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    Pezzi di storia

La storia delle "fasce" dei liguri
di Gaetano Rovereto

Le vie d'Italia – maggio 1924

Il ligure ha creato i propri campi
Io che vivo per la terra, e quelli che nella mia Liguria direttamente vivono della terra, hanno per le magre zolle del loro suolo un amore tanto vivo, che può solo essere spiegato dalla rarità della sostanza cui questa affezione si riferisce.

Vernazza Veduta di Vernazza e delle sue «fasce»
produttrici della rinomata «vernaccia»

Si guardi ai versanti scendenti precipiti nelle cupe acque del seno tirrenico; la durezza delle loro linee è la conseguenza di un dilavamento reso in modo d'eccezione energico dal forte pendio; di maniera che lo scheletro della impalcatura rocciosa da cui sono costituiti è alla superficie, e se uno strato di terra lo ricopre, questo è troppo sottile per essere continuo.
E questa terra il ligure amorosamente raccoglie, e, dopo avervi scelto sasso da sasso, l'accumula in ripiani sovrapposti, sostenuti ora da zolle erbose con abilità conteste, ora da muricciuoli di pietre a secco, ora da suoli di pietra alternati con altri di zolle. Il versante si riduce così ad essere tutto scalarato e rotto in tanti ristretti gradini, di altezza ineguale, che si allungano con irregolarità, cingendo il rilievo come le curve di livello di una carta topografica. Quella coltivazione mista e varia, a frutteto, vigneto e orto, costituente la villa, che lungo la Riviera, da Albenga alla Magra, rende tanto piacevole il paesaggio, è collegata a questi artificiali ripiani; e ne dipendono pure le coltivazioni dei fiori da Taggia a San Remo, gli oliveti della costiera tutta, i castagneti dei luoghi a ombrio, o in alta fascia sopra gli oliveti, e persino, qualche volta, i prati di alta montagna.

Cervo 1 «Maxere» del Cervo per la coltivazione dell'ulivo

Tutto il manto, quindi, della vegetazione culturale della Riviera, così vario di toni e di foltezza, si riconosce collegato al trasporto e all'ammassamento, fatto con arte, di poca terra. Questo enorme lavoro, opera di almeno due millenni, è forse la testimonianza più viva dell'energia di una razza che ha saputo vivere e prosperare in un paese di pietre, chiuso fra mare e montagna.
Le diverse denominazioni delle fasce
A seconda delle diverse regioni della Liguria, e col variare delle loro forme, queste spianature artificiali hanno denominazioni differenti. La più estesa e la più comune, in ispecie nel Genovesato, dal Bisagno alla Leira, è quella di fascia con i diminutivi di fascetta, fascin. A Genova la fascia tipica è sostenuta da muri a secco; se invece è sostenuta da un erze (alzata) o givà, ossia da una tessitura di zolle erbose (givi) ed è irregolare, è la zinn-a o proda (una parte per il tutto), che subito al di là dell'Appennino si muta appunto in proxa o proxia. A Voltri tanto le fasce come le zinne hanno lo stesso nome di fascia1.

Cervo 2 Con grande difficoltà nelle «fasce»
del Cervo si ara con buoi

Come si vede, questa terminologia vale per la regione occupata dalle tribù liguri del versante meridionale, ricordate dalla tavola di Polcevera2; dove vissero i Tigullii, ossia a Rapallo, la zinn-a prende il nome di seggio3 (d'ordinario usato al plurale, seggi), che è particolarmente applicato agli irregolari ripiani in cui sono piantati i castagni.
Nella Riviera Occidentale, oltre Savona, la fascia diventa la maxera o maxea, ossia il nome del macereto, rappresentato dal muro a secco, è esteso a tutto l'insieme.
Dove il declivio è minore, e la fascia molto si amplia, quasi ovunque prende il nome di ciann-a (piana) o di campo, con numerose variazioni di diminutivi e altro (ciannetta, ciannetti, campeggi, campetti, campeli, oppure: campo grande, campo lungo, campasso).
La ora ricordata tavola di Polcevera, che è il più sicuro fra gli antichi documenti della storia locale, quasi due secoli prima di C. ci fa conoscere i Liguri in una condizione di civiltà ben differente da quella nota per i classici; però questi hanno ragione dove descrivono il lavoro dei Liguri come duro e penoso.
La storia dell'olivo in Liguria
Ora, la coltivazione dei prodotti di cui la tavola bronzea fa menzione, è collegata alle fasce, e soprattutto alle zinne. Più alle maxere che alle fasce sono collegati invece gli oliveti; e poiché questi non pare che esistessero ai tempi dei Romani, bisogna concluderne che le maxere sono una particolare opera del medioevo.

