Testata Gazzetta
    Pezzi di storia

La Badia di S. Fruttuoso
di Ulderico Tegani

Le Vie d'Italia – novembre 1924

inondazione Rovine della chiesetta
di S. Fruttuoso, dopo l'inondazione

La barca muove da Recco nella fresca mattina. Siamo in otto a bordo e possiamo dividerci in quattro coppie. La prima, la più legittima, è composta da due coniugi; la seconda da due giovinette che son sorelle; la terza da due giovanetti che son compagni di scuola; la quarta coppia è formata da me e dal barcaiuolo Gelindo ed è per certo la meno omogenea di tutte, poi che io sono un marinaio di terraferma e non so leggere per nulla affatto né l'acqua né il cielo. Gelindo Costa, che porta molto bene sulle larghe spalle robuste ventisei anni di mare, percepisce invece a prima vista ciò che sta scritto in quelle grandi pagine spalancate davanti agli occhi dei naviganti. Meglio egli starebbe accoppiato con l'altro maschio maturo della comitiva, il cav. Ubaldo Beretta, che oltre all'essere un genovese autentico è ingegnere navale e figuriamoci un po' se se n'intende! Uomini di preclara competenza, insomma, quei due, e se mi è lecito insinuarmi fra loro e dar così forma e volume a una triade che non stoni troppo, è soltanto per il titolo del peso ch'è cospicuo in tutti e tre, alti e massicci come siamo, a segno che gli altri cinque messi insieme non arrivano a far la giusta zavorra per l'equilibrio della barca.
La competenza del barcaiuolo e dell'ingegnere s'era tanto guarnita di prudenza da porre in grave dubbio la possibilità della escursione. Avevano essi lungamente indugiato sulla spiaggia, prima di decidersi per il sì. Quei due libroni misteriosi non promettevano proprio nulla di buono. Cielo imbronciato, mare ambiguo, nella piccola baia di Recco, e laggiù, alla Punta della Chiappa che la stacca a levante, c'era a tratti un biancor di frangenti. I due, squadrato il cielo in lungo e in largo e scrutato il mare da ogni banda, s'erano consultati le cento volte interrogandosi perplessi: «Che cosa troveremo dall'altra parte? Si va? Non si va?».
Non è un affar da poco andare a San Fruttuoso, e noi profani, che di tutto quel tira e molla avevamo una matta voglia di ridere, ci accorgemmo poi ch'esso era ben giustificato. Perché, infine, il barcaiuolo aveva dato mano ai remi e l'ingegnere al timone, e la barca s'era messa in viaggio fidando su nient'altro che sulla buona sorte.
Ora essa fila di buon passo, la prua verso la Punta, tagliando diagonalmente il golfo. Il cielo si rischiara un poco e il mare si fa azzurro. Il timoniere lo tien d'occhio, sospettoso; il rematore, bronzeo, nodoso, atletico, volge sugli scalmi le lunghe pale con un ritmo risoluto e guarda fisso innanzi a sé, come a misurare l'avversario.
Dietro lo sperone che la nascondeva appare Camogli, col suo minuscolo porto, il torrione, la spiaggia e lo scenario delle sue case che fa pensare a un gran favo per quella sua fitta geometria di finestre parallele. Di sopra è il monte Esoli dominatore e a dritta il Ruta distende le verdi falde ricamate di ville; poi la groppa s'incurva e gli alberghi lussuosi di Portofino vetta stan su la sella che risale subito brusca in un arcione diritto, e di lassù l'arco del monte declina sin che tocca il mare.
Dalla nostra parte noi vediamo l'enorme fianco impellicciato di conifere. Il villaggio di San Rocco è una borchia d'oro che l'azzurro campanile appunta a mezza costa sul mantellone verdastro. Basso, al margine di un lembo, si disegna un fermaglio argenteo: San Nicolò: una chiesetta, due o tre case, una bianca villa in cui un vecchio generale s'è fatto il suo quieto nido solitario che una flottiglia di paranzelle pescherecce, le vele candide spiegate al vento, sembra passando salutare.

oggi S. Fruttuoso nel triste abbandono d'oggi

Punta Chiappa protende le sue gobbette da cammello nude e bige, tra le quali risalta col suo biancore il cippo trigonometrico. Poche case sperdute sul dosso dello scoglio che noi doppiamo cautamente. Il mare si presenta bonario anche di là dal temuto limite, e il barcaiuolo Gelindo se ne ringalluzzisce tanto da sciorinarci il distico di rito fra i marinai «zenèixi»:
Passòu o monte de Portofin,
Addio moggé che son fantin!


