Eddyburg – 28 novembre 2008
Premessa
L'ambiente sociale, politico, economico nel quale viviamo è ciò che nel mondo si definisce neoliberalismo: la fase attuale del sistema
capitalistico-borghese. E' il neoliberalismo la matrice culturale dell'opinione corrente, del pensiero unico inculcato alla gente, e soprattutto della strategia dal
quale nascono le politiche urbane in tutt'Europa (e nel resto del mondo).
Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che esistono nelle città. Lo smantellamento
delle conquiste del welfare urbano ne sono una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove - a differenza che altrove - non c'è mai stata
un'amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite. Un'altra
componente è la tendenziale privatizzazione d'ogni bene comune, nella città e nel territorio, che può dar luogo a guadagni privati: dall'acqua agli spazi pubblici,
dall'università alla casa per i meno abbienti, dall'assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti.
In tutt'Europa nascono perciò movimenti di protesta: spesso deboli, frammentari, episodici, qualche volta collegati in reti più ampie, anche internazionali. Si
tratta di proteste che riguardano prevalentemente due temi: (1) la difesa dagli sfratti, dall'espulsione dalle case e dai quartieri sottoposti a processi di
rigenerazione e riqualificazione che spostano gli abitanti originari nelle più lontane periferie; (2) la difesa di spazi pubblici (piazze, parchi, edifici pubblici)
sottratti all'uso collettivo dall'edificazione o dalla privatizzazione.
Sono proteste che cominciano ad emergere nei forum sociali nei quali si esprimono le forze, culturali e sociali, che non credono che la globalizzazione del
neoliberalismo porti benessere e felicità a tutti, e cercano altre vie per affermare i diritti dell'umanità.
Tra questi diritti riemerge un diritto antico, evocato alla fine degli anni 60 del secolo scorso da Henri Levebvre, ripreso da David Harvey e solo recentemente
riapparso nelle parole d'ordine del movimento e nel lavoro dei ricercatori: il diritto alla città. Un diritto che spetta agli uomini e alle donne non in
quanto singoli individui (anche se ciascuno ne è beneficiario) ma in quanto membri della società: in quanto cittadini o in quanto abitanti ancora privi del diritto
di cittadinanza.
E' un diritto che si concreta in due aspetti principali, dai quali tutti gli altri derivano:
La tesi che abbiamo discusso e approvato al Forum sociale europeo è che la risposta positiva all'esigenza di diritto alla città è costituita dalla capacità
di realizzare nel concreto quel modello di habitat dell'uomo che abbiamo definito "la città come bene comune". E' su questo che vorrei ora brevemente soffermarmi
Città
Nell'esperienza europea la città non è semplicemente un aggregato di case. La città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle
attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici)
sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano
di acqua, energia, gas. La città è la casa di una comunità.
Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l'espressione fisica e l'organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie
legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.
Bene
La città è un bene, non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per sopravvivere nella moderna società capitalistica. Bene e
merce sono due modi diversi per vedere e vivere gli stessi oggetti.
Un bene è qualcosa che ha valore di per sé, per l'uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a
soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli
dell'affetto e del piacere (l'amicizia, la solidarietà, l'amore, il godimento estetico). Un bene ha un'identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è
qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.
Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in sé, ma solo per ciò che può
aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un'altra che ha un valore economico
maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché
tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.
Comune
Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e
solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene
comune.
Nell'esperienza europea ogni persona appartiene a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i
suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera ogni giorno. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del
quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue
bevande. Io sono Veneziano, ma sono anche italiano, e sono anche europeo, e anche membro dell'umanità: a ciascuna di queste comunità mi legano la mia vita e la mia
storia.
Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze
perché in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l'ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere
materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende consapevole della mia identità,
dell'essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza
l'identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sento le nostre diversità come una ricchezza di tutti.
Nella storia
Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici, i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti
religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento, decisivo è
stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell'incontro tra le persone, ma anche come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli
edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino.
Le piazze erano i fuochi dell'ordinamento della città. Lì i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro
riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c'era un evento importante per la città:
un giudizio, un allarme, una festa.
