Testata Gazzetta
    Pezzi di storia

Le Donne nell'antica società genovese
di Marcello Staglieno

Giornale ligustico di Archeologia, Storia e Belle Arti - V, 1878

Lettura nella seduta del 24 maggio 1878

I. Delle fanciulle, degli sponsali e dei matrimoni.
La nascita d'una femmina non era generalmente presso i nostri antichi, come non è fra noi, motivo di alcuna allegrezza in famiglia. Le fanciulle in essa consideravano come piante parassite da allevarsi per andar fuori, onde ai maschi tutte le preferenze; e mentre al nascere di uno di costoro, in ispecie se dipinto primogenito, usavansi solennità ed allegrie, conviti, e talora danze e festini, quasi mai ciò avveniva per una bambina, a meno che qualche circostanza straordinaria, quale per esempio la già avuta prole maschile od una lunga sterilità, la facessero desiderata e ben veduta.
Qualche venti o trent'anni fa, e meglio ancora più addietro, a quasi tutte le fanciulle si imponeva il nome di Maria, od almeno questo era il primo dei diversi nomi che si davano ad esse battezzandole; donde il proverbio, che a Genova tutte le donne fossero Marie come gli uomini Battisti. Ma anticamente non era così: negli atti anteriori al secolo XII questo nome non trovasi affatto.
La prima volta che appaja è del 1162; e se in appresso qualche volta si legge, fino al secolo XV è poco comune. Né ciò deve far meraviglia, ove si consideri che l'imposizione di tal nome si collega col culto della Madonna, e che questo cominciò ad estendersi fra noi con qualche particolarità soltanto nel secolo XV, dopo che venne innalzato un altare alla Vergine nella Cattedrale di S. Lorenzo. Ma quel che più vi contribuiva era la solenne dedicazione della Repubblica fatta nel 1637 a Maria Santissima, la quale era proclamata regina e sovrana di Genova e di tutto il dominio.
Comuni invece erano a quei tempi, e specialmente sino al secolo XIII, le Adelasie, le Agnesi, le Anne, le Alde, le Drude, le Giulie, le Richelde, le Sibilie, le Oficie, e cento altri nomi derivati dai Romani o dai Barbari, o cagionati da qualche particolare circostanza, come Bianca, Bruna, Beneincasa, Bonanata, Cesarea, Cara, Careta, Carabona, e simili.
Sembra però che intorno a questi tempi le donne non continuassero sempre ad essere chiamate col nome loro dato da bambine; ché quelli di Altadonna, Altafoja, Beaqua, Bonadonna, Domna Caprina, Domnesella, Donina da ben, Superbia, Bonafilia, Madrona, Leta, ed altri allusivi a qualità fìsiche o morali che non si potevano manifestare nella infanzia, come i soprannomi, sono certamente stati imposti in appresso.
Anche nei secoli seguenti le donne talora cambiavano di nome. Di ciò abbiamo non pochi esempi negli atti dei notari, ove si nominano spesso col nome vecchio e col nuovo. A tacermi di ogni altra, accennerò ad una del casato Dall'Orto, moglie nel 1477 di un mio ascendente in linea retta, il David de Staliano notaro e nel 1500 cancelliere del Comune; la quale in molti atti è indicata come in prima chiamavasi Agnese e quindi Pellegrina: Agnesia nunc vocata Pellegrina.
Di questi tempi e per qualche secolo appresso i nomi femminili più usitati, e che facevansi si può dir concorrenza l'uno coll'altro, eran quelli di Franceschetta, Brigidina, Pellegrina, Battistina, Margaritina, Benedittina , Sobranetta, Caterina, Mariola, ed alcuni ne appaiono piuttosto strani quali Bellaflos, Lino, Alterisia, Speciosa, Novellina. Né posso tacermi dall'osservare, che negli atti dei notari i nomi delle donne sono quasi sempre scritti nei loro diminutivi o vezzeggiativi; per cui anche quelli che male suonerebbero all'orecchio si presentano belli e graziosi.
