Testata Gazzetta
    Pezzi di storia

Un giornalista della rivoluzione genovese (1797)
di Achille Neri

L'Illustrazione italiana – 20 + 27 febbraio 1887

Non fu appena compiuta in Genova la rivoluzione del 1797, ed instaurato il governo provvisorio, che la novissima libertà di stampa fece sorgere parecchi giornali politici, fra i quali merita uno speciale ricordo, Il Difensore della libertà. Lo pubblicavano due uomini assai noti a quei dì, e neppur oggi dimenticati; poiché l'uno, Gaetano Marrè, legò il suo nome ad opere giuridiche e letterarie non prive di valore; l'altro, Gaspare Sauli, men conosciuto, ma pur egli nutrito di buoni studi, per largo animo e generoso, per rettitudine grandissima nel sostenere pubblici uffici, per i principi professati e validamente sostenuti, è degno d'esser posto in più chiara luce. Di lui più specialmente intendo adunque discorrere; poiché avendo avuto gran parte alle novità rivoluzionarie della sua patria, mostrò aperto come il suo spirito fin dalle prime mosse si levasse a più alti ideali, e fermamente credesse a quel concetto dell'unità nazionale, onde si dovevano informare i futuri destini d'Italia.

immagine Genova, Piazza Acquaverde: si brucia il libro d'oro della nobiltà (1797)

