Treccani - 5 gennaio 2023
La scomparsa del papa emerito, Benedetto XVI, ha riaperto uno scontro, all'interno della comunità ecclesiale, ma anche più generalmente nell'opinione pubblica,
sull'interpretazione della sua figura.
Mi pare che, per uscire da polemiche dettate da ragioni politiche e di politica ecclesiastica, sia opportuno cercare di
collocare il personaggio nella storia della Chiesa contemporanea. La questione, del resto, era già stata sollevata nel febbraio 2013, al momento della sua
inaspettata rinuncia al ministero petrino. Ma allora era stata egemonizzata dalla necessità di spiegare un atto che non aveva precedenti nella vicenda del papato in
età moderna e contemporanea.
Generalmente - e giustamente - lo si era interpretato come una svolta rispetto al processo di sacralizzazione della figura del pontefice che aveva lontane
radici storiche nel Medioevo, ma che era stato accelerato e intensificato in seguito allo scontro della Chiesa con il mondo moderno. Nella sua allocuzione Ratzinger
dichiarava infatti che rinunciava al governo della Chiesa universale in quanto non aveva più le capacità necessarie a dirigere un'istituzione ecclesiastica che
richiedeva forze superiori a quelle di cui disponeva. In tal modo restituiva alla figura del pontefice tutta la sua umana fragilità, sottraendola a quella sfera del
sacro, intangibile al fluire degli eventi, in cui era da secoli confinata.
Non c'è dubbio che sullo sfondo della sua decisione vi era la difficoltà di gestire una situazione molto complessa. Molteplici ne erano le manifestazioni: gli
scandali finanziari che coinvolgevano la Curia romana; la ripetuta consegna alla stampa di dossier segreti che, per quanto evidentemente incompleti, lasciavano
intravedere oscure lotte di potere tra membri di dicasteri vaticani; la moltiplicazione delle notizie sugli abusi sessuali del clero e sulle coperture di cui
avevano goduto nelle gerarchie. Ma restava pur sempre un dato di fatto: quel "sovrano pontefice", dotato di un potere monarchico assoluto, che nel suo programma di
governo aveva enunciato la necessità di rimuovere la "sporcizia" interna alla Chiesa, confessava che le concrete condizioni della sua persona non gli consentivano
di svolgere il compito cui era chiamato.
Diversi commentatori pronosticarono che la svolta sarebbe stata irreversibile. Lo confermarono del resto i primi atti del successore. Appena eletto Francesco si
presentava ai fedeli con un semplice «Fratelli e sorelle, buonasera», che negli Angelus domenicali sarebbe diventato un abituale augurio di
«Buon appetito». Inoltre, prima di impartire la benedizione ai fedeli radunati in piazza san Pietro, li pregava di invocare il Signore perché facesse
scendere su di lui le sue benedizioni. La stessa inedita compresenza di un "papa emerito" e di un "papa regnante" ha contributo a ridimensionare la tradizionale
immagine sacrale del papato.
Non c'è dubbio che Ratzinger si è ben guardato dall'offrire una sponda politico-religiosa a quanti miravano a utilizzare il nuovo ruolo che egli si era riservato
allo scopo di delegittimare il governo del papa in carica. Tuttavia, non ha mai rinunciato a esprimere su vicende ecclesiali in corso, la sua valutazione. Pur senza
mai contraddirla, a più riprese non è apparsa coincidente con quella del pontefice argentino. La possibilità che, allo stesso momento si presentasse una
differenziazione nell'esercizio della funzione papale - la voce del "papa emerito" non può essere ovviamente equiparata a quella di un qualunque teologo - ha
rappresentato un ulteriore tassello sulla via della desacralizzazione del papato.
Le dimissioni di Benedetto XVI hanno insomma segnato un passaggio rilevante nella millenaria storia della Chiesa. Tuttavia, il loro significato storico deve
essere misurato anche sulla più breve scala della vicenda del cattolicesimo post-conciliare. Ratzinger non è solo stato un protagonista del Vaticano II - come
perito dell'arcivescovo di Colonia, cardinal Frings, ha contribuito alla formulazione di alcuni dei più rilevanti documenti dell'assise ecumenica, come la
costituzione ecclesiologica Lumen gentium -, ma si è costantemente richiamato alle deliberazioni conciliari come il suo punto di riferimento nelle linee
d'azione adottate sia come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede durante il pontificato di Giovanni Paolo II, sia come papa. A quest'ultimo
proposito basta ricordare che nel corso dei suoi otto anni di governo della Chiesa il richiamo al Vaticano II ricorre nei suoi interventi 428 volte, più del doppio
dei riferimenti che nello stesso arco di tempo si trova nell'insegnamento pubblico di Francesco.