Presso i nostri antenati i bambini passavano gli anni dell'infanzia nella casa paterna. Né a quei tempi, per quanto anguste fossero le vie della città, le abitazioni mancavano di aria e di luce; tanto più che non erano né così spesse ed ammucchiate, né poggiavano ad una straordinaria altezza come ora avviene; e tutte poi erano provviste o di giardini, o di cortili, o di logge, o di terrazzi. Le donne generalmente uscivano molto più di rado che non adesso; e dei bambini nessuno, finché non avessero almeno sette anni per andare alla messa, fatta eccezione per le straordinarie circostanze di processioni o simili, e per quei del popolo che vivevano nelle piazze e nelle strade, la più parte delle quali non erano decorate da tante botteghe, né frequentate da tanto popolo come oggigiorno.
Verso i sette anni pertanto, le fanciulle uscivano di casa per andare alla chiesa o colle loro madri od accompagnate da servitrici e pedisseque. A questa età si cominciava ad impartire loro qualche istruzione di lavoro d'ago, ed anco di leggere e scrivere; ciò s'intende per quelle di civile condizione, ché le altre, non appena erano in grado di farlo, aiutavano le madri nei lavori procurando guadagnare anch'esse qualche cosa.
Le istruzioni pei lavori e pel leggere e scrivere le ricevevano nelle case dalle madri o dai parenti, oppure in qualche monastero di femmine, ai quali nei secoli scorsi era ristretto, si può dire, il privilegio della educazione femminile.
Pochissima però era la parte che si assegnava alla cultura letteraria; ché mentre le nostre fanciulle si curavano moltissimo onde riuscissero valenti, come infatti riuscivano, nei lavori d'ago, nei ricami, nei merletti e nelle trine, in quella erano invece trascuratissime. Sino alla fine del secolo scorso era cosa rara che una donzella, anche delle più ragguardevoli della città, fosse in grado di scrivere correttamente una lettera, in omaggio alla massima generale che bastava alle donne di saper tanto da poter tenere la lista del bucato.
Né a questo era estraneo il timore, che il maggiore sviluppo nell'educazione delle fanciulle potesse porgere il destro di annodar relazioni capaci di osteggiare quanto a riguardo del loro collocamento avevano stabilito i genitori; ché essendo la sorte dei figli fissata, si può dire, irrevocabilmente da questi all'epoca del nascimento, difficilmente gli stessi ed in ispecie le figlie vi si poteano sottrarre.
Se in famiglia non vi era che una fanciulla, anche fra mezzo a diversi maschi, questa poteva benissimo nutrire speranza di essere condotta a marito; ma se ve n'erano più, quasi tutte venivano destinate al chiostro ne avessero o no la vocazione. Per ciò non appena uscivano dalla prima infanzia o si collocavano colà in educazione, onde abituarle a quella vita per poi rinchiudervele, o vi si mandavano a scuola, non tralasciando in famiglia, ne' discorsi e nel trattamento, di considerarle come altrettante monachelle della stabilita religione e del designato convento.
Tutti, specialmente negli ultimi tre secoli della Repubblica, avevano delle relazioni di parentela e di interesse con qualche monastero femminile. Di questi ve ne erano per qualsiasi classe sociale; per la nobiltà, per la borghesia, per il popolo, ed ognuno vi aveva delle zie, delle sorelle, delle cugine. Onde nei parlatori de' monasteri era un continuo andare e venire di persone, e le fanciulle vi erano mandate come a divertimento per visitare le loro parenti colà rinchiuse; le quali poi con tutti i mezzi, cercavano di allettar le giovani alla vita monastica o per propria convinzione, o perché indettate dai parenti, o se non altro per procurarsi il piacere dei dannati di essere tanti in compagnia. Onde le poverette, quando anche non vi si sentissero inclinate, a poco a poco si lasciavano indurre, ed una volta varcata quella soglia fatale la ferrea porta si chiudeva per sempre dietro le loro spalle.