Il quadro è mutato a un tratto, come se il vecchio Ansaldo, che a Recco si ristora dell'ingegnose fatiche scaligere, avesse con le sue mani magiche squarciato un «fondale» per cambiar la scena.
Dal mare, divenuto improvvisamente colore d'indaco squamoso e cupo - mare da pescicani, avverte l'ingegnere -, s'erge diritta a piombo, altissima, la montagna, simile a una parete gigantesca, a una muraglia ciclopica salente al cielo. Un senso di vertigine ci turba se leviamo gli occhi lassù, verso il ciglio superno che i pini coronano di una frangia lieve: aureola gentile sul colosso ferrigno. Perché questa muraglia che scoscende sul profondo mare, grigia, forte terribile come appare, ha un non so che di metallico e la si penserebbe di ferro se qua e là non la tagliassero di netto lunghi squarci che sembrano fette tirate giù con l'ascia. La stratificazione s'incide nella massa capricciosamente, elaborata dai millenni, ma, a guardar bene, la roccia lascia scorgere una sua epidermide brulla di strane incrostazioni, come quella d'un croccante, e in quei tondini pallidi o giallognoli che fittamente la punteggiano s'indovinano i gusci fossilizzati di conchiglie marine. La storia favolosa del remoto mondo è scritta nel mistero di questi geroglifici naturali: questa puddinga è una pagina spalancata nel gran libro della Terra.
La parete, peraltro, non è tutta liscia spianata e non è neppur tutta tristemente grigia. S'aprono in essa piccole bocche cavernose e si stagliano gole di piccoli fiordi che ne rompono la monotonia severa, e un sorriso bizzarro dischiudono a tratti certi alberi cresciuti per prodigio a velare di verdi ciuffi la nudità della montagna. Capodimonte. Sì: questo è veramente il muso formidabile che l'altopiano allunga sul mare con una specie di sforzo sitibondo. Il mostro un giorno volle bere e rimase in quell'atto immobile per sempre. Ma che grugno possente! La nostra barca naviga da non so quanto, dinanzi alla fiera visione soggiogante, ed essa non finisce che per ricominciare. La Punta del Buco ci conduce alla Cala dell'Oro, un'ampia insenatura nella quale ciò che d'aureo vi s'avventura vien colto al varco dalle guardie di Finanza che hanno la loro casetta solinga presso il mare e certo s'aguzzan la vista con le pupille più acute del Semaforo che sta su in alto per guardar più lontano. A oriente c'è un'altra sentinella diritta, ma questa, così all'impiedi, dorme da gran tempo. E' la torretta quadrangolare che nell'età di mezzo il Senato genovese eresse per vegliare su San Fruttuoso contro le rapaci scorrerie dei barbareschi.

anni fa S. Fruttuoso come era fino a pochi anni or sono

E' dunque vicino il rifugio in cui, nel terzo secolo, i più fidi discepoli portarono la salma del santo vescovo di Tarragona, ch'era caduto martire sotto la persecuzione di Giuliano imperatore, e sulla tomba edificarono la chiesa intorno alla quale poi crebbe un monastero di Benedettini che i monaci abitarono sino a mezzo del XV secolo, ormai pingue dei tanti doni e sin del monte di Portofino ad esso attribuito da Adelagia, la pia sposa d'Ottone I. E' vicino il sacro feudo che i Doria ebbero da Papa Giulio II, quegli che ne concesse il jus patronato al glorioso principe Andrea e agli eredi si trasmise il diritto di nominare i parroci di Portofino, di Nosarego, di San Giacomo, mentre dal monastero dipendevano i priorati di chiese genovesi come quella gentilizia di San Matteo, non solo, ma persino d'un castello sardo. E' vicina la Badia che tanto raggio di dominio s'aperse dal suo eremo selvaggio per l'alacrità dei suoi abati, per la possanza di quei Doria il cui nome tuttora risveglia epici echi in Liguria e ricordi gloriosi da un capo all'altro del Mediterraneo.