Alcuni osservatori, sulla base della notissima affermazione di Benedetto XVI, secondo cui i documenti conciliari dovevano essere interpretati alla luce
dell'ermeneutica della continuità, anziché di quella della rottura, hanno sostenuto che egli volesse affievolire la portata innovatrice di quell'evento. In realtà
Ratzinger non ha mai messo in dubbio l'obiettivo centrale per cui il Concilio era stato convocato: si trattava di presentare la dottrina cattolica in una
formulazione che potesse renderla accettabile all'uomo d'oggi. L'aggiornamento ecclesiale ha rappresentato uno scopo cruciale nei lunghi anni in cui egli è stato al
centro della gestione degli affari ecclesiastici. Ma dell'aggiornamento riteneva anche si dovesse fornire un'interpretazione precisa.
Ai suoi occhi essa corrispondeva ai risultati dell'assise ecumenica. Ha infatti affermato che l'immagine di un Vaticano II attraversato dallo scontro tra
diverse impostazioni era frutto di una invenzione costruita dai media, mentre in realtà i padri conciliari avevano sempre trovato piena convergenza nel delineare
quelle nuove forme di presenza della Chiesa nella società contemporanea che avrebbe ad essa assicurato un'efficace capacità apostolica. In realtà la ricostruzione
storica delle vicende conciliari mostra sempre più chiaramente che le cose non sono andate così. All'interno dell'assemblea si sono confrontate prospettive
teologiche e politico-teologiche assai diverse. Pur confluite in soluzioni di compromesso, sono rimaste ben visibili nei documenti alla fine approvati a larghissima
maggioranza.
Ratzinger ha insomma scelto una tra le diverse opzioni dell'aggiornamento prospettate dal Vaticano II. La si può individuare nella proposta di riprendere la
dottrina teologica elaborata dalla cultura cattolica otto-novecentesca - per cui la religione cristiana costituisce l'alimento insostituibile della civiltà umana -
integrandola con alcuni dei valori prodotti dalla storia degli uomini nel corso dell'età moderna. In questa visione si tratta di valori (ad esempio, i diritti
umani, la democrazia liberale, la libertà religiosa) che la Chiesa ha per un certo tempo combattuto perché venivano usati in chiave anticlericale o anticristiana,
ma che hanno la loro reale e profonda radice nel cristianesimo. Per questa ragione, oggi, gli uomini possono trovare la garanzia di un loro effettivo rispetto solo
nell'insegnamento della Chiesa.
Questa prospettiva si è tradotta nella presentazione della legge naturale, di cui la Chiesa è definita la sola autentica depositaria e interprete, come il
fondamento cui tutti gli uomini, sempre e dovunque, dovrebbero fare riferimento, per organizzare correttamente il loro consorzio civile. I "principi non
negoziabili" che ogni pubblico ordinamento avrebbe dovuto recepire rappresentavano la traduzione politico-culturale di questa impostazione.
Nel corso degli anni del governo ratzingeriano questa interpretazione dell'aggiornamento ecclesiale ha mostrato tutti i suoi limiti. La storia andava infatti nella
direzione di un allargamento della rivendicazione degli spazi di autonomia del soggetto, al punto che investiva non più solo l'assetto politico-sociale di una
collettività, ma le profonde strutture antropologiche della vita umana (come l'identità sessuale). Lungi dal trovare nella legge naturale un ancoraggio alle loro
istanze, i contemporanei vi vedevano un impedimento a raggiungerle. Un programma di rinnovamento pensato per rendere la Chiesa capace di comunicare il suo messaggio
all'uomo moderno si rivelava così un ostacolo insormontabile alla promozione della sua pastorale.
Le dimissioni di Benedetto XVI hanno rappresentato la lucida e responsabile presa d'atto di questo dato di fatto: l'obiettivo che il Vaticano II si era
proposto - rendere il messaggio della Chiesa attraente per gli uomini d'oggi ì era stato interpretato secondo schemi che non consentivano di realizzarlo. Non a caso
l'elezione di Francesco ha rappresentato un ritorno a vie dell'aggiornamento ecclesiale che erano depositate nei documenti conciliari, ma che erano state trascurate
nella visione di un mero ammodernamento della dottrina ereditata dagli ultimi due secoli.
Collocata nella vicenda ecclesiale dell'ultimo mezzo secolo, la figura di Benedetto XVI assume un rilievo storico ulteriore rispetto alla desacralizzazione del
papato che era apparsa evidente al momento delle dimissioni. La sua rinuncia rivela infatti l'impraticabilità di una strada che a lungo si è ritenuto potesse
risolvere la crisi del cattolicesimo nella modernità.