Genova, Rivista del Comune – maggio 1964
Il mito del genovese prudente e saggio nello spendere il proprio denaro si rivela sempre più privo di fondatezza. Mille esempi, recenti e lontani, possono essere
sciorinati a smentirlo, a rovesciare completamento il tradizionale «cliché» che, dei nostri concittadini, viene tramandato.
Limitiamoci qui ad un solo particolare aspetto del costume genovese; possono essere considerati prudenti e saggi i cittadini che scommettono, nel 1600, somme ragguardevoli al gioco del «seminario»1, facendolo con così scarso senso della misura, da indurre il governo, nel 1618, a proibire il gioco con apposita legge? E che ci insistono, malgrado la legge suddetta, con costanza degna di miglior causa, fino a che - nel 1656 - il «seminario», per poterlo almeno in qualche modo controllare, viene proclamato monopolio governativo? Diabolico «seminario», che preoccupò tanto i reggitori della cosa pubblica genovese sia nella fase, diciamo così, pre-governativa, sia in quella ufficiale, quando - rivelatosi fonte di pingui entrate per le casse della città - corsero voci sull'intenzione del Papa di farlo abolire ; voci, solamente voci, evidentemente, il gioco del «seminario» esiste tuttora: non si gioca più, come ai suoi primi tempi, con lo scommettere sull'estrazione dei nomi di 5 persone che erano chiamate al governo: ora il sistema è diventato un po' più complesso, c'entrano 90 numeri, le ruote, ed ha anche cambiato nome, si chiama «lotto» ma esiste ancora
Il fatto, del resto risaputo, che il gioco del lotto sia nato a Genova e vi abbia a tal punto attecchito non l'abbiamo citato soltanto per dimostrare la
spiccata propensione dei genovesi a sperperare il loro denaro, ma anche e piuttosto per introdurre il discorso sulla passione pazzesca che, nei secoli XVII e XVIII
soprattutto, accendeva nobili e plebei della città per ogni tipo di gioco. E questo malgrado le leggi si affannassero, ad ogni piè sospinto, a proibire anche quelli
che, ai nostri occhi, apparirebbero del tutto leciti ed innocui.
Si giocava nelle case dei nobili, provocando le proteste dei moralisti, molti dei quali esternavano la loro indignazione al Gran Consiglio, ai Magistrati degli
Inquisitori di Stato, con letterine adeguatamente anonime, contenenti esplicite denunzie contro le principali dame dell'aristocrazia genovese, accusate di dare
ospitalità nottetempo ai giochi d'azzardo più sfrenati; e si giocava anche nelle taverne dei poveri, addirittura nelle strade, di fronte alla Chiese, ostentando la
più assoluta indifferenza alle proteste dei religiosi, principalmente delle buone monache costrette ad ascoltare le espressioni poco ortodosse con le quali i plebei
commentavano il loro gioco.
Giocavano alla «basetta»2 o «faraona»3 i nobili, alla
«torretta» ed al «ziretto» i plebei: e sia nobili che plebei giocavano al «biribisso», o «biribissi », o
«biribisci» o, ancora, «biribis». Quando i governanti genovesi tuonavano contro i giochi, era soprattutto sul «biribisso» che si
scagliavano: le pene più severe, pene detentive e pene pecuniarie, erano riservate ai giocatori di «biribisso». In forza di una legge del 1736, coloro
che venivano sorpresi a giocarvi, venivano condannati a grosse multe e, nel caso non potessero pagarle, venivano incarcerati. Sembra poi che la legge non
funzionasse gran che, almeno a giudicare da una relazione del Magistrato degli Inquisitori di Stato, che chiede istruzioni sul modo di comportarsi «attesoché
da alcuni condannati è stata allegata l'impossibilità del pagamento», e che comunica di aver ritenuto conveniente far scarcerare uno di questi, appunto,
perché
«figlio di famiglia privo di sostanza e col peso di numerosa prole»: ma il fatto stesso della sua emanazione, le preoccupazioni del
Magistrato per farla osservare, e gli episodi su riportati indicano con una certa evidenza il grado di fanatismo cui era giunta la cittadinanza genovese per il
«biribisso».