Dove la città era grande e importante, invece di un'unica piazza c'era un sistema di piazze: più piazze vicine, collegate dal disegno urbano, ciascuna dedicata
a una specifica funzione: la piazza del Mercato, la piazza dei Signori, la piazza del Duomo. Dove la città era organizzata in quartieri (ciascuno espressione
spaziale di una comunità più piccola dell'intera città), ogni quartiere aveva la sua piazza, ma erano tutti satelliti della piazza più grande, della piazza (o del
sistema di piazze) cittadine.
Le piazze, gli edifici pubblici che su di esse si affacciavano e le strade che le connettevano costituivano l'ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe
ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze e i suoi palazzi destinati ai consumi e ai servizi comuni era inconcepibile, come un corpo umano senza
scheletro.
Gli spazi comuni nel welfare state
Gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti i cittadini. A differenza delle fabbriche (che nella società capitalistica diventano i
luoghi della socializzazione dei lavoratori) gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti: tutti gli abitanti possono fruirne,
indipendentemente dal reddito, dall'età, dall'occupazione. E sono il luogo dell'incontro con lo straniero.
Nel XIX e XX secolo il movimento di emancipazione del lavoro, che nasce dalla solidarietà di fabbrica, si estende a tutta la città. Il governo della città non è
più solo dei padroni dei mezzi di produzione: cresce la dialettica tra lavoro e capitale, nasce il welfare state. I luoghi del consumo comune si arricchiscono di
nuove componenti: le scuole, gli ambulatori e gli ospedali, gli asili nido, gli impianti sportivi, i mercati di quartiere sono il frutto di lotte accanite, tenaci,
nelle quali le organizzazioni della classe operaia gettano il loro peso.
L'emancipazione femminile accresce ancora il ruolo degli spazi pubblici destinati ad alleggerire il lavoro casalingo delle donne. In Italia è negli anno 60 del
secolo scorso che, parallelamente al superamento al consistente ingresso delle donne nel mondo del lavoro della fabbrica e dell'ufficio, nasce una forte e
vittoriosa tensione per ottenere, nei piani attraverso cui si organizza la città, spazi in quantità adeguate per le esigenze sociali dei cittadini.
Non solo gli spazi pubblici, anche la residenza: la casa come servizio sociale
Nella città moderna anche l'abitazione diventa un problema che non può essere abbandonato alle soluzioni individuali. C'è (c'è sempre stata) l'esigenza di
assicurare all'insieme degli interventi individuali e privati un disegno complessivo, delle regole certe, che contribuiscano a rendere la città qualcosa di diverso
da un'accozzaglia di elementi dissonanti: a questo serve la regolamentazione urbanistica ed edilizia.
Ma questo non basta. Il prezzo dei terreni edificabili cresce senza tregua man mano che la città si estende, che aumentano le sue dotazioni di infrastrutture e
servizi. L'aumento del valore dei suoli dipende dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, ma in quasi tutti gli stati capitalisti esso (la rendita)
va nelle tasche dei proprietari. Questo incide pesantemente sui prezzi delle costruzioni, in particolare delle abitazioni.
Nasce la necessità di governare il mercato delle abitazioni con interventi dello stato: case ad affitti moderati per i ceti meno ricchi, regolamentazione anche
del mercato privato. Nascono vertenze nelle quali risuona lo slogan "la casa come servizio sociale". Con questa parola d'ordine non si chiede che l'abitazione venga
offerta gratuitamente a tutti i cittadini, ma che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un
equilibrio tra prezzo dell'alloggio e redditi delle famiglie.
Il primato dell'individuo sulla società
Oggi le cose stanno cambiando. Nei secoli appena passati sono accaduti eventi che hanno profondamente indebolito il carattere comune, collettivo della città. Si
discute sulle cause del cambiamento. Ci si domanda perché sono prevalse concezioni dell'uomo, dell'economia, della società che hanno condotto al primato
dell'individuo sulla comunità, che hanno schiacciato l'uomo sulla sua dimensione economica (di strumento della produzione di merci), che hanno reso la politica
serva dell'economia.