Doppiata la Punta Torretta, ecco la visione del minuscolo golfo che la Punta Carega delimita ad oriente. I due speroni la chiudono e la proteggono di valida guardia, questa insenatura piena di grazia in cui la montagna sembra essersi accartocciata in una piccola cappa, in una piega capricciosa e leggiadra, per comporre una nobile cornice al paesino germogliato d'incanto sulla breve riva. Tra il rigoglio della vegetazione che riveste i fianchi della conca, San Fruttuoso biancheggia squisito come il cammeo d'uno smeraldo, ed è verde il monte com'è verde il mare, tutto percorso da brividi cangianti. Un senso di dolce stupore ci prende allo spettacolo inatteso. E' veramente una bella bocca che sorride, qui, tra il grifagno cipiglio che ci aveva tenuti sinora nell'incubo d'una minaccia torva, e l'animo riposa volentieri nel respiro di pace che si effonde dalla pittoresca visione.

S. Fruttuoso L'immagine di S. Fruttuoso

Il paesino, ad esser precisi, aggruppa le sue cinque o sei casupole da pescatori in una calanchetta che s'insinua a levante, dominata dalla palazzina-caserma della Finanza. Il centro della conca è ancora dominio della vecchia Badia che v'impera col suo tetto bigio e con la cupoletta candida. La nascondono un poco la canonica, l'osteria e una casaccia che le si schierano davanti, ma non c'è verso: il campanile, pur tozzo com'è, ne scappa fuori e occhieggia d'alto in basso con le sue feritoie sottili. E poi c'è lì accosto, erto e forte, un gigante ch'è stretto parente della chiesa: la torre che Andrea Doria le piantò a guardia e custodia, che fregiò del suo stemma, che munì dei suoi cannoni.
Andiamo un po' a vedere.
Attracchiamo la barca a uno spigolo di molo rudimentale, e via traverso la spiaggetta ove quattro o cinque barche verdi s'asciugano al sole. Non c'è nessuno in giro, tranne qualche ragazzo e alcune gallinelle che saltabeccano tra i sassi e la sabbia. Il paese sembra deserto, in questa frazioncina camogliese a cui l'ultimo censimento ha assegnato la spettacolosa popolazione di 102 abitanti: quasi tutti pescatori che se ne stanno umili e quieti nel loro guscio a terra, sul loro guscio in mare, e il prete di San Nicolò scavalca il monte la domenica per venire a dir la messa, e quando qualcuno muore - pare impossibile, in questo lembo di paradiso, ma talvolta succede! - lo caricano in una barca e lo portano a Camogli perché qui - serena filosofia della vita e della morte - non c'è nemmeno il camposanto.
Passiamo sotto gli archi doppi della casaccia rustica che fronteggia il mare. Là dietro, in un bivio diruto, si può assaporare, col tramite d'una mescola bucata, la fresca acqua sorgiva che scaturisce da una polla del monte. Piegando a dritta c'inerpichiamo verso la torre. Oh no, essa non ha proprio più nulla di guerriero. Quadrangolare, grossa, chiusa da cima a fondo, salvo le finestre sui vari piani, ha preso la fisionomia bonaria di una casa un pochino alta e un tantino stravagante; ma niente più. S'è pur messo un coperchio di cinerea lavagna sopra i merli, un coperchio appuntito, con gli spioventi, come un tetto qualunque, e - ironia della sorte - dai buchi della merlatura profanata si sprigiona e vaga azzurrognolo per l'aere limpido un fumo che non ha assolutamente nulla di epico, poiché non è lo sparo di una colubrina che lo caccia fuori: è il fuoco della cucina.
Ma sì: la vecchia torre dei Doria è diventata in alto una discreta abitazione moderno-borghese, e giù s'è allogata la scuola elementare pei fanciulli del borgo. La fortezza è scomparsa, son spariti i cannoni e non c'è più nemmeno un certo sarcofago romano che stava un tempo a piè della torre e adesso è in salvo altrove col suo prezioso bassorilievo. Ne avevano fatto un abbeveratoio e un lavatoio, i posteri irriverenti: quelli che, del resto, non ebbero scrupolo di deturpare la veneranda Badia, non solo ricoprendone di calce i bianchi marmi che Andrea Doria aveva restaurati nel 1529, ma invadendone le adiacenze, sacre alla religione, alla storia e all'arte, e aiutando la natura e infierire e ad aggravare, con l'abbandono e l'incuria, la rovina di questo raro e glorioso retaggio millenario.

