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    Pezzi di storia

Genova – Italia – Europa
di Giulio Caprin

"La lettura" Rivista mensile del Corriere della Sera - 1922

L'articolo prende lo spunto dalla Conferenza tenuta a Genova dal 10 aprile al 19 maggio 1922 da 34 paesi per discutere dei problemi economici dopo la prima guerra mondiale, rimasti irrisolti dopo il Trattato di Versailles del 1919. Le numerose delegazioni sono distribuite in varie località: a Rapallo sono alloggiate al New Casino Hotel quella cecoslovacca, quella finlandese e la lituana, all'Hotel Verdi l'estone e la lettone, all'Hotel Bristol quella greca e la rumena, all'Hotel Guglielmina quella jugoslava, all'Hotel Imperial quella russa.

oro E la speranza più attiva era di trovarci qualche miliardo…

A Genova gli Stati europei non sono venuti per veder l'Italia. Qualcuno - ammettiamolo - c'è venuto piuttosto per rivedere - come proponeva l'invito - l'Europa. Qualche altro - e non lo ha mandato a dire - avrebbe fatto volentieri a meno di venirci. Diversi ci sono venuti di mezza voglia, combattuti fra il sospetto e la speranza. E la speranza più attiva in quelli che ci venivano più volentieri era di trovarci, fosse pure a prestito, qualche miliardo-oro. Ma in questo l'Italia c'entrava fino a un certo punto.
Anche dopo che gli invitanti si furono intesi, come Lloyd George1 aveva proposto, su Genova (Italia), quante eccezioni e mezze obiezioni di invitati! Perché non Londra, Praga o magari Ginevra? E volendo proprio far questo piacere all'Italia, perché non piuttosto Roma o, chi sa, forse Firenze? Un delegato – volontario - del comune di Susak2, che aveva creduta indispensabile una sua gita nella Riviera ligure, dopo aver constatato che le conferenze internazionali hanno anzi tutto bisogno di alloggio, mi chiedeva come mai non si fosse pensato ad Abbazia3. E' umano che ogni europeo desideri trovar tutta l'Europa all'uscio di casa. Al più si può fare una eccezione per Parigi dove almeno - pensavano i delegati volontari e perciò piuttosto disoccupati – si sa come passare il tempo.
Dunque a Genova e dintorni, ma con entusiasmo non unanime. La Riviera tra Pegli e Rapallo sì; è un bel soggiorno (mare, monti, pini, olivi, giardini e qualche roulette) ma scomoda per chi ha da passare la giornata a Genova. Le delegazioni un po' fuori mano – a cominciare da quella russa – domandarono subito di avere almeno un pied-à-terre in città. Prima di venire sul posto a cambiar idea, i medesimi russi pensavano con spavento a dover fare in automobile la strada, tutta svolte e saliscendi, fra Santa Margherita e Genova. «Una strada che sembra fatta apposta - scrisse una gazzetta moscovita - per gli agguati». Poi invece scoprirono che anche il domestico romanticismo della strada che valica il promontorio di Portofino si addice alle gite notturne verso qualche convegno misterioso (una notte, ed era notte di burrasca, dei russi si incontrarono in vetta al promontorio con dei delegati d'altro Stato salitivi segretamente dalla parte opposta). E poi, di giorno e in palese, alla strada preferirono sempre le confortevoli vetture-belvedere dello «speciale» sulla linea ferroviaria egregiamente vigilata.
Un giornalista francese avrebbe preferito una città meno serrata fra monte e mare: trovava che la «cité proprement dite est trop exigûe». Un altro, sedicente olandese, si mise a sbraitare il giorno in cui, essendo sbarcato il Re, per qualche ora furono tirati i cordoni militari, che impedivano a lui, l'olandese, di circolare a piacer suo. E ci furono giorni di pioggia e di vento umido: sicché un mio amico polacco, reumatizzato e precocemente vestitosi da primavera, venne a dirmi, un po' per celia e un po' sul serio, che se anche l'Italia ha un clima da Europa centrale, la ragione più convincente per cui si può riunire a Genova una conferenza internazionale viene a mancare.
Ma poi tornò il sereno: così limpido che, al di là del cielo, pareva di vedere qualche cosa di ancora più luminoso; dal mare pacato veniva a spiaggia ogni mattina più primavera: la città apparve in tutto l'orgoglio della sua bellezza, e le ville e i verzieri delle due riviere congiunti alla città da una continua ghirlanda di grazia. E con il sole e con i giorni, anche l'Italia si svelava sempre più agli stranieri che non erano venuti per vedere l'Italia né per badare al popolo italiano; stretti dalle loro ansie lontane, chiusi spesso negli egoismi della paura, della cupidigia, forse della vendetta. Il sole d'Italia sì, ma anche questo vecchio popolo italiano che ha avuto per sua parte molto sole e molto mare ma poca terra per farne, faticosamente, la sua patria di sempre e di oggi. Sbaglio, o anche in quel poco che hanno potuto vedere, nel solco delle vie obbligate per correre in automobile tra i loro alberghi e Palazzo Reale, ai delegati di tanta Europa l'Italia si è veramente mostrata, così com'è, francamente, migliore di molta opinione che s'accompagna al suo nome illustre e sospetto nel mondo.