Le due componenti dell'uomo che ne caratterizzano l'individualità (quella privata, intima, e quella sociale, pubblica) avevano forse trovato un equilibrio, che
si rifletteva nell'organizzazione della città: la vita si svolgeva nell'abitazione e nella piazza, nello spazio privato e in quello pubblico, senza barriere tra
l'uno e l'altro. Oggi, con Richard Sennett, constatiamo con angoscia "il declino dell'uomo pubblico". E nella città lo vediamo pienamente rappresentato.
E non trascuriamo le ragioni strutturali, a partire dal suolo urbano. Il suolo su cui la città era fondata era considerato patrimonio della collettività in
molte regioni europee: il libro di Hans Bermoulli, La città e il suolo urbano, lo racconta in modo molto efficace. Nel XIX secolo, con il trionfo della
borghesia capitalistica, in molti paesi dell'Europa è stato privatizzato. La speculazione sui terreni urbani ha portato a costruire sempre più edifici da vendere
come abitazioni o come uffici, invece che servizi per tutta la cittadinanza, e a destinare sempre meno spazi agli usi collettivi.
Devastante è stata l'espansione della motorizzazione privata nelle aree densamente popolate, dove sarebbe stato preferibile adoperare mezzi di trasporto
collettivi. Le automobili hanno cacciato i cittadini dalle piazze e dai marciapiedi.
Il bisogno dei cittadini di disporre di spazi comuni è stato strumentalmente utilizzato per aumentare artificiosamente il consumo di merci. Le aziende
produttrici di merci sempre più opulente e meno utili hanno costruito degli spazi comuni artificiali: dei Mall o degli Outlet centers o altre forme di creazione di
spazi chiusi: piazze e mercati finti, privatamente gestiti, frequentati da moltitudini di persone che, più che cittadini (quindi persone consapevoli della loro
dignità e dei loro diritti) sono considerati clienti (quindi persone dotate di un buon portafoglio).
In Italia si è abbandonato ogni tentativo di ridurre il peso della rendita immobiliare. Si sono stretti legami forti tra rendita finanziaria e rendita
immobiliare. Le grandi industrie (come la FIAT e la Pirelli) hanno dirottato i loro investimenti dall'industria alla speculazione immobiliare. Da oltre un decennio
si è interrotto qualsiasi impegno dello Stato nel campo dell'edilizia sociale. Una proposta di legge presentata dai partiti che attualmente governano prevede
addirittura di lasciare ai promotori immobiliari la realizzazione e gestione delle attrezzature pubbliche, e la stessa pianificazione urbanistica, che dovrebbe
limitarsi ad accettare i progetti presentati dalla proprietà immobiliare.
Tutto questo avviene nel quadro di una fortissima spinta verso le soluzioni individuali. Non solo si riduce il welfare state, ma si convincono i cittadini
(attraverso il monopolio dell'informazione televisiva e l'onnipresenza della pubblicità) che raggiunge il benessere chi si arrangia per conto suo, calpestando le
regole ed evitando di pagare le tasse. In Italia, negli ultimi venti anni, il declino dell'uomo pubblico è avvenuto in modo crescente.
Il modello della città del neoliberalismo
Come ha scritto Jean-François Tribillon, nel modello neoliberale
Un potere sempre più concentrato e globalizzato risiede nei luoghi selezionati nelle città globali. I cittadini sono tendenzialmente ridotti a sudditi: il padrone è
il Mercato, dove i forti schiacciano sistematicamente i deboli.
Il Mercato non deve essere disturbato: le regole sono un impaccio, devono essere ridotte al minimo: solo a far funzionare la città così come serve a chi
comanda. La politica si riduce alla tecnicità disincantata della gestione dell'esistente.
L'emarginazione, la segregazione, la rimozione diventano pratiche di pianificazione. I servizi collettivi sono finalizzati a garantire contro ogni tentativo di
ribellione.
La distribuzione dell'informazione è organizzata per accrescere il consenso per il potere e per impedire che voci alternative possano farsi sentire.
