiato a metter mano».
Dopo tanti anni trascorsi sotto le insegne della Mezzaluna, ricco famoso e potente, Scipione Cicala, chiamato in turco Dshigalesade, «ha finito i suoi giorni - così scriveva al suo governo Ottaviano Bon - vituperosamente, et è passato con disperatone si può dire morendo fra i suoi nemici alla eterna danatione et hora contro di lui si ragiona che sempre sia vivuto con poco amore a questo Imperio, et sempre inclinato a Spagna…». Triste epitaffio per colui che sarebbe potuto diventare uno dei più grandi personaggi della Storia.

Altro oriundo genovese - poco noto ma degno della massima considerazione - fu Giovanni Soffietti, nato a Chio nel 1601. All'età di vent'anni batteva già il mare, marinaio e scrivano, su vascelli mercantili, e fu a bordo di uno di questi, comperato con gli aiuti paterni, che si diresse, carico di mercanzie, al porto di Algeri. Quivi, venuto a diverbio con un giannizzero, e trascinato dalla sua impetuosa natura, lo stese morto. Acciuffato e condannato a morte, fu salvato mediante l'abiura. Fattosi perciò musulmano, assunse il nome di Mohammed Abdalla. Allora riprese il mare, questa volta come corsaro e rivelando doti non comuni di capacità marinaresche e piratiche. Ben presto, a causa di nuove beghe, lasciò Algeri per sistemarsi a Tripoli, dove fu graditamente accolto da Mustafà Bey, che già ne conosceva l'alto valore. Ed il Dey non si sbagliò, perché in men che non si dica Mohammed diventò il miglior corsaro della Reggenza e fra i più considerati della costa africana. Mohammed insomma, scrive il Bergna: «per il valore e le sue doti di mente era riuscito ad entrare nelle grazie dei grandi: Ramadan Day gli aveva dato in isposa sua figlia Miriam e ciò aveva contribuito ad elevarlo nella città. Conoscitore profondo dell'anima venale turca, egli donava generosamente a' suoi giannizzeri parte della preda di guerra e largheggiava pure coi beni che aveva ricevuto dal suocero. Come capo corsaro il suo valore gli dava mezzo di arricchirsi a spese dei mercanti cristiani…». Un bel giorno (1631), Mohammed con un audace colpo di stato depose lo suocero e, sostenuto dai giannizzeri, sì proclamò senz'altro Dey di Tripoli; così a trent'anni egli era già a capo dello Stato, così ebbe la ventura di regnare sulla città conquistata al dominio turco, nel 1551, dal compatriota Sinan Pascià. Prese Mohammed ad organizzare da par suo la flotta e le forze armate della Reggenza, mulinando grandi progetti di espansione politica e territoriale, sognando di impadronirsi delle Reggenze di Tunisi e di Algeri. Dato l'aumento delle prese, si affrettò a far costruire un nuovo bagno - detto di S. Antonio - per gli schiavi, verso i quali provava sentimenti di umanità; attribuì incarichi speciali ai rinnegati. Verso i religiosi cristiani si dimostrò largo di concessioni e benevolenze, e fu gran merito il suo quello d'aver permesso l'inizio e lo svolgimento della Missione Francescana a Tripoli. Insorsero beghe e maneggi locali contro Mohammed per scalzarlo dalla sua posizione; ma a Costantinopoli le voci non ebbero credito; lo si sapeva uomo tenace e indomito, e note risultavano le sue prodezze sul mare. Il Sultano venne anzi nella determinazione di nominarlo pascià, inviandogli la bandiera dell'impero; Mohammed declinò invece la carica offertagli di Ammiraglio della flotta, che non riusciva a convincerlo.
Da allora il nostro Giovanni accentrò in sé autocraticamente il potere, sciogliendo il Divano, sbarazzandosi di consiglieri e presidenze, di cui non volle più sentire nemmen parlare, pena la morte. Difatti impiccò tutti coloro che tentarono reagire. Continuò ad abbellire la città, sistemò le finanze, rinnovò trattati di commercio, sempre sollecito del bene dello Stato di cui era divenuto il padrone assoluto.
Sua costante ed illuminata cura fu la flotta. Corsaro per eccellenza, si diede d'attorno ad aumentarne il numero delle navi ed a provvederne l'armamento su larga scala. «Prendeva il legname - scrive un cronista anonimo - dall'Anatolia e dall'Egitto, il ferro da Tessalonica, il cordame da Smirne e da Alessandria, e, a vergogna dei cristiani, malgrado il divieto del Papa e dei sovrani europei, i mercanti cristiani di Francia, d'Italia e d'Inghilterra portano tele per vele, spade, moschetti, piombo e i tripolini traggono dai vascelli che catturano tutto quanto abbisogna per costruirne altri».