chiostro Il chiostro della Badia di S. Fruttuoso


Retrocediamo al bivio della sorgente montanina che fluisce al margine di un quadro desolato: l'antica chiesa romanica squarciata, mutila e cadente. Essa è al vertice di un imbuto altissimo che apre la gola verso il cielo: un valloncello orrido e precipite, ai cui piedi, or son quindici secoli, s'appollaiò l'eremo di S. Fruttuoso. Un sito stupendo di melanconica poesia; ma pericoloso. Sotto l'avancorpo del tempio passa il letto roccioso del torrente che ha la sua vita naturale nella fessura ripida e profonda del monte: parte di lassù, dall'orlo che ha il nome caratteristico di Pietre Strette, e per un pauroso cammino di cinquecento metri - che un sentiero proveniente dal Semaforo di Portofino attraversa a rompicollo - discende al mare. Il torrentello al presente è asciutto, ma quando si gonfia sono guai.
Si gonfiò terribilmente nove anni fa, il 25 settembre del 1915, per un nubifragio che imperversò da Recco a Rapallo e là volle undici vittime, quattro a Santa Margherita, tre a Camogli. A San Fruttuoso nessun morto, ma l'alluvione, giù per l'imbuto, premette al fondo, fece spaccare il passaggio della chiesa, e di questa, nel subito crollo, travolse la facciata insieme con qualche casupola che le sorgeva a fianco.
Povera vecchia chiesa, che disastro! E' lì tuttora con la sua gran ferita scoperta e fa pena a vederla, così decrepita com'è. Hanno ricostruito il ponticello, hanno rifatto la scaletta d'accesso, han chiuso la navata con un enorme assito di legno grezzo in cui s'apre la porta: tamponi per tappare il marcio, non certo per risanar l'inferma ch'è tutta una cancrena e non si sa bene come stia ancora in piedi. Ciò che ha perduto è poca cosa in confronto di ciò che può perdere in un avvenire imprecisabile che ogni scossa può maturare da un momento all'altro. Basta entrare per veder la minaccia che incombe sullo sciagurato edificio. Scomparso l'avancorpo, ci si trova subito nel centro della navata, sotto la cupola della torretta, ed è stupefacente osservare come questa, insieme al tetto della chiesa, si sorregga su quattro pilastri che nel salire dalla base divergono sempre più, per modo che un altro po' che si pieghino, addio cupola e tetto, e chi ci si trovasse sotto, così come siamo adesso noi col naso in aria, ci resterebbe in trappola.
Io non sono un architetto e neppure un capomastro e può essere magari che non ne capisca un'acca di questo prodigioso equilibrio e che i miei dubbi faccian ridere di gusto chi se ne intende, ma insomma, a guardar quei pilastri penduli come braccia tese, bensì, ma che s'allargano, s'allargano, s'allargano, e quelle crepe lassù, mi vien da pensare che non debba esser piacevole ascoltar la messa che il prete di San Nicolò celebra sull'altar maggiore, il quale è poi un modesto altare eretto nell'abside contigua.
No, piacevole non dev'essere, con quella tal tegola proprio a piombo sul capo; e neppure vien voglia di trattenersi troppo a occhieggiare intorno le nude nicchie e l'altarino laterale di questa che sembra un'umile chiesetta campagnuola e niente più, così bianca di calce e spoglia d'arredi; ed è meglio davvero uscirne alla lesta, fin che ci assiste dall'alto l'equilibrio che vorrei chiamare il miracolo di San Fruttuoso.

baia La baia di S. Fruttuoso

Bimbi e galline razzolano attorno al tempio agonizzante, come in attesa di razzolare sulle sue macerie, il dì della rovina definitiva che non può essere molto lontana. Addio, monumento nazionale. Ci pensa il Governo? Ci pensano i signori Doria-Pamphily, eredi dell'antichissima Abbazia? Io per me non ne dubito nemmeno, e son pur certo che si vorrà pensare a molt'altre cose di quest'eremo illustre, il quale non si compendia tutto nella chiesa.
C'è una scaletta, di fianco, che conduce alla canonica vuota e al convento da cui furono sloggiati i monaci di Francia che vi si erano insediati nel 1878 e per diciotto mesi vi tennero una lor colonia non precisamente modello. Ma se quel vuoto è triste, non rallegra davvero l'eccessivo «pieno» ch'è venuto a colmare il piccolo chiostro e i locali che gli fanno corona. La loggia è ingombra di reti e di remi, di barili d'acciughe e d'altre olezzanti meraviglie adunate fra gli archi e le colonne - ce n'è una scannellata a spirale, graziosissima - dalla famiglia di pescatori che ha in custodia il venerando cenobio e ne ha fatto la sua casa e il suo magazzino.
Brava gente alla buona, che non sa nulla di nulla, innocente come l'acqua sorgiva che zampilla fuori, e che non pensa di far male alcuno a profittar del posto e dell'abbandono in cui è lasciato. Una donnona grassa, placida e ignara, piglia le chiavi e ci accompagna a un cancelletto rugginoso che s'apre da un lato del chiostrino, ma appena ha aperto ella preferisce tornare ai suoi polli ed è con la guida d'una bimbetta scalza, e soprattutto della sua candela, che noi penetriamo, curiosi e un po' commossi, nel sepolcreto dei Doria.