Entro le pareti domestiche le fanciulle passavano la loro vita in donneschi lavori, e nelle faccende di casa secondo la loro condizione, e ne' momenti d'ozio, alla finestra o sulle loggie e sulle terrazze. Raramente intervenivano a spettacoli, a festini, a divertimenti, eccetto quelli che si proponevano pratiche di religione, come le processioni, i presepi, le similitudini; e ciò può anche spiegare in parte perché tanto appaiano devote le donne di quei tempi.
Le leggi suntuarie del 1440, rinnovate diverse volte e modificate negli anni successivi, che pretendevano frenare le spese immoderate e regolare gli abbigliamenti donneschi, permettevano alle donne dai sette ai dodici anni l'adornarsi d'ori e di gemme vietate alle donne ed alle piccole bambine. Ed una disposizione emanata nel 1571, forse riferentesi ad antiche consuetudini, considerava come un privilegio delle fanciulle, di qualunque età si fossero, lo intrecciar nei capegli quei sottilissimi fili di argento che dal loro brillante lucicare chiamiamo in dialetto brille; donde io credo sia derivata la costumanza di cospargere di esse brille, a modo di rugiada, i fiori destinati ad ornamento delle vergini defunte, ed il mazzo funerale che si pone ancora adesso sul feretro delle medesime.
L'età nubile per le donne, secondo il dritto romano, era stabilita a dodici anni; e le citate leggi suntuarie del 1440 stabilivano che le fanciulle giunte a detta età, per ciò che riguarda i vestiti, fossero come donne considerate. Questa era l'età valida per maritarsi anche a tenore delle leggi ecclesiastiche; e da allora, a quelle che erano destinate allo stato coniugale si concedeva un po' più di svago, non certo quanto adesso, ma oltre l'usato e secondo il comportavano le condizioni dei tempi.
Le fanciulle di civile ed anche di ben modesta condizione, andando fuori, erano sempre accompagnate dalle madri o da altre parenti o donne di età matura che invigilavano sopra di loro. Alle schiave, alle fantesche, a quelle del più basso stato sociale soltanto era permesso andar sole. Ciò facendo, le donne tutte, e specialmente le giovani e le fanciulle, erano esposte a mille pericoli. I giovanotti galanti di quei tempi erano meno educati del dì d'oggi; ché rapire una donna a solo scopo di abusarne era cosa comune anche fra i più ragguardevoli della città.
Nei secoli XVI e XVII le fanciulle distinte per nascita e per ricchezze erano minacciate talora anche da un altro guaio; quello cioè di essere abbracciate e baciate di sorpresa in pubblica via, o di sentirsi metter le mani sul seno da giovani di inferiore condizione, che cercavano in questo modo di comprometterle, per obbligare i parenti a concederle loro in ispose; onde le leggi dovettero sancire pene a frenare il malo costume.
Per ciò se in quanto all'uscir fuori, all'andare a passeggio o ad altri divertimenti, piuttosto rare erano le volte in cui intervenissero le ragazze, queste se ne compensavano largamente ad ogni occasione che loro si presentasse, e giornalmente poi stando alla finestra ed alle loggie, ed intrecciando intrighetti amorosi e pettegolezzi donneschi, così comuni a chi vive una vita priva di occupazioni dello spirito.
Ma dove aveano agio di divertirsi a loro talento era nelle villeggiature. Ivi campagnate, merende, cene, danze, festini; ai quali con tanta più di ansietà partecipavano le donne, e particolarmente le fanciulle, quanto maggiore la vita ritirata che erano costrette a vivere in città.
Nei secoli XVII e XVIII, nei quali era grande la corruzione dei costumi ed artificiale di molto la vita che le signore dovevano condurre in città, legate come erano da mille convenienze, e sorvegliate dalle leggi suntuarie, è nelle ridenti colline di Albaro, di Sampierdarena, della Polcevera, delle due riviere, ed anco d'oltre l'Apennino, ove le donne immensamente si divertivano, godendo allora una libertà e sfoggiando un lusso che anche al dì d'oggi sembrerebbero eccessivi.