olandese … un olandese si mise a sbraitare
perché non poteva circolare liberamente…

Il fascino antico e nuovo prendeva anche coloro che serbavano sempre un certo rancore all'occasione politica per cui era dovuto venire in Italia. Luigi Barthou4, così simpatico nella sua franchise, i primi giorni ripeteva continuamente: - A Gênes j'ai été dix fois pour mon plaisir: cette fois-ci ce n'est pas pour mon plaisir -; gli ultimi giorni non lo diceva più. Soltanto perché poteva andarsene grato ai bolscevichi che non avevano lasciato concludere un accordo generale con la Russia? Se lo dicessimo, Barthou sarebbe il primo a protestare, impetuosamente com'è la sua maniera.

Sta male guardarsi allo specchio. Sarebbe meglio che certe osservazioni le facesse uno straniero e le dicesse in qualche altra lingua (del resto più d'uno ha cominciato a dirle). Ma questa volta c'era una scusa che era anche una ragione. Che anche qualcuno di noi, italiano non ignaro dell'Europa, a Genova era venuto con delle curiosità prevalentemente internazionali e spiriti alquanto cosmopoliti. Per essere in Riviera italiana il grande albergo non cessa di essere il palace di tutte le nazioni, e per concentrarsi a Genova, la politica di tutta l'Europa non impone stile italiano alla sua natura composita. Questa volta, caso mai, l'ambizione italiana sarebbe stata di tentare se la composizione non potesse precisarsi in una sintesi, ambizione disinteressata e supernazionale.
A Genova dunque ci potevamo andare anche noi, italiani, come saremmo andati a Nizza o a Londra, con più curiosità di altrui che di noi stessi: a veder per la prima volta i bolscevichi in Europa e i tedeschi in libertà, ad esaminare sul vero i recenti prodotti dell'auto-decisione rettificata dal trattato di Versailles, a riudire vecchi sermoni di neutrali dignitosi e insoddisfatti, ad assistere al duello - con esclusione di tutti i colpi pericolosi - fra Lloyd George e l'ombra di Poincaré5, e magari, nella patria di Colombo, a scrutare l'orizzonte marino se qualche cosa non accennasse a moversi dalle parti - invisibili - dell'America. I realisti - ai quali è facile aver ragione giorno per giorno - venivano a indagare le probabili posizioni politiche di partenza della guerra futura; gli idealisti - ai quali è anche più facile aver torto tutti i minuti - forse a ricercare a Genova una fantasia perduta a Ginevra, qualche cosa come gli Stati Uniti di Europa. Anzi del mondo. Volendo farli, non ci mancava nemmeno la bandiera. Un americano, cittadino di Chicago e altruista, ne ha proposto a Genova, come aveva già proposto a Washington, un suo original model: su fondo turchino, di sghembo, una croce bianca e rossa, e in alto, a destra, una luna e una stella bianche. Un pensiero di meno per quando verrà il momento di pensarci.
Ma a Genova il saluto all'Europa lo dava il tricolore. Le bandiere salutate sparivano nei colori salutanti. La conferenza fu abbastanza lunga perché la novità delle persone e delle cose, incorporandosi nell'ambiente, si attenuasse. Una volta assuefatti i nostri occhi mortali, e magari provinciali, a vedere il sorriso ameno di Lloyd George, la barbetta stizzosa di Barthou, l'occhiolino tondo di Cicerin6, il cranio corazzato di Rathenau7, la testa bacchica di Stanboliiski8; una volta riuditi in parole pronunciate oltre che scritte i noti argomenti di tutte le scontentezze e di tutte le propagande europee, poté avvenire che anche un italiano fosse sorpreso da questo pensiero: che la cosa più sensibilmente viva, e perciò più interessante, sulle due riviere colme di politica internazionale, fosse l'Italia.