Dormono qui taluni della storica casata genovese, quella che il Fannucci chiamò «la famiglia dei prodi sul mare»: prodi, per lo più, contro i fratelli dell'allora disunita e seco stessa tenzonante Italia.
Il tempo fosco dei guelfi e dei ghibellini, il travagliato tempo di Dante. Ghibellini i Doria con gli Spinola, guelfi i Grimaldi con i Fieschi: due di qua, due di là, sprizzava fiamme e sangue l'inimicizia delle quattro casate più cospicue e più forti; ma l'odio nel dividerle non vinceva di tanto l'amore nell'appaiarle che talora non si combattessero particolarmente fra loro, se visse in quel periodo feroce un Barnaba Doria che Opizzo Spinola, pur ghibellino com'era, imprigionò per restar solo a signoreggiar su Genova; talché Barnaba, riuscito a fuggire, mosse con tutti i Doria contro gli Spinola e li vinse V'erano bensì, fra i tanti Doria guerrieri del terribile dugento, i Doria pacifici sognatori, come il rinomato trovador Simone, il filosofo e poeta Percivalle, e quel Tedesio di cui, salpato ch'egli fu verso le Indie, Giovanni Orth del XIII secolo, non si seppe nulla mai più. D'altra tempra sono Doria raccolti a San Fruttuoso, tutti morti nel volgere d'un trentennio che va dal 1275 al 1305: son quelli che fecero gloriosa la Repubblica con il consiglio e con l'armi. Poi sopraggiunsero i più turbolenti e il dissidio e il prepotere delle quattro grandi famiglie concittadine giunsero a tale che nel 1339 tutte insieme vennero mandate fuor dei confini. Durò l'esilio un par di secoli e chi seppe restaurare la potenza dei Doria fu il sommo ammiraglio Andrea. Un altro restauro egli condusse a termine: quello della Badia di San Fruttuoso, rafforzata allora e difesa dalla torre, e certo fu lui, signore del luogo, a farne una Superga trasportando e adunando nel pittoresco e sicuro sepolcreto i resti de' suoi più illustri predecessori, fors'anco per potersene poi stare a miglior agio nella urbana cappella gentilizia di S. Matteo.