Nato nel 1765 e fatto educare nel collegio di Ferrara, di dieci anni venne ascritto, secondo il costume, all'ordine de' nobili; ma quantunque uscito dal patriziato ben s'avvide assai presto da qual tarlo era roso il vecchio edificio della repubblica genovese che volgeva a ruina: né sperava potesse derivare allo Stato alcun beneficio da uomini ligi a vieti principi, incapaci d'acconciarsi, mercé abili trasformazioni, ai tempi nuovi ed alle idee riformatrici che incalzavano da ogni parte. Nella quale sentenza era venuto, avendo studiato assai da vicino l'ordinamento governativo e gli uomini che vi erano preposti, mercé l'ufficio importantissimo di Supremo sindacatore da lui per alcun tempo esercitato,
Ma non era solo a pensarla in sì fatta guisa, ché altri parecchi gli erano compagni, specie i fratelli Serra, i quali col nostro Gaspare formavano come il nucleo principale a cui facevano capo tutti gli amatori di novità: e non erano in vero né pochi, né di piccolo valore.
La condizione del Sauli, gli studi fatti, lo spirito libero lo avevano posto in grado di contrarre molte amicizie anche fuori della sua patria; né veniva in Genova persona valente che non cercasse di conoscerlo. Onde non è meraviglia se lo vediamo poco più che ventenne dar mano insieme col Mollo, col Viani1 e col Sanseverino al Socrate, assai nota parodia dello stile tragico alfieriano, composta appunto in Genova nel 1788. L'indole sua sensibile e volta alla riflessione, l'abito dell'osservare uomini e cose, non ammettendo il principio assoluto d'autorità, la ricerca continua e sollecita del vero coi mezzi più severi del raziocinio, gli avevano procacciato fama di filosofo, e insieme d'uomo di spirito.
Gli avvenimenti del 1789 trovarono in lui, e nei fratelli Serra partigiani convinti e sinceri, e già venivano distinti col nome di giacobini; anzi Giambattista Serra ridottosi a Parigi, pubblicava nel 1792 sulla Gazette Nationale una vivacissima lettera, nella quale professando apertamente la sua fede repubblicana, si gloria dell'appellativo ond'era in patria conosciuto: Serra le Jacobin2. Anche il nostro Gaspare, forse sollecitato dall'amico, volle vedere la nuova repubblica, indottovi più specialmente da due motivi: il desiderio cioè d'istruirsi, essendo "persuaso che niente vi è di più utile del viaggiare", e "la curiosità di vedere un paese che da gran tempo eccitava" in lui "un desiderio vivissimo di conoscerlo più da vicino, per rettificare le sue idee, e per giudicare più sanamente degli avvenimenti". Nel novembre 1793 si recò infatti a Nizza, dove fu accolto onorevolmente ed ospitato dai rappresentanti Ricord e Robespierre il giovane; poi si trattenne alcun tempo a Tolone, spettatore del celebre assalto che lo tolse agli Inglesi, e aprì la via della gloria a Buonaparte: quindi stette ben diciotto giorni a Parigi, e assai più nella Franca Contea, specie a Vesoul, dove ricevuto nella società popolare, recitò un entusiastico discorso, nel quale dichiarava:
"C'est depuis 1789 que mon cœur est Jacobin, c'est depuis cette memorabile époque que j'ai suivi la marche de cette revolution que toute l'Europe combat, et admire, qui fondée sur des bases aussi solides que l'esprit qui l'a amenée etait juste, braverà les efforts de ses ènnemis, les intrigues de ses enfans dénaturés, et les trames perfides de tous ces êtres impures qui s'acharnent à la détruire."