Cervo 3 «Ciann-a» del Cervo con secolare oliveto

Lo Spotorno assicura che il più antico documento che si riferisce all'olivo rimonta al 1051, e che è di Moneglia, centro ricordato nell'itinerario peutingeriano (ad Monilia)4 e luogo, ancora nel 1224, secondo un documento pubblicato dal Ferretto, di un mercato de ramis palmarum, per usi, immagino, chiesastici. Un documento del 955, pubblicato dal Podestà, riflettente Montesignano in Val Bisagno, a poca distanza da Genova, parla di vigne, ficaie, castagneti, campi o terre arabili, boschi, saliceti, prati e pascoli, ma non fa ancora menzione di oliveti, i quali invece, sono menzionati in altro documento che si riferisce alla stessa località, ma che è posteriore di duecent'anni, ossia del 1158. E lungo la stessa valle la coltivazione dell'olivo, e quindi la fattura delle maxere o delle fasce si diffonde lentamente: nel 1143 non è ancora giunta ad Aggio, i cui abitanti devono all'Arcivescovo di Genova come decime, di tutto un po': galline, fieno, grano, confuochi (ceppi e rami d'alloro per il Natale), formaggio, giuncate (ricotte in giunchi), ma non olio; e nemmeno a Fontaneggi, i cui castagneti, collegati a seggi, ancora nel 1128 dovevano fornire alla comunità di Genova dodici mine di castagne; vincoli tutti che testimoniano colture, e quindi scassi, avvenuti in ager publicus, in epoca di non molto anteriore. Porcile nel 862 deve vino in anfore, grano, fieno, pollame, uova, solidos (?) e castagne5 (da documenti pubblicati dal Belgrano e dal Ferretto).

maxera Grande «fascia ciann-a» con maxera al confine

La storia del nome fasce
Meglio conosceremmo lo sviluppo delle fasce, se potessimo seguir l'uso di tale vocabolo con i documenti notarili. Ma questi purtroppo di continuo lo sostituiscono con quello di pecia e peciola, e qualche volta anche di tabula, quando non possono usare quello di campo.
Forse la fortuna della parola fascia deve essere del medioevo più tardo, e dei tempi posteriori, tanto più che nella toponomastica ha poche tracce, ed è un' eccezione nota a tutti i genovesi quella di M. Fasce, già ricordato in un documento del 1354 come Monte de Fascia de Pozolo, riferendosi quel pozolo o pozeu a una località di Canepa, e con probabilità a qualcuna delle doline carsiche che ivi esistono. Un Fasseto o Fasceto è ricordato di Sori dal notaio Salomone del 1222, ed è pure usata una sola volta dallo stesso la denominazione di macerie (traduzione di maxere) per menzionare il muro di una pecia.
Questo pecia non è interamente notarile, poiché a Rapallo è comune l'uso, come mi avverte Franco Scarsella, di indicare col nome di pesse gli appezzati di terreno che il contadino dei monti possiede nel piano.

Portofino I «seggi» (sul davanti a sinistra) e i «fascin» (in alto a destra)
di Portofino, scavati nel compatto e impervio conglomerato
di quel promontorio

Alla coltivazione dei castagneti in fasce va collegata la designazione toponomastica di ronco (ad es. a Mele), con tutta probabilità più antica di quella di fascia, che più non vive oggigiorno fra i liguri del litorale; ma che persiste nei liguri alpini, per indicare appunto un luogo scassato, a ripiani, in terreno roccioso.
Come ben si può comprendere, quando un terreno è arroncato di recente, e il suo assetto in fasce ha richiesto un grande movimento di terra, produce con molta abbondanza, e questa abbondanza è in particolar modo accentuata nel caso della vite. Poi, con l'assodarsi, e con il reiterato uso della sua parte più superficiale, a poco a poco perde di fertilità, e il contadino ligure sente allora la necessità di rimuoverlo in modo più profondo, di desfunduarlo, per ritornare alla fascia una coltre di terra rinnovata.
Come sì rinnovavano le fasce
I contratti medioevali di già ripetutamente accennano a questa funzione, che alla latina chiamano pastinare, vocabolo anche questo non solo notarile, ma anche volgare, perché esistono cognomi e località dette Pastine, Pastinello e simili, e più che proprio, perché uno degli attrezzi adoperati in questa bisogna era ed è il pastinum, ossia il bidente.

Torriglia Le «proxe» di Canova presso Torriglia
scavate nella falda detritica, ai piedi di Monte Prela (m 1407)

Il bidente o zappa biurca dei Liguri, il quale porta in Bisagno e in Polcevera il curioso nome di bagaggiu, che è forse prelatino, ha oggi cambiato alquanto di forma: una caverna del Finalese ce lo ha conservato nella sua foggia medioevale, quale servì, com'è probabile, nei bassi tempi a fare le fasce, foggia che ricorda altra usata ancor oggi in alcune valli piemontesi; e con il pastinum la stessa grotta ha salvato l'antico mazzabecco; non ha conservato nelle loro forme antiche la zappa mutta a estremità troncata e affilata per tagliar le radici, le marasse, le piccozze, i roncalini, ecc.
Il pastinare è un obbligo cui di sovente si accenna nelle locazioni medioevali, e va unito al propaginare, ossia al piantare nella terra smossa, sui margini delle fasce, o in filari trasversali ad esse, virgulti polloni tralci di olivi, di fichi, di viti. E altro obbligo è quello di rinnovare le maxere, ossia i muri a secco, che per vetustà rigonfiano e cadono, e di scegliere pietra da pietra in questo lavoro, per non adoperare quelle di troppo rapida disaggregazione. Queste maxere, date a cottimo, costavano nel secolo XIII sei soldi la cannella.