tombe Le tombe dei Doria nei sotterranei della Badia

Nella cripta, larga, bassa e profonda, le urne sono otto, ma vi si contano soltanto sei tombe veramente complete, le quali compongono un sepolcreto che nel suo genere è l'unico rimastoci dell'età medioevale. La scena, nella scarsa luce penetrante dalle due arcate del chiostro e al fioco lume della tremula candela, è teatralmente suggestiva. Le tombe, di stile lombardo, sono caratterizzate da larghe fasce bianco-nere, tinte particolari di Genova ove furono privilegio dell'antico Comune e delle sue quattro storiche famiglie patrizie e son tuttora visibili nella Superba sul tempio di San Matteo e su altri edifici, ma anche oggidì si usano volentieri nella città e in Riviera. Hanno, del resto, un forte tono funerario - a Milano le vediamo profuse tipicamente nel Cimitero Monumentale - e sono adunque al loro posto in questa camera di morte.
Tutt'intorno, per tre pareti della cripta, corre un alto zoccolo massiccio che racchiude, io penso, la successione degli avelli, ed è pur la base da cui s'eleva la parte decorativa delle tombe, ognuna distinta da un arco a sesto acuto - coperto da un tetto a due spioventi che giunge a toccar la volta del sepolcreto - sorretto da sei coppie di marmoree colonnine bianche. Quattro tombe, consecutive per modo d'aver comuni le colonnine intermedie, stanno schierate contro la parete destra, un'altra sorge isolata contro la parete di fondo; la sesta, anch'essa isolata col suo arco solitario, è in capo alla parete sinistra, verso la luce.
E' questa che ha la data più bassa e perciò più vecchia. Fu forse la prima a trovar posto qua dentro e noi per prima la studiamo.
Ha la sua lapidina sul fianco, ed è del primo dicembre 1275 e custodisce le spoglie (se ci sono ancora) di Giacomo Maggiore Doria, il figlio di Pietro e fratello di Lamba (che vinse i veneti a Curzola portandone prigioniero a Genova l'ammiraglio Dandolo e il giovane Marco Polo), di Nicolò, espugnatore dei Dardanelli, e di Oberto, trionfatore alla Meloria. Tutto questo la breve lapide non lo dice, ma a noi lo suggerisce la storia e lo ricorda Pietro Perelli con una sua fresca e diligente monografia. Sappiamo perciò che Giacomo Doria, tre anni innanzi la sua morte, era andato a Tunisi a comporre la pace ed era stato anche ambasciatore alla Corte di Andronico Paleologo II, imperatore greco; ma l'opera sua più insigne, letterato ed erudito com'era, fu quella che gli valse il titolo di ultimo, in ordine di tempo, degli annalisti genovesi, poiché, con altri tre saggi suoi pari, proseguì gli annali iniziati da Caffaro nel 1100.
Molto più diffusa e importante è la lapide della tomba di fronte, ch'è poi la prima a man dritta, e dal 17 gennaio 1276 contiene i resti di Nicolò Doria «che Genova rimpiange quale patrono prudentissimo, nobile di costumi quanto i suoi antenati», ecc. ecc. Questo Nicolò, figlio del trovador Simone e fratello di Giacomo, di Lamba e di Oberto, fu tra i più valenti capitani del suo secolo. Nel 1265, insieme a Guido Spinola, resse con somma perizia il supremo Governo della Repubblica, poi fu più volte console, fu ambasciatore a Barcellona; nel 1274 pose in fuga dalla Liguria le truppe di Carlo d'Angiò, e finalmente suggellò la sua carriera mortale espugnando i Dardanelli, impresa che, anche in quel tempo, non doveva esser da poco.