Intanto il governo genovese dopo molte esitanze, indottovi da ripetuti avvisi degli Inquisitori di Stato, incominciò un processo contro i patriotti, e fece imprigionare alcuni di quelli che ne erano designati come capi. Già era stato messo in Torre Gian Carlo Serra, e si preparava la stessa sorte al Sauli, del quale, per sicure relazioni, si conoscevano i procedimenti. Ridottosi in fatti a questo tempo in patria, non volle, quantunque avvisato, allontanarsi dalla città, e l'8 aprile 1794, fattagli una diligente perquisizione, sequestrando alcune corrispondenze, venne condotto nelle carceri. Di qui scriveva alla madre:
"Carissima signora Madre,
Dalla Torre alle 10 ½.
Impensatamente bensì, ma senza alterarmi ho ricevuto la notizia, seguita dall'esecuzione, d'andare in Torre ove mi trovo. Spero che con eguale tranquillità ne sentirà V. S. il non piacevole annuncio.
La prego a dare le disposizioni per rendermi questo soggiorno meno incomodo. Spero che durante il tempo che starò qui, quale mi lusingo non sarà lungo, giacché nulla mi rimprovera la mia coscienza, ella mi darà le sue nuove, cosa che alleggerirà un poco quei dispiaceri, che il vedermi colpito da un castigo così grave deve necessariamente in me produrre.
Sono colla maggior tenerezza
Suo aff.mo figlio
Gaspare Sauli.
"
E dando parte del fatto agli zii, soggiungeva:
"La mia filosofia e la coscienza della mia innocenza, mi rendono tranquillo anche in un soggiorno, ove la calma e la pace sogliono di rado abitare. Se questo castigo, ossia se questo arresto deve essere un garante della pubblica sicurezza lo riguarderò con piacere, giacché qualunque sacrifizio non costa ad un cuore che ami sinceramente la sua patria". Passava le lunghe ore del carcere "divagato dalla lettura" (aveva chiesto alla madre la Storia d'America del Robertson o in inglese o in francese), e la tranquillità del suo cuore gli rendeva "meno grave la lontananza" dalle persone care, "e meno gravoso l'essere rinchiuso in una delle peggiori prigioni della Torre". Agli interrogatori ripetuti, sottili e minuziosi, mostrò sempre dignità, fermezza, grande animo, retto criterio, fine giudizio, e qualche volta tagliente ironia. Il processo andò in lungo, ma non ebbe il risultato che ne avevano sperato gli Inquisitori, vuoi perché mancò la prova dell'accusa di cospirazione, vuoi perché si temevano le ire del Tilly ministro francese, sempre minaccioso e protestante amico e protettore degli inquisiti.
Sopravvenne alla fine la rivoluzione del 97; cadde quell'ultima parvenza di governo oligarchico, e coloro che il giorno innanzi erano tenuti in sospetto o perseguiti, costituirono il nuovo reggimento democratico. Il Sauli, sebbene non chiamato ai primi uffici, esercitò in mezzo alle moltitudini il suo apostolato, e si ricorda fra quelli che furono "instancabili dicitori" nell'arringare il popolo; più tardi ebbe il carico di Commissario nella Riviera di ponente, per organizzare le municipalità. Né mancò di giovarsi dell'estro poetico, onde già aveva dato prova cooperando al Socrate, e oltre aver composto, a quanto pare, un inno all'Italia libera, produsse sulle scene un melodramma patriottico per solennizzare la rigenerazione della libertà. L'azione è allegorica. In un vasto edificio vari gruppi di statue rappresentano da un lato gli orrori dell'impero di Nerone, dall'altro Lucrezia spirante per l'infamia di Tarquinio, mentre Bruto e Collatino, giurando lo sterminio del tiranno, innalzano uno stendardo dove si legge: Libertà a Roma: morte ai tiranni. Entra Minerva e piange a quella vista sopra le sciagure dell'oppressa umanità; ché
Al vizio fortunato
A cedere costretta
La derisa virtù visse soggetta.
L'uomo dell'uom si fe' tiranno. Eguali
Pur formolli natura,
E con egual misura
Sacri dritti lor dié.