americano Un americano altruista ne ha proposto, a Genova, un suo «original model»…

Appunto perché in quel momento eravamo anche noi un po' stranieri: anzi più stranieri degli stranieri autentici, che erano l'uno soltanto inglese, l'altro soltanto spagnuolo, il terzo niente altro che polacco, mentre noi eravamo, per le nostre curiosità attente a tutto, nello stesso tempo inglesi, spagnoli, polacchi, ma anche francesi, tedeschi, russi e tutto il resto. In codesta singolare posizione di spiriti ecco che l'Italia ci appariva improvvisamente, come una cosa fuori di noi. E così ci pareva di vederla meglio, intenderla con la lieta sorpresa di una intuizione fresca, come una bella cosa nuova da scoprire. Solo un'altra volta ho provato questo stupore delizioso di poter scoprire l'Italia: nei primi giorni della guerra all'Austria, quando l'uno guardando il volto dell'altro vi leggeva ciò che non aveva mai letto: una nuova immagine della Patria. Così anche a Genova nei primi giorni – forse è lecito dirlo - della pace.
E questa immagine fresca dell'Italia che veniva a dominare le nostre attenzioni straniere era una immagine armoniosa.

Una volta uno straniero mi confessava: - Sapete perché veniamo così volentieri in Italia? - Per una ragione fisica probabilmente; perché il miglior sistema di riscaldamento è ancora il sole. - No, per un sole spirituale. Perché ognuno di noi, anche quelli che a casa loro non se lo sarebbero neppure sognato, in Italia si sentono poeti. Ciascuno naturalmente secondo le sue capacità: ma sempre assai più delle sue capacità normali. E lo stato di poesia è stato di grazia.
Ora mi domandavo se, a Genova, in qualcuna delle teste politiche convenute, fosse entrato, grazie all'Italia, il demonietto lirico: se fra tanti diplomatici ci fosse anche un poeta.
Oramai né i diplomatici né i poeti hanno delle fisonomie da distinguerli sicuramente. A Washington, fra i delegati sbarcati di fresco, un giornalista francese aveva osservato una testa bionda e una fisonomia fine incorniciata da una barba delicata; gli parve che quel personaggio avrebbe potuto benissimo essere un poeta svedese o norvegese. Infatti era Carlo Schanzer9, delegato italiano e oggi ministro degli Esteri italiano. Non credo che a Genova abbia avuto tempo di diventar poeta: la sua eloquenza chiara e discreta non è – fortunatamente – retorica ma non mi sembra che tenda al lirismo.
Forse intese di offrire all'Italia un fioretto lirico, il cancelliere Wirth10 - ex professore di matematica - nel suo discorso alla seduta inaugurale, là dove svolse questo concetto: - Come la Riviera solatia è propizia ai malati che vi ricercano la salute, così è sperabile che sulla medesima riviera ritrovi le sue forze Frau Europa che è malata di postumi della guerra. - No, la comparazione era troppo utilitaria per essere anche poetica.
Ma ci sono tanti modi di far della poesia per chi non ne possiede anche il dono espressivo! Forse intendevano di levare un inno classico all'Italia quelle dattilografe bolsceviche che, tra gli scogli di Punta Pagana, si bagnavano in costume di ninfe e poi, nello stesso costume, rimanevano lungamente a rosolarsi al sole (tanto che i carabinieri dovettero avvertirle che in Italia, da alcuni millenni, i costumi delle ninfe non sono più in uso).
Di sentirsi, grazie all'Italia, in istato dionisiaco mi confessò un giovane deputato serbo, un giorno che veramente c'era in cielo ed in terra troppa bellezza. Avrebbe voluto danzare le danze più pirriche del suo paese guerriero. E mi disse che oramai aveva conosciuto il popolo d'Italia, che gli pareva il più umano di tutti i popoli di Europa e gli dispiaceva soltanto che, essendo questo popolo anche numeroso e prolifico ed esuberante, il suo popolo slavo dovesse temerlo e forse un giorno contrastargli la via con le armi.