Le conseguenze sociali
La realizzazione del modello neoliberalista, se arricchisce i ricchi, colpisce tutti quelli che ricchi non sono.
E' colpito il lavoro dipendente, nelle fabbriche e negli uffici, dove il postfordismo ha dato luogo a un mercato del lavoro dove non solo i diritti, ma anche la
condizione materiali dei lavoratori si sono fortemente indeboliti. Si riduce la sicurezza del lavoro, si riducono i salari, si riduce la solidarietà nel luogo del
lavoro.
E' colpita la condizione delle donne, cui le attrezzature e i servizi promossi dal welfare state urbano fornivano strumenti essenziali per ridurre il
peso del lavoro casalingo: dagli asili nido alla scuola, dall'assistenza ai malati e agli anziani alla ricreazione e allo sport.
E' colpita la condizione dei giovani, che in un mondo dominato dall'individualismo, dall'assenza di motivazioni ideali e di solidarietà, in una società che non
dà alcuna certezza di futuro, in una città privata della presenza di spazi pubblici adeguati, sono abbandonati alle tentazioni della fuga da se stessi mediante la
droga e l'alcool, la trasformazione dello stress e della depressione nel vandalismo e nella violenza.
E' colpita la condizione degli anziani, ai quali da una parte è tolto lo spazio per comunicare ai giovani le proprie esperienze e il proprio sapere, e
dall'altra parte patiscono di diventare un peso per la famiglia, alla cui assistenza sono costretti a ricorrere.
E' colpita la condizione delle giovani coppie e di chi, per ragioni di lavoro, deve abbandonare la residenza originaria, ed è costretto dal mercato immobiliare
ad abitare in luoghi lontani dal posto di lavoro e a impiegare parte consistente del suo tempo in mezzi di trasporto spesso inadeguati.
Sono colpiti, il generale, tutti i cittadini, ai quali la società neoliberale toglie via via gli spazi di partecipazione consapevole al governo, privilegiando
la governabilità sulla democrazia, l'accordo discreto con i potenti alla trasparenza delle procedure.
Tre direttrici d'azione
Per resistere, per reagire, per iniziare a preparare una città diversa da quella che il capitalismo dei nostri tempi ci prepara, dobbiamo orientare l'azione
lungo tre direttrici:
La città come bene comune è la concezione che permette di soddisfare il diritto alla città
Il tema della "città come bene comune" deve essere proposto come il centro di una concezione giusta e positiva di una nuova urbanistica e di una nuova coesione
sociale, e come obiettivo dei conflitti urbani. La "città come bene comune" è una città che si fa carico delle esigenze e dei bisogni di tutti i cittadini, a
partire dai più deboli. E' una città che assicura a tutti i cittadini un alloggio a un prezzo commisurato alla capacità di spesa di ciascuno. E' una città che
garantisce a tutti l'accessibilità facile e piacevole ai luoghi di lavoro e ai servizi collettivi.
E' una città nella quale i servizi necessari (l'asilo nido e la scuola, l'ambulatorio e la biblioteca, gli impianti per lo sport e il verde pubblico, il mercato
comunale e il luogo di culto) sono previsti in quantità e in localizzazione adeguate, sono aperti a tutti i cittadini indipendentemente dal loro reddito, etnia,
cultura, età, condizione sociale, religione, appartenenza politica, e nella quale le piazze siano luogo d'incontro aperto a tutti i cittadini e i forestieri, libere
dal traffico e vive in tutte le ore del giorno, sicure per i bambini, gli anziani, i malati, i deboli.
Ed è una città nella quale le scelte di governo sono condivise dai cittadini, in cui essi partecipano alla gestione del potere non solo nel momento
dell'elezione ma in ogni momento significativo delle scelte. Devono essere garantiti la trasparenza del processo delle decisioni sulla città e sul suo
funzionamento, e la possibilità dei cittadini a esprimersi e ad avere risposte alle loro proposte. Tutto ciò richiede ai cittadini di imparare a conoscere gli
obiettivi, gli strumenti, le procedure, le risorse mediante cui si agisce nella città: quelli che sanno (i tecnici, i sapienti) devono impegnarsi a fornire le loro
conoscenze liberamente.