Ma questa uguaglianza fu misconosciuta. Ora è tempo che
alfin respiri
Il mondo desolato: i rei tiranni
Periscano una volta,
E in un profondo obblio col nome indegno
Ogni memoria lor resti sepolta.

Perciò prega il Re dei Numi di vendicare con i suoi fulmini i mortali, facendo risorgere la Libertà. E' incontanente esaudita; il fulmine infrange le statue, ed ecco sorge la Libertà sopra il carro trionfale, al quale sono incatenate "le inique passioni dei regnanti, cioè il ferro, il veleno, la perfidia, e la vendetta." Minerva si rallegra, perché
La cara Libertà dal ciel discese;
ed esclama:
Libertà, Libertà, quando fra' labbri
Dolce suona quel nome
Come è soave, e come
In rimirar il suo divino aspetto
Di piacer balza il core in ogni petto!

Raccomanda quindi agli uomini di conservare il dono prezioso degli Dei. Marte viene allora ad assicurarla che avrà difesa dal suo braccio, e invita Tersicore a incoronarla. Comparisce la Dea con le Ninfe ed i Pastori, che intrecciano danze, mentre Minerva e Marte si allietano della loro unione, dovendo la libertà attingere forza e virtù dagli studi e dalle armi. Tersicore e Minerva salgono poi sul carro, e al suono di una sinfonia patriottica, si avviano guidati da Marte là dove s'innalza l'Albero della Libertà. E' questo un amenissimo luogo campestre; quivi Ninfe e Pastori mostrano la loro gioia con balli figurati formando "quadri interessanti e caratteristici," che si ripetono e s'avvicendano al giungere di Tersicore, la quale "coll'espressione dei suoi gesti, e coll'arte degli intrecciati suoi passi si aggira festeggiando l'Albero diletto." Finite le danze, sopra una gran nuvola comparisce Giove, che si compiace della allegrezza del suo popolo libero, al quale si volge con questi versi:
Popoli fortunati, i lunghi mali,
Che i tiranni vi fero, alfin pietoso
Giove per sempre allontanò da voi,
E Libertà vi dié; l'età dell'oro
Ritornerà per lei,
E' la terra felice un nuovo aspetto
Per lei riprenderà. D'un sì bel dono
Convien degni mostrarsi. Il rio delitto,
L'odio, il furore, la vendetta insana
Sian banditi da voi; ai dolci sensi
Di virtù, di bontade i vostri cuori
S'aprano solo; Libertà sarebbe
Un nome vano, un rio flagel, se guida
A lei non è Virtù, se de' tiranni
Funesta eredità gli odi, le gare
Dividessero ancora i vostri petti.
In dolce nodo stretti
Fra gli amplessi fraterni, ah! deponete
Ogni ombra di livor. Forti se uniti,
Deboli se divisi, ognor sarete.
Sia Libertà per voi
Un nume tutelare: in ogni braccio
Ritrovi un difensor. Ai faticosi
Studi di Marte ognun s'addestri: il solo
Valor sostien la Libertà: pur sempre
Saran de' rei tiranni
Infrante le ritorte,
Se giura ognuno: o Libertade, o Morte.