archi S. Fruttuoso - Gli archi sul mare

Nella tomba accanto riposa dal 1290 suo figlio Babilano che l'epigrafe apostrofa con una specie di bizzarro sarcasmo: «O Babilano, ora stai chiuso in piccola urna, tu che un giorno risplendesti per acume e loquela, per valor militare e civile!». Fu infatti vicario del Comune di Genova; nel 1270 pacificò Ventimiglia; nel 1286 fu ambasciatore presso Carlo re di Napoli e presso il Papa, ed ebbe molt'altre onorevoli missioni.
Sulla terza tomba non vedo scritto niente. In compenso la quarta (ch'e pure del 1290 ed è l'ultima di questa fila) ne ha per tre: un padre e due suoi figliuoli. Il padre è Ansaldo Doria che combatté contro i veneziani, contro i mori di Spagna e contro quelli di Cartagine ove, nella crociata di Luigi IX, debellò il castello; fu quattro volte console e fu ambasciatore alla Corte del re Guglielmo di Sicilia. Suo figlio Lucchetto nel 1289 fu vicario generale della Repubblica genovese in Corsica e domò l'isola combattendo per terra e per mare. Maggior fama lasciò l'altro figlio, Oberto, glorioso ammiraglio della Repubblica contro i veneziani e i pisani ed altresì contro i guelfi che cacciò da Genova e da Spezia, dopo aver stabilito in patria la concordia e l'ordine quale capitano del Comune e del popolo. Tutto questo accadde tra il 1270 e il '73, ma egli, ch'era già stato vincitor sul mare a La Canea, scrisse poi, nel 1284, la sua pagina più fiera e raccolse il più alto plauso sbaragliando nelle acque della Meloria i pisani, sedicimila dei quali trasse prigionieri, così che ne venne il motto: chi vuol veder Pisa vada a Genova!
Al fondo, in un sepolcro che rosoni e sculture fanno più degli altri fastoso e che ha la data del 22 settembre 1305, dorme, con la moglie e gli eredi, Egidio Doria, egli pure combattente della Meloria e a sua volta ammiraglio delle galee genovesi, con le quali a Barcellona vinse i catalani catturandone il capo, mentre per via di terra seppe liberar d'assalto i ghibellini di Savona dall'assedio dei guelfi.
Un'altra tomba, la sesta ed ultima, sta accanto alla prima (quella di Giacomo) ed è sprovvista d'arco per cui la lapide è murata sul fronte dell'avello. E' la tomba senza data d'un altro figlio di Nicolò che vi è chiuso con la moglie e gli eredi: Guglielmo Doria, pur combattente della Meloria e poi ammi-raglio e guerriero valoroso che ancora nel 1292 vinceva pisani e aragonesi nelle acque di Sardegna.
In un angolo, fra tante lapidi di baldi principi, s'è insinuata quella d'una popolana eroica: Maria Avegno, sposa e madre, la quale, il 24 aprile 1855, generosamente accorsa con una barca verso un bastimento in fiamme che cercava salvezza nella baia - il Croesus, navigante con truppe piemontesi per la Crimea -, affondò con l'affondar del bastimento, la cui carcassa, nei giorni sereni e calmi, è tuttora visibile nel mare. La lapide, murata sulla casetta dell'eroina, ne fu insieme travolta dall'alluvione del 1915, e allora la misero nella cripta. Anche qui, per quel flagello, si rovesciarono le acque e il sepolcreto ne fu colmo sin presso la volta così che il segno v'è rimasto, e le tombe, percosse e scoperchiate, n'ebbero grave danno. Al restauro attesero scalpellini fatti venir da Genova e le tombe tornarono a posto; e poiché da gran tempo il sacro recinto dava rifugio a galline e gatti e topi e altre bestie d'ogni sorta, si guarnì di lamiera il cancelletto e si munirono gli archi claustrali d'inferriata e di grata; ma questa, sia furia d'animali, sia vandalismo d'uomini, è ormai rotta in parte e divelta, ed io penso al destino dei dieci Doria che qui si vollero circondati d'un rispetto e d'una pace che non poterono trovare.

reti S. Fruttuoso - Reti al sole


Ci penso con tristezza e non senza sdegno, mentre la bimbetta scalza spegne la sua candela e noi risaliamo passando alla Osteria Unica ch'è un'altra curiosità del sito. E' rustica come di più non si potrebbe desiderare: vecchissima, sgangherata, buffa, con le sue grondaie attraverso la facciata e un'aria di me ne impipo che consola. Ma ha una terrazzina con l'ombra verde e fiorita d'una pergola, le fanno sfondo alcune palme dritte con il loro pennacchio sul pendio, e dentro ci son cinque o sei camere da letto abbaglianti del candor di calce, come celle conventuali, e c'è una gran cucina luccicante di rami in cui certo vecchiette linde e certe giovani fiorenti apprestano le «lasagne col pesto», specialità del luogo.
Tutto questo attira le comitive in escursione e magari le trattiene felici nella fresca semplicità del romitaggio. Aria buona, panorama superbo, vitto e alloggio, signori si fa pensione!
E i pellegrini accorrono d'ogni parte: dall'estero soprattutto. Ce n'è appunto un gruppo che ci sta da qualche settimana: sei norvegesi biondi e rosei, non sazi dei loro fiordi né di queste lasagne. Son già a tavola, sulla terrazza ombrosa, e mangiano allegri a piene ganasce. No, essi certo non pensano alla Badia millenaria che va in rovina, né al sepolcreto patrizio che rischia di tenerle dietro; quel sepolcreto che, a parte i nomi universalmente sonori dei morti, se ne avessero uno simile a casa loro chi sa che saghe squisite e che devoto e geloso amore, cari poeti di Scandinavia!

La traversata del ritorno non è una cosa da ridere. Il mare ha mutato cera e modi. Un muso, una grinta, una furia! Il timonier Beretta abbozza una smorfia; il rematore Gelindo, serio, accigliato, con delle stille di sudor freddo in fronte, stende i muscoli a tutta forza e ce ne vuole per toccar la meta. Le onde grosse fanno barriera intorno alla montagna.
Quei bravi Doria l'han scelta bene la loro nicchia per dormir tranquilli, al riparo dai corsari e dai curiosi. Vogliono star soli e quieti, prodi guerrieri stanchi, e ciò mi par tanto giusto, ora che sono andato a importunarli anch'io…

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