mazzabecco «Mazzabecco» medioevale, visto di prospetto
e di fianco, caverna
delle Arene Candide

Quando Camillo Raggi intorno al 1830 scassò le fasce e le piane di Fontaneggi, scelse fra le diverse varietà di calcare quella arenacea, detta volgarmente aegu o aegru, e le maxere da lui costrutte sono tuttora intatte. Quando Mons. Agostino Rovereto, circa la metà del secolo XVII, ridusse a villa un suo castagneto in Mele, dovette costrurre i muri in calcescisto, e questi resistettero per due secoli, poi a mano a mano cominciarono a diroccare. Dove non vi è pietra resistente, il continuo rinnovamento delle maxere è un difetto del fondo, che va a danno del suo valore, e questo un po' succede, ad esempio, per le fasce di Monte Fascia, dove non si ha che calcare marnoso.

bagaggiu «Bagaggiu» o bidente medioevale, caverna delle Arene Candide

Nei castagneti da frutto delle valli di Voltri, tutti con cura piantati in fasce sostenute da givè, e sostituiti, a cominciare per lo meno dal più antico medioevo a boschi di particolare aggregamento, quasi macchie, di castagni selvatici, di cui rimane qualche residuo chiamato il salvatico, all'obbligo del desfunduare va, o meglio andava unito, perché la malattia dell'inchiostro ha fatto cessare l'uso, quello della tagliata: ossia le piante dei castagni domestici, quando invecchiavano, venivano tagliate per tratti che si scassavano a nuovo, e di ciascuna ceppaia si lasciava una parte con la migliore radice. Dopo di che si seminava nelle fasce, e si ingrassava il terreno per cinque anni, ossia sino a quando il ceppo rimasto non avesse messo e cresciuto i suoi germogli, e questi fossero atti a ricevere l'innesto, e di questi germogli si sceglieva uno o due dei migliori, gli altri si troncavano. Attorno alla tagliata si lasciavano alcuni dei vecchi alberi, si tagliavano a capitozza e prendevano il nome di stoli (si ha il verbo stolare o stoulare che si direbbe voglia dire dar la forma di una stola): i loro gettiti dovevano servire per gli innesti o tessue (tessere): altre piante, tenute a cespuglio allo stesso fine, dicevansi tessuè, ma si trovavano piuttosto nelle ville.
E così, è tutto il medioevo con le sue eredità latine e prelatine che rivive nell'agricoltura ligure, che induce l'abitante dei campi ad attaccarsi alla terra, a rinunziare alle vicende delle rapine guerresche, o ai rischi del mare. Per questo la razza ligure si scinde: vive del mare solo una parte di essa, quella che di continuo ne sente la voce e ne vede il moto: a poca distanza dall'onda salata, entro le valli, il ligure è il contadino che indefesso arronca le magre fasce, che infaticato ricostruisce le aride maxere.


1 La x ligure si pronunzi j alla francese.
2 E' una tavola di bronzo (ora nel Municipio di Genova) che costituisce uno dei documenti più antichi e più rari dell'archeologia romana: è datata dall'anno 117 a.C. (637 di Roma), e risolve una questione che era sorta a causa di terreni dati a titolo eufiteutico dai Genovesi ai Veturi. La tavola fu scoperta per caso nel 1506 da un contadino mentre zappava un suo podere a Isola, di fronte a Pedemonte nella Polcevera.
3 E' curioso che tutti questi vocaboli non siano notati con i significati qui riportati nel dizionario genovese del Casaccia: essi hanno largo uso nella toponomastica e nella patronimica.
4 Come è noto la tavola Peutingeriana è una carta delle vie dell'Impero romano redatta verso il III secolo, ma conservatasi in una copia del 1264. Questa copia fu trovata a Worms da Corrado Celtes che la diede a Corrado Peutinger, celebre antiquario tedesco di Augsburg (1465-1547). Essa si trova attualmente nella Biblioteca di Vienna.
5 Che l'olio non fosse cosa comune in Genova ancora nel secolo XIII, si apprende dal notaio Salomone, i cui atti sono stati con molta opportunità pubblicati dal Ferretto. Nel 1222 un barile d'olio valeva da 15 a 24 soldi: nello stesso tempo con 31 soldi era possibile comprare l'ammobigliamento della casa di un artiere; una scrana piccola e altra grande, un'arca (cassone), una boda (sorta di stuoia) , due tavole e un saccone (per il letto), un brandario (alare), un barachame (coperta del letto), un lebete (calderotto, in allora di frequente in pietra ollare) grande ed altro piccolo, due tavole da pane (per intridere la farina), altra boda. Una mina di frumento valeva circa 7 soldi, una mezzaruola di vino 6 soldi, un ligacio o balla di lana lire 2 e soldi 2, due buoi lire 5, un mulo lire 12, un ronzino con vizi lire 3. Un libro de romanciis veniva impegnato per 3 libbre e mezza, un digesto per 47 soldi; un'operazione del mal della pietra costava 40 soldi.

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