E qui, invitati da Giove, con un'aria finale, tutti giurano di vivere liberi o morire, ponendo termine all'azione.
Passati i tre primi anni della rivoluzione, ed è invero assai strano, si perde quasi ogni traccia di lui; solamente viene asserito, ma non ne ho trovato prova, ch'ei fosse eletto segretario di legazione a Parigi; ben fu accademico d'onore dell'Accademia Ligustica di Belle Arti, e dopo il 1815, riunita la Liguria al Piemonte, venne nominato decurione ed ebbe parecchi uffici nei Consiglio civico, ma non volle mai essere sindaco.
Morì nel marzo del 1841 lasciando gran desiderio di sé, e rimpianto sincero per le doti grandissime d'animo e di mente, per l'indole sua benefica, per le "affabili maniere" con le quali "temperava la gravità del contegno", onde ottenne lode di amico sincero, buon padre di famiglia, ottimo cittadino.

Ed ora consideriamo brevemente l'opera del giornalista. Il Difensore della Libertà uscì il 1° luglio 1797, ed ebbe fine il 25 gennaio dell'anno successivo, cessando senza avvisare il pubblico, improvvisamente, e senza che se ne conosca la ragione. Come ho già avvertito, lo istituirono in due, ma col numero del 14 novembre Marrè cessa di cooperarvi, e vi comparisce in fine il solo nome di "Sauli estensore in capo." Il giornale procede nella sua via senza guardarsi troppo d'intorno, né si mostra in generale desideroso di polemiche vivaci e personali; onde se si eccettua qualche frizzo al Censore, e una buona risciacquata, una volta tanto alla Gazzetta Nazionale, che aveva attaccato specialmente il Sauli, nulla vi si trova che non riguardi le cose pubbliche. Dal modo col quale sono compilati i vari articoli, se ne rileva lo spirito e l'intendimento. L'amore della libertà senza licenza, il rispetto alle leggi, l'esercizio della virtù e l'osservanza della onestà, costituiscono sempre i principi direttivi, per mezzo dei quali si concorre ad istruire il popolo, facendogli conoscere quali sono i suoi diritti, ma ricordandogli altresì i doveri che gli incombono verso la società e la patria. Censore cauto e moderato, quantunque severo, tanto degli atti governativi come degli uomini pubblici, seguiva l'ammonimento di Tacito: sine ira et studio, posto ad epigrafe opportuna in fronte a suoi fogli. Non gli mancarono perciò le ire dei governanti, e le accuse dei patriotti esagerati, ai quali diceva aperta la verità, tornasse pur dura ed amara. E' notevole a questo proposito la dichiarazione alla quale i redattori si videro costretti, a fine di spiegare lealmente la loro condotta.
"I patriotti" dicevano, "si lagnano di noi e ci tacciano di viltà, e di adulazione; il Governo al contrario ci accusa di sfrontatezza e di spirito di satira calunniosa. Se i gazzettieri adulassero il Governo, non v'ha pericolo che fossero mai ripresi; l'adulazione è una peste così naturale agli uomini, che disgraziatamente attacca anche quelli che reggono le repubbliche democratiche. Se noi seguitassimo questa strada saremmo i gazzettieri prediletti, e i nostri fogli sariano eguali a quelli che si stampano ne' paesi schiavi. Non volendo noi però cadere in questo difetto, quale regola dobbiamo tenere, per non precipitare nell'eccesso contrario della calunnia e della maldicenza? Eccolo. Un gazzettiere repubblicano è uno spettatore severo della condotta dei magistrati, loda le loro virtù, ma censura i loro vizi, osserva lo stato dell'opinione pubblica, la segue, la corregge o la guida secondo le circostanze, sempre pronto a denunziare alla esecrazione universale i dilapidatori, i traditori di ogni specie, in una parola pronto a sacrificare tutti per la sua patria."i
Con questi principi direttivi il giornale seguiva imperturbato la sua via, non curando i ringhi e gli abbaiamenti dei botoli; onde può dirsi, e non è poca lode, abbia sdegnato costantemente di servire ai fini particolari di uomini e di chiesuole, ponendo davvero al disopra d'ogni persona il bene della patria. Dalla qual legge non si dipartì mai, anche quando si trattò di amici, come nel caso delle accuse lanciate contro Gian Carlo Serra, del quale accettò le giustificazioni solamente quando ebbe la sicurezza che la difesa era onesta, e l'innocenza luminosa. Ed anche nella forma si distinse alquanto dagli altri periodici, ché si tenne lontano, quanto era possibile a que' dì, dal reboante ed ampolloso linguaggio rettorico, così comune in quell'ambiente di entusiasmi e di violenze.