Lloyd George … il sorriso di Lloyd George…

Cercai di spiegargli che l'Italia, conosciuta più a lungo, vuol suggerire, più che frenetici sentimenti dionisiaci, dei sereni e pacifici sentimenti apollinei.
Forse uno soltanto degli statisti stranieri ha trovato a Genova, per l'Italia, espressioni da poeta. Ancora Lloyd George, l'uomo di Stato contemporaneo più aperto a tutti i venti dello spirito. Fu nel discorso d'addio alla colazione offerta ai giornalisti italiani al Miramar. Per i grandi balconi aperti entrava la serenità del cielo marino. La colazione era stata temperante e nessuno era gravato da quella torpidezza che istupidisce la fine di molti banchetti politici. Lloyd George, che aveva mangiato poco e presi molti appunti, si era levato a parlare: che gioia sentire un discordo politico a centinaia di persone e tuttavia udire un uomo che semplicemente parla e la parola sembra misurare solo dalla schiettezza di un sentimento! Lloyd George evocava, come parlando a sé stesso: un villaggio lontano nella sua terra di Galles, e la cosa più cospicua che vi avevano veduto i suoi occhi fanciulli. Era un muro romano. I Romani erano stati anche nel suo villaggio. Anche i Normanni c'erano stati. Ma chi ripensa più ai Normanni che sono passati? Invece «noi qualche volta ci dimentichiamo e voi vi dimenticate che la Gran Brettagna e la Francia sono state Provincie… di Roma? no, d'Italia?» Accorgimento retorico di gran maestro? Ma per la prima volta uno statista straniero diceva ciò che hanno affermato i poeti d'Italia, la continuità di tutte le vite nella sua storia perenne.

Cicerin … l'occhiolino tondo di Cicerin…

Aggiunse: «Ci sono stati alcuni miei compatrioti che vennero in questo paese a passarci qualche settimana. Poi s'accorsero di non poter più andar via. Li capisco. Non è solo per il sole che vi ho trovato: ma perché vi ho trovato cuori pieni di sole…»

Lo so, non è l'ammirazione lirica di cui ha più bisogno l'Italia. Forse è equivoca anche quando si estende, come questa volta - cosa nuova – dalla terra ai suoi abitatori.