Realizzare e far funzionare una simile città è l'unico modo per realizzare, per tutti, il diritto alla città, nei due aspetti dell'appropriazione dell'uso della
città (valore d'uso e non valore di scambio), e di partecipazione piena al suo governo.
Regole chiare, trasparenti, condivise - Controllo dell'uso del suolo e delle urbanizzazioni
La prima condizione perché ciò possa avvenire è che le trasformazioni della città (sia quelle che comportano opere sia quelle che si verificano solo con cambi
d'uso e di proprietà) avvengano sulla base di regole chiare, definite in modo trasparente, applicate senza deroghe e favoritismi. Esse devono essere definite con la
condivisione della maggioranza degli abitanti, i quali devono intervenire in quanto cittadini e non in quanto proprietari di terreno o di edifici.
La seconda condizione è che il governo cittadino abbia il pieno controllo sull'uso del suolo, delle urbanizzazioni, del loro uso, e che possa impiegare gli
incrementi di valore degli immobili, derivanti dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, alla realizzazione e al funzionamento delle opere che
servono a tutti i cittadini.
Il governo pubblico delle trasformazioni del territorio, la pianificazione urbanistica, è il momento di sintesi della lotta per il diritto alla città e per la
costruzione della città come bene comune.
Un punto di partenza
Per iniziare la costruzione di una città più giusta occorre combattere a partire dalle esigenze più sentite dalla popolazione: la difesa degli spazi pubblici
minacciati dalla privatizzazione e dall'abbandono del welfare, la conquista o la difesa di un alloggio a prezzi compatibili con il reddito, la tutela del paesaggio
e del patrimonio culturale sono già l'argomento di molte lotte nella città e nel territorio. Occorre appoggiare, incoraggiare e promuovere le iniziative, aiutarle a
mettersi in rete, a condividere obiettivi e strumenti.
In tutte le città d'Europa sono nati movimenti, associazioni, comitati che rivendicano una maggiore quantità e qualità di spazi comuni per rendere la città
vivibile. Anche negli stessi Stati Uniti d'America si sono manifestate tendenze culturali e sociali per contrastare le conseguenze degli eccessi
dell'individualismo. In molte città europee i fenomeni di degrado degli spazi comuni sono stati contrastati realizzando ampie zone pedonali, limitando il traffico
automobilistico nelle città, sviluppando il trasporto collettivo, le piste ciclabili, i percorsi pedonali. Dove ciò non è accaduto la vita è diventata molto
difficile soprattutto per le persone più deboli: i bambini, gli anziani, le donne.
Da questo insieme di esperienze nascono proposte interessanti sui requisiti che devono caratterizzare spazi pubblici vivibili: per il loro disegno e la loro
forma, la loro connessione con la città e con il quartiere, le funzioni in essa ospitate (le più molteplici e varie, e prevalentemente finalizzate all'uso comune),
sulle comodità e sugli arredi.
Le iniziative e le vertenze devono essere utilizzate non solo in vista dei loro obiettivi concreti e immediati. Esse devono aiutare a far crescere la
consapevolezza del diritto alla città e della necessità e possibilità di concepire e realizzare la città come un bene comune.
Per concludere: Un ricordo e un sogno
Per concludere, un sogno, come oggi è di moda: anzi, un ricordo e un sogno.
Il ricordo: 19 novembre 1969, sciopero generale per la casa, i servizi, i trasporti. Il sindacato dei lavoratori uscì decisamente dalla fabbrica, fu il motore
dell'avvio di un processo di riforme che proseguì per tutto il decennio successivo.
Il sogno: che il movimento dei lavoratori riprenda nelle sue mani la vertenza per una città più giusta e perciò più bella, per un territorio tutelato nelle sue
qualità e sottratto ai rischi, che incontri le altre componenti della società che si battono per gli stessi obiettivi.
Solo se diventiamo una moltitudine riusciremo a contrastare la strategia di chi vuole completare la riduzione della città a merce e dell'uomo a servo
dall'incerto destino.