Ma ciò che non deve passare inosservato, e che ferma subito la nostra attenzione si è il vedere scritto in capo al giornale: Anno I della Repubblica Italiana. Queste parole ci chiariscono senz'altro il concetto politico dei redattori, riguardo all'assetto definitivo che si doveva dare all'Italia; la quale, mercé Bonaparte, avrebbe dovuto raccogliere le sparse membra in una forte unità repubblicana. E l'idea unitaria riceve lume ed illustrazione tutte le volte che agli scrittori si porge la buona opportunità di toccarne, vuoi direttamente, vuoi indirettamente. Infatti è viva la speranza che "ben presto l'Italia non formerà che un popolo solo, animato dagli stessi principi, guidato dai medesimi interessi, felice al di dentro, e rispettato al di fuori da tutte le nazioni dell'universo." Chi parla di federalismo è nemico della democrazia e della patria; a chiunque invece parlerà d'unione, i liguri debbono rispondere: "La Liguria è pronta ad unirsi all'Italia libera, quando sarà tutta rivoluzionata; od almeno quando l'Italia libera sarà liberamente e sovranamente governata." Ma, duole il dirlo, né allora era altrimenti, s'aspettava di fuori il verbo rigeneratore: "da Parigi sarà proclamata la Repubblica Italiana UNA ed INDIVISIBILE." Al conte Balbo, il quale domandava: "Que ferons-nous de l'Italie?", era "venuto il tempo di rispondere: una repubblica riunendo tutti i differenti stati."
Senonché le vicende della guerra tenevano gli animi continuamente sospesi sopra le sorti della patria, e l'infausta pace di Campoformio venne improvvisa a gettare lo sconforto in mezzo agli entusiasmi, destando nuovi timori: i disegni di Bonaparte accennavano a tradire i desideri degli unitari, che avevano riposto in lui ogni fiducia, e veduto con piacere gli italiani risvegliarsi a libertà. "Questa bella Penisola da lungo tempo cancellata dal rango delle potenze, che all'avvicinamento delle armate francesi è stata in tutti i suoi punti scossa dall'elettricismo della libertà, che ha pronunziato solennemente il suo voto per la sua risurrezione politica, già organizzava le sue legioni, e riprendeva un atteggiamento guerriero." Ma la politica di Bonaparte arrestava questo movimento così bene avviato, e al concetto largo, nazionale, d'una grande e forte repubblica, voleva, pe' suoi fini, sostituito quello delle piccole repubbliche divise ed autonome. Perciò si domandava: "L'Italia che diverrà mai? Al nome glorioso di Repubblica Italiana saranno sostituiti i nomi oscuri ed inonorati di Cisalpina e Cispadana?" Nondimeno al genio, all'ambizione del gran capitano pur si volgeva ancora una speranza. "O Bonaparte, la posterità parlerà con ammirazione delle tue campagne, ti pareggerà, e con giustizia ai più gran guerrieri, ma se l'Italia ti dovesse la sua totale rigenerazione, la sua esistenza politica, a qual uomo potrebbe ella paragonarti?" In questa guisa scriveva arditamente il Sauli, al quale non garbava la costituzione di quegli staterelli repubblicani disordinati e confusi, donde non potea derivare forza e grandezza alla patria. Né si rimase dal propugnare l'alto suo intendimento con più ampio scritto, nel quale si rivolge agli italiani eccitandoli alla unità, e li conforta a lasciar da parte ogni idea di federazione, come assai difficile a mandarsi ad effetto, e pericolosa per molteplici rispetti.
"La lunga esperienza", così ammoniva, "dei mali cui soggiacque per tanti secoli la patria lacerata, vi faccia finalmente conoscere la necessità di rinunciare alle rivalità, d'amalgamare i vostri interessi, formando un sol corpo politico di tutti gli stati d'Italia. Fate sparire quei limiti e quelle frontiere che dividono l'Etruria dal Lazio, l'Umbria della Liguria, e la vostra indipendenza sarà più solida e più sicura. Vi comanda forse l'avara natura di restringervi in quei confini che vi diedero i vostri tiranni? Non vi chiama ella forse ad una generale alleanza, dandovi la stessa favella, gli stessi interessi? I soli confini che essa vi ha fissato con indelebile segno, sono quelli che separano dalle estere nazioni il bel paese.
Che Apennin parte, il mar circonda e l'Alpe."