Barthou … la barbetta stizzosa di Barthou…

Ma non è stato equivoco il riconoscimento della capacità tecnica italiana a ordinare molte cose assolutamente tecniche come il popolo più tecnico del mondo. Sia lode anche allo Stato che, una volta tanto, ha organizzato quello che doveva organizzare. Ma quello di cui più si è compiaciuto lo straniero- evidentemente italofilo – che era in noi, è stato di sorprendere in codeste forme di attività una capacità ed uno stile tutto nazionale. Gli americani hanno lodato il servizio telefonico e telegrafico facendo la somma delle parole che hanno potuto telegrafarsi e delle conversazioni che hanno potuto esser telegrafate in una notte. Lo stesso lavoro avrebbe potuto esser fatto a Berlino o a Chicago, ma gli uomini che lo avrebbero fatto ne avrebbero anche fatto sentire di più la dura meccanicità. A Genova, affidato a buoni telegrafisti – e telefoniste – italiani la pena che è in tutte le cose meccaniche pareva meno dura, più facile. L'italiano, che era nello straniero d'occasione, dimenticava volentieri quegli altri funzionari del suo paese che altra volta gli avevano resa amara la vita…
Forse tutto andava così bene perché era un'occasione straordinaria e l'italiano ama lo straordinario. Ma la prova di capacità era superata magnificamente. Lo Stato italiano - che qualche volta ha fatto dubitare della nazione italiana - possiede anche organi pratici da fare tutto ciò che la utilità pubblica esige. E lo straniero autentico poteva lodare tutta l'Italia per la puntualità dei suoi ferrovieri, per la sicurezza dei suoi automobilisti, per la serenità dei suoi carabinieri, e delle sue guardie regie, come, nelle sale fastose di Palazzo reale, riconosceva la pratica internazionale dei suoi «esperti», e lo stile dei suoi negoziatori politici. Nello Stato italiano si manifestavano le qualità della nazione. E l'uno e l'altra guadagnavano nel giudizio che deve affermarsi. Il prestigio di un grande popolo, non il numero di una grande popolazione.
Ma nemmeno il numero grosso è senza effetto. Fu durante la conferenza di Genova che gli stranieri lessero sui giornali che gli Italiani, contatisi dopo la guerra, sono 40 milioni. Qualcuno, prima, aveva pensato a questa cifra come ad una cifra, un po' ipotetica, di propaganda. Ma nella Liguria, formicolante di uomini, il dubbio non sembrava probabile. La folla era primaverile di un'abbondante giovinezza, sana, ben fatta. Un esperto straniero, osservando le donne liguri, notava come la loro salda bellezza promettesse gagliarde generazioni per la fortuna d' Italia.

bagno … si bagnavano in costume di ninfee…

Veramente l'Italia a Genova appariva in uno dei suoi felici momenti di armonia. Tacevano le risse civili. La sicurezza dei delegati era garantita senza controlli pesanti: se c'erano tra i loro popoli, rancori minacciosi, nessun rancore per nessuno esprimeva il popolo d'Italia, che non ha mai cessato di chiamare la «conferenza internazionale economica» la conferenza per la Pace.
Questo vecchio popolo così giovane che, come ha detto Garvin11, «ama il lavoro e il canto»; e che, anche nel suo partito meno pacifico e più sospetto come xenofobo agli stranieri, canta un inno che loda la giovinezza…

discorso … Lloyd George parlava come a sé stesso…

Contraddizioni difficili a spiegarsi agli stranieri per i quali l'Italia, la sua potenza o la sia impotenza, la sua virtù i suoi difetti rimangono sempre un po' misteriosi. Tanto più misteriosa quanto più il popolo sembra espressivo. Ma a Genova qualcuno - e anche di quelli che contano - ha capito, ha intuito la unità d'Italia in tutti i suoi luoghi e in tutti i suoi tempi, diversa in ogni sua creatura ed unica nel suo genio nazionale, ricca di virtù poco apparenti e di vizi evidentissimi, drammatica anche quando pare idillica, complessità e armonia.
Precisamente cento anni fa, nel settembre del 1822, un congresso internazionale si radunava in una città italiana, a Verona. C'era Alessandro di Russia, Francesco d'Austria, Metternich, Talleyrand, Chateaubriand. L'Italia non c'era. A Genova, uditi dalle voci dei loro più legittimi rappresentanti, i guai, le angustie, i sospetti di tutti gli altri Stati di Europa, un italiano poteva, non ostante tutto, pensare che in fin de' conti, nel 1922, essere italiano è una delle disgrazie minori che possano toccare ad un europeo.


1 David Lloyd George (1863-1945), Primo ministro del Regno Unito
2 Nei pressi di Fiume, in Croazia
3 15 km a ovest di Susak
4 Jean Louis Barthou (1862-1934), Ministro della Guerra francese
5 Raymond Poincaré (1860-1934), Primo ministro francese
6 Georgij Vasil'evič Čičerin; (1872-1936), Commissario per gli Affari Esteri russo
7 Walther Rathenau (1867-1922), Ministro degli esteri tedesco
8 Aleksandăr Stoimenov Stambolijski (1879-1923), Primo ministro bulgaro
9 Carlo Schanzer (1865-1953), Ministro degli esteri italiano
10 Joseph Wirth (1879-1956), Capo del governo tedesco
11 James Louis Garvin (1868-1947), giornalista inglese

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