In che consisteva questo gioco nefasto, temibile, che sembrava aver stregato tutta Genova? Abbiamo avuto la fortuna di vederne un esemplare completo, e dobbiamo
confessarvi che non abbiamo avvertito nessuna aura malefica
Un tabellone, suddiviso in tanti riquadri, numerati e contenenti ciascuno una figura allegorica -
uomini, animali, stemmi - suggestivo, sì, ma dall'aspetto del tutto pacifico; un sacchettino, simile in tutto a quello della nostra casalinga tombola, dal quale
venivano estratti certi fusi forati, chiamati «giande» che, ognuno nel proprio foro, contenevano un cartoncino arrotolato. Su ogni cartoncino la
riproduzione, in proporzioni ridotte, delle figure numerate del tabellone. A questo punto il meccanismo del gioco si comprende chiaramente: i giocatori - che
potevano essere in numero illimitato - puntavano le loro monete su una figura del tavoliere e, chi aveva la fortuna di vedere estratta dal sacchetto la stessa
figura su cui aveva puntato, era il vincitore. Sulle proporzioni della vincita, i pareri sono discordi: c'è chi afferma che venivano stabilite di comune accordo fra
i giocatori, c'è chi parla invece del pagamento, al vincitore, di 70 volte la posta: probabilmente veniva adottata ora l'una, ora l'altra soluzione.
Questo era il «biribisso»: come si vede, conteneva in modo elementare e rudimentale, i principi della «roulette» con al posto della
pallina, le familiari «glande» ma, pare, con la stessa possibilità acquisita magari successivamente, in seguito all'evolversi del gioco, di puntare su
accoppiamenti e combinazioni. E, lo abbiamo già visto, con la prerogativa che oggi appartiene alla «roulette», per definizione, di condurre alla
perdizione
A tal punto che, dopo la legge del 1736 che lo aboliva, per consolare i genovesi costernati, venne introdotto un altro gioco, detto
significativamente del «contentino», basato più sull'abilità che sulla fortuna dei contendenti. Ma anche quello lo sì cominciò a giocare alterandone le
norme, sicché - dopo soltanto un anno - venne proibito con pubblica grida, il che non impedì che si continuasse a giocarlo sino al 1743, quando fu giocoforza
proibirlo per la seconda volta. E il «biribisso»? Sembra che anche quello continuasse ad essere giocato, più o meno clandestinamente, sin verso il 1770,
quando fu soppiantato (udite! udite!) dal più moderno gioco dell'Oca.
E qui potremmo fare il punto. Senonché, scartabellando vecchi libri, siamo arrivati a scoprire che il suo tramonto, all'epoca riferita, non solo era fittizio,
perché, tutt'altro che finito, dall'Italia si era trapiantato in Francia con il nome di «biribì» ma che nella stessa Francia, nell'anno di grazia 1837,
in tempi perciò relativamente vicini, era stato ulteriormente - vedi caso - proibito! Fatale destino di un gioco dall'aspetto tanto pacifico e familiare, e tanto
propenso purtuttavia a condurre alla perdizione
1 Vedi gli articoli "Il Giuoco del 'Seminario' del 30 marzo 2018 e "Gioco del Seminario" del 22 giugno 2018.
2 Gioco di carte per 3 persone e un banchiere con mazzo di 52 carte, molto praticato fin dal secolo XVII; i giocatori avevano puntato a caso su
due delle proprie carte coperte, il banchiere scopriva una coppia delle sue carte, una vincente per lui e una per gli avversari, quindi pagava la posta per quella
degli avversari e ritirava le poste messe sulla carta risultata vincente per lui. Il gioco, abbastanza semplice e come tale rovinoso, raggiunse una notevole
diffusione, poi col tempo fu soppiantato dal faraone, abbastanza simile per struttura.
2 Gioco di carte con tavoliere per un numero di persone da 4 a 10 contro un banchiere. Serve un mazzo di 52 carte e un tavoliere con 13 carte. I
giocatori collocano una posta su una carta del tavoliere a scelta, poi il banchiere scopre due carte dal mazzo: una è vincente per lui e perdente per gli avversari,
l'altra è vincente per gli avversari. Il banchiere tira dal tavoliere le poste collocate su carta di valore uguale a quello della perdente e paga alla pari chi ha
scommesso sull'altra. Simile alla bassetta, la differenza principale consiste nel fatto che qui è il giocatore a decidere la posta da giocare e non il
banchiere. E' considerato il gioco d'azzardo principe del secolo XVIII, citato da Casanova, vero e proprio costume sociale. Nel secolo XIX è apparso nell'America
del Far West col nome di faro.