Anche il nostro Gaspare va adunque posto nella schiera de' fautori più caldi e più convinti dell'unità nazionale; e quantunque sia già stato dimostrato dal Carducci e dal D'Ancona come a questo fine si volgessero, per diversa guisa, i canti dei poeti, e le aspirazioni di valenti patriotti, pur è notevole il fatto d'un uomo, il quale esercitava il suo apostolato per mezzo di un giornale, che può ben dirsi da lui istituito con questo intendimento. Al quale pur miravano altri ancora amici e cooperatori del Sauli. Uno di questi si può riconoscere in quel Giambattista Serra, di cui ho già toccato, il quale, appena compiuta la rivoluzione di Genova, arrendendosi al consiglio di Bonaparte, che non trovava opportuna la proposta costituzione di società popolari, scriveva:
"Il n'y aurait qu'un seul cas où elles pourraient être très-utiles; ce serait celui où nous aurions besoin de surmonter les préjugés de localité pour une réunion avec le reste de l'Italie libre, supposition qui est encore éloignée, mais que vostre génie pourrait accélérer."
Quindi pregava il generale a far sì che la Cisalpina e la Repubblica Ligure, "ces deux soeurs", non avessero ad acquistare "un ésprit d'alienation rèciproque"; poiché egli temeva "cet ésprit qui a perdu l'Italie dans le moyen âge". E quando si dava assetto al nuovo governo, toccando della opportunità di cambiar nome al supremo magistrato cittadino. rimpiangeva "le mot Sénat que la Republique Romaine a rendu si imposant", ma s'acconciava per il momento a sì fatta mutazione, "sauf à la réhabiliter, lorsque le génie de Bonaparte aura regénére et réuni toute l'Italie".
Né, a proposito di questi concetti unitari, è privo d'importanza il brano di una lettera anonima scritta da Nizza l'8 aprile 1793, e sequestrata fra le carte del Sauli. Eccone il tenore:
"Mi sono incontrato col cittadino L'Aurora, una delle prime famiglie romane, il quale ha servito l'Imperatore, ed ha girato l'Europa per l'esecuzione di un progetto che anderò a dirvi. Ha progettato costui alla Convenzione Nazionale di volergli accordare i soccorsi per levare legioni, che all'Aquila romana conquistassero tutta l'Italia. Queste legioni saranno composte di soli italiani, ed egli ha dei partiti considerabili a Cadice, Madrid, Londra, Parigi, dove i mercanti l'aiutano col danaro, e la gioventù colla forza. Sta negoziando con Biron e si lusinga dell'esito. Sarebbe buono che voi scriveste a Serra che si degnasse di dar orecchio a quanto gli scriverà L'Aurora. Egli stamperà un manifesto che avrò la cura d'inviarvi. Il progetto di liberare l'Italia da noi stessi sarebbe grande in sé stesso, ma l'esecuzione mi par difficile".
Io non so invero chi si fosse questo L'Aurora, e neppure ho potuto raccapezzare nulla intorno ai suoi progetti; ma conosco un suo grosso volume stampato a Milano nel 1796 col bizzarro titolo: All'Italia nelle tenebre l'Aurora porta la luce, che è un vero e proprio trattato politico, dove viene esposto largamente, in cattivo stile e in lingua anche peggiore, tutto un sistema di governo repubblicano da applicarsi all'Europa in generale. Ma senza fermarmi a porgere l'analisi di questa opera curiosissima e stravagante, ché qui sarebbe ozioso, mi basterà accennare come l'Italia, secondo il suo proposito, avrebbe dovuto essere "amministrata in Repubblica, divisa in otto dipartimenti, ripartiti in cantoni, e questi in municipalità". Reggitore supremo un Senato elettivo residente a Roma nel palazzo Vaticano (il Papa e i Cardinali dovevano essere mandati in Sardegna), con otto ministri pure eletti dal popolo. A questo concetto di costituzione fondamentale fanno tenore tutti gli altri ordinamenti particolareggiati, ch'io tralascio di enumerare. Ben importa soggiungere come la proposta di Michele L'Aurora non fosse un parto fantastico e isolato di cervello balzano, quantunque il suo libro contenga pur parecchie stranezze, perché il Saggio sulle leggi fondamentali dell'Italia libera edito a Milano l'anno primo della libertà, svolge, sebbene con più saldo criterio, gli stessi intendimenti. Infine debbono noverarsi fra le manifestazioni unitarie e la Lettera di un italiano a Buonaparte, scrittura assai notevole, persino attribuita a Foscolo; e la Memoire des Italiens au Corps Legistatif Français pour l'Indépendance et l'Unité de l'Italie, opuscoli usciti a Genova nel 1799, osservabile il secondo, perché può dirsi un seguito all'Indirizzo degli italiani rifugiati a Grenoble, dettato con il medesimo fine dai "républicains liguriens", e dagli altri italiani "réfugiés en Ligurie".
Or considerando come sì fatte manifestazioni vedessero la luce in Genova, ed anco dal di fuori facessero capo a genovesi, i quali ne erano noti banditori e seguaci, potrebbe credersi che in questa città, meglio che altrove, gettassero radici le idee unitarie e vi rimanessero più vive. Tanto più se si ricorda come persino al primo cadere delle sorti napoleoniche, allorquando si cospirava per riunire tutta l'Italia sotto lo scettro del grande prigioniero dell'Elba, con una costituzione democratica, fanno parte principale di quella congrega alcuni genovesi d'incontestato valore, e a Genova si raccolgono per colorire il disegno. Dato perciò questo ambiente, non sarebbe forse troppo ardito il riconoscere, che l'apostolato unitario e repubblicano di Giuseppe Mazzini, a cui l'educazione democratica di famiglia, la conversazione de' vecchi amici, e gli insegnamenti dei maestri scaldarono l'animo e fecondarono l'ingegno, fosse la conseguenza quasi inavvertita di un procedimento storico al tutto naturale.


1 Giorgio Viani, mediocre poeta e valente numismatico, ma uomo di dubbia onestà, nel processo contro Marco Federici depose di relazioni politiche fra questi e il d'Isengard, non che di carteggi del Sauli ne' quali era parola della rivoluzione da eseguirsi a Genova. Il Sauli, interrogato, affermò di non conoscere alcuno alla Spezia, salvo "un certo signor Viani" che già "era e dimorava a Genova. " Alla domanda se lo crede onesto probo e incapace di mentire, risponde: "Non saprei dire cosa di positivo, mentre la cognizione che di esso ho avuta era molto superficiale, onde solo posso dire che ognuno si presume buono fino a che non si conosca diversamente." Nega poi recisamente l'asserzione del Viani.
2 Il Serra, amico di Robespierre, nella sua vecchiezza si compiaceva narrare i casi della sua vita a Parigi, specie la compassione che gli destò, amante com'era delle belle donne, la sorte riserbata a Maria Antonietta ch'ei s'era proposto di liberare, ma preso in sospetto se ne fuggì a Genova per scampare da certa morte.

© La Gazzetta di Santa