Testata Gazzetta
    Pezzi di storia

Ostaie
di Marisa De Barbieri

Gens ligustica in orbe – n.4/2003

Si fa presto a dire dialetto genovese: mai s'è vista lingua meno codificata; quando era capillarmente diffusa, si poteva distinguere dalla cadenza il luogo di provenienza, l'estrazione sociale e persino l'età, tante erano le variabili gergali. I vocaboli cambiano e possono essere completamente diversi nell'ambito di pochi disegno chilometri; un esempio: il roveto, cioè il cespuglio spinoso tanto comune nella nostra terra, è chiamato spinoin a Nervi, buschi a Molassana, çezà a Struppa, rasà a Cicagna, bocchi a Bonassola. Mi pare, comunque, che un termine sia uguale dappertutto, salvo la dizione desueta "fondaco da vin": ostaia.
Due sedie impagliate di legno di castagno all'aperto d'estate, un campo di bocce sotto un pergolato di uva morella, un ingresso senza insegna, tavoli di legno, sedie, un bancone, bicchieri di vetro, bottiglie da mezzo litro e da litro col collo che si allarga all'apice, alle pareti fotografia ingrandita dell'antenato, quaglia impagliata, quadretto della Madonna della Guardia, con sopra il parmà essiccato. Odore di vino e di tabacco. Esclamazioni sul campo da bocce quando il giocatore accosta con cautela la boccia al pallino, proprio ad un millimetro e poi il bocciòu vanifica tutto, con due balzi e una mira infallibile fa saltare il pallino e scombina tutte le distanze e i componenti le due squadre le misurano con due rametti affiancati, tirando ed allungando e definiscono il punteggio.
Urla dei giocatori di morra, che fronteggiandosi, assestano pugnazzi sul tavolo, estendendo ogni volta una o più dita e dicono la somma presunta delle dita loro e dell'avversario in un crescendo frastornante.
Silenzi tenebrosi dei giocatori di carte, interrotti solo da qualche seccata osservazione se il compagno non cala il carico al momento opportuno o non striscia o non vola, o ha solo frilli.
Chiacchiericcio degli sfaccendati che col cappello all'indietro, le gambe allungate, si raccontano le ultime novità della famiglia e del lavoro. In piedi, le braccia sulle spalle gli uni degli altri, le teste ravvicinate convergenti all'interno del cerchio che formano, i cantori di trallalero.
Tutti hanno in mano o vicino un bicchiere di vino, e giocano solo vino, mai danaro o altro. Raramente si mangia: nelle osterie del porto uova sode o acciughe salate fra due fette di pane. Ma nelle grandi feste d'estate, come Ferragosto, nelle osterie dei monti, si consumano anche trecento litri di vino e trenta dozzine di melanzane ripiene.
Uomini, solo uomini adulti; mai bambini, mai donne come clienti, le donne sono presenti come figlia o moglie dell'oste, a volte come titolare dell'osteria; in quest'ultimo caso una tazza di brodo caldo, un piatto di pomodori con origano ed aglio, una fetta di salame e un po' di pane sono garantiti.
Ce n'erano dappertutto di osterie. Un paese ne aveva praticamente in ogni rione, un grumo di case come Serra di Cicagna ne aveva quattro, ogni villaggio almeno una; anche singole, isolate case lungo le mulattiere avevano al piano terra una camera adibita ad osteria, dal Castelluccio di Cartagenova alle case Becco, dal monte Capenardo alle Capanne di Marcarolo.
Svolgevano un ruolo essenziale. Erano il cuore comunitario, il centro sociale, la via di scambio delle informazioni; erano, con la chiesa, le custodi delle tradizioni e della vita di montagna.
Molte, in un momento in cui una generazione fatica a passare la mano a quella che viene dopo, hanno chiuso, e a poco a poco sono implose su se stesse portando con sé, oltre che un mondo stremato e un'intera civiltà, anche, con le macerie, la memoria stessa della loro esistenza; altre, adeguandosi alle normative UE, che impongono innovazioni igieniche severe, si sono trasformate in trattorie. Sono raggiungibili in macchina, sono linde ed accoglienti e propongono i piatti della tradizione, offrono una giornata serena, un po' d'aria buona, un nostalgico tuffo nel passato e magari può capitare che si faccia una partita a bocce o che, ma molto raramente, un gruppetto di compagnoni si metta in cerchio e intoni un trallalero.

© La Gazzetta di Santa