Mohammed disponeva di 9 vascelli ed una galera. Le più grandi navi erano armate di 30-40 cannoni e potevano imbarcare 300 giannizzeri e 50 schiavi cristiani, munizionamento da guerra, acqua e viveri. La flotta era al comando di un ammiraglio; i capitani delle navi dovevano saper leggere le carte nautiche, carteggiare col compasso, interpretare la bussola. Qualora imbarcassero truppe di terra, per rinforzo all'equipaggio, queste erano governate dai propri ufficiali. Chirurghi, calafati, carpentieri e nostromi erano scelti fra gli schiavi cristiani. I primi anni del governo di Mohammed furono molto fruttuosi mediante la pirateria. Nel 1635 gli introiti della Reggenza ammontarono a 180 mila ducati, gli schiavi da 400 salirono a 500 ed il Dey arrivò a disporre di 1400 giannizzeri. Naturalmente le fortune della corsa furono alterne, pur non flettendo la parabola dell'ascesa. Sempre buoni i rapporti commerciali fra il pascià ed i mercanti di Genova e Venezia, i quali ancoravano a Tripoli, costeggiando poi fino a Zuara per caricare sale, col quale Mohammed lucrava assai. Verso il 1642 i suoi pirati si impadronirono di una nave corsara savoiarda armata di 8 cannoni e 110 uomini; l'anno dopo poté aggiungere alla sua squadra due galere e tutto affidò al pascià di Tunisi, Adraman, col quale trovavasi in occasionali buoni rapporti. La flotta collegata andò spargendo non poco terrore sulle coste sarde facendovi quantità di schiavi, catturando parecchi vascelli cristiani al largo di Livorno e nei paraggi dell'Ustica, scontrandosi con le galere toscane a Porto Ercole, raggiungendo infine Biserta, dove venne diviso il copioso bottino.
Durante la guerra di Candia, Tripoli corse in aiuto della flotta imperiale con cinque vascelli e due galere e per un privilegio che il Gran Sultano riconosceva alla Reggenza per le benemerenze acquistate dai capi corsari, la piccola squadra tripolina, durante la rivista passata dal Gran Vizir nel 1647, sfilò in testa alla formazione col pavese spiegato. Mohammed Dey fu magnifico in tale occasione; egli inviò pure al Gran Signore 50 mila sultanine d'oro, stoffe di pregio e schiavi neri.
Nel 1648 Mohammed ebbe la visita del fratello Emanuele Soffietti, da lui ben amato come del resto tutti i suoi parenti. Ascoltò tangibilmente le preghiere del fratello intese a disporlo verso un umano trattamento degli schiavi. «Se si eccettua qualche incidente imposto dalle leggi e dalle tradizioni locali - commenta il Bergna - Mohammed fu uno dei pascià che trattarono meno peggio gli schiavi cristiani».
Ma intanto la stella di Mohammed andava impallidendo per via di congiure rinfocolate da odi, ambizioni e vendette, ordite dai supposti più fidati amici. Nel 1649 gli venne avvelenato il figlio dodicenne. Il padre non ebbe più pace; la sua fibra andò cedendo al dolore ed al veleno che lentamente era anche a lui propinato. Spirò l'alba del 28 settembre 1649, fra sospiri e lamenti. Venne sepolto nel cimitero accanto alla moschea di Dragut, in una tomba bianco marmorea, posta sotto una specie di cappella sormontata da cupola. Mohammed (altrimenti Mehmed Sâcizli) aveva 48 anni e regnava in Tripoli dal 1631.
Di statura mediocre, forte, robusto, di presenza grave e maestoso, aveva un animo generoso. Raramente rifiutava ciò che gli si chiedeva. Ambizioso e furbo, sapeva dissimulare i suoi pensieri. L'anonimo vi aggiunge un animo vendicativo e crudele. Parlava speditamente il turco, il greco, l'arabo, l'italiano e sapeva scrivere nelle prime due lingue. Della prole avuta rimase solo una figlia cieca, data in sposa a Osman Bey per ragioni di stato e d'interesse. Lasciò l'erario ben fornito e alla sua morte risiedevan in Tripoli 1650 schiavi cristiani, dei 4000 ch'egli ebbe in suo potere in 18 anni di reggenza. Si diceva in Tripoli che se non fosse stato soppresso così tragicamente, avrebbe realizzato un suo sogno di ritirarsi a vita privata in Malta. Ed è probabile, date le relazioni relativamente buone col Gran Maestro dell'Ordine negli ultimi anni di Reggenza, relazioni che servirono come capo d'accusa al pascià dì Tunisi per eliminare il suo rivale.
Chi materialmente lo avvelenò, un certo medico Francesco Ursetti calabrese, già schiavo in Tripoli, fu giudicato e condannato a morte in Sicilia, dove erasi riparato, appunto per il delitto commesso contro il pascià, che aveva avuto relazioni di amicizia e di commercio con le autorità dell'isola.
In mezzo alla imponente congerie dei rinnegati cristiani al servizio della Mezzaluna, ho potuto rilevare ancora i seguenti uomini di mare genovesi, o liguri: un Alì (alias Preve), Pascià di Tunisi nel 1612 (si ha notizia che mandava somme di denaro in regalo alla sorella Nicolosina Preve di Genova); un Mustafà, capitano di galera alla battaglia di Lepanto, un rinnegato genovese a Tunisi, comandante delle galere di Biserta e che, dicesi, abbia fatto schiavi oltre 20 mila cristiani, ed un Osta Murat (di casa Bianchi) nativo di Arenzano.
Certamente molti altri figli usciti dalla Superba avranno dato man forte alle imprese mussulmane sul mare, essendo prodi e consumati marinai; il loro nome vero si è perso, sia spontaneamente, sia perché a bella posta ignorato dai cronisti islamici, cui seccava rammentare glorie per loro raccolte dal ceppo cristiano.

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