Profittando delle favorevoli circostanze, spesso le fanciulle in campagna si inoltravano con relazioni amorose non sempre coronate da esito felice; ché la più parte, contratte con inconsideratezza giovanile, erano cagione di tardo pentimento e di lagrime amare. Imperciocché avendo i genitori altrimenti disposto di esse, non appena se ne accorgevano, o le chiudevano in monastero, o ad altre nozze, poco importa se riluttanti, le costringevano.
In questa materia l'jus romano delle XII tavole era in tutta la sua crudezza usato, ché il padre disponeva a suo arbitrio della prole sia vivo che morto, avendosi dei testamenti ove è stabilito quale de' figli e delle figlie debba maritarsi, quale farsi monaca o frate; né questi atti mancano talora di costituire dei procuratori incaricati della esecuzione delle paterne volontà.
Sino da tempi antichissimi occorrono atti di sponsali fatti da genitori di figli in età infantile; né rari sono quelli dove è promessa la fanciulla bambina ed ancora lattante, come fece il 24 marzo del 1485, con atto del notaro Cristoforo Rollero, un Giovambattista De Ghirardi per sua figlia Ginevrina di appena un anno, con un Paolo Berardo giovanotto che avea già oltrepassato i venticinque anni, e che perciò all'epoca del matrimonio doveva essere relativamente già vecchio.
In mancanza del padre gli ascendenti od i fratelli disponevano delle sorelle, assegnando, ben s'intende, alle stesse la minor dote possibile; ché le leggi essendo tutte a favore dei maschi, nessun diritto avevano esse di legittima sull'asse paterno.
Quanto si dava per dote ad una fanciulla consideravasi in certo modo come sottratto alla famiglia; e quando in progresso di tempo più equi principii, vincendo gli inveterati pregiudizi, fecero sì che nella pratica le doti si accrescessero, le leggi informate alle antiche consuetudini venivano a moderarle, considerando questa tendenza come un abuso donde potea derivare la rovina delle famiglie. Nel 1542 al primo di ottobre era fatto un decreto appunto contro le doti eccessive, e si stabiliva che da chicchessia non potessero costituirsi in somma maggiore di tre mila scudi d'oro del sole da sessantanove soldi per scudo.
Le promesse di matrimonio, ossiano gli sponsali, generalmente si facevano in modo privato. Se di queste trovansene nei rogiti notarili, ciò è per quelle ove il lungo intervallo che doveva correre fra essi ed il matrimonio, o qualche altra particolare circostanza, richiedeva ne constasse per atto pubblico. Quando erano contratti in tal modo vi si stabilivano pure le doti e si fissavano le arre o pene per i mancanti alla data parola.
Abbiamo però esempi ove per questi si fecero due atti separati, come per la Giovannina figlia del Conte di Carmagnola qui fidanzata mentre egli era governatore di Genova pel Duca di Milano. Di essa, con atto del 24 luglio 1424 suo padre faceva promessa a Riccardino de Angosciolis figlio di Giuliano, piacentino, presente all'atto, e che l'accettava promettendo di sposarla. Poi con atto successivo del 14 agosto lo spettabile Isnardo Guarco, che fu il combinatore di questo matrimonio, e che si dice amico comune delle parti al quale entrambe si rimisero, dichiara le doti della fanciulla in due mila cinquecento ducati d'oro, oltre le vesti, le gemme ed il corredo come le parti convennero. Piacemi di citare questi atti, perché ci danno il nome di una figlia del Carmagnola e ci offrono contezza degli sponsali di lei: nome e sponsali rimasti ignoti finora a tutti i genealogisti.
Per le promesse fatte individualmente dagli sposi bastava, secondo il diritto canonico, che essi avessero compita l'età di anni sette; ed alcune ne abbiamo registrate negli atti dei nostri notari contratte poco dopo di questa età.
Fra le altre accennerò a quelle di Giorgio D'Oria del quondam Gherardo e Pellegrina Doria del quondam Domenico, fatte nel 1478, ove lo sposo avea tredici anni e la sposa nove compiti, celebrate con l'intervento dei rispettivi parenti, essendosi convenuto che si sarebbe effettuato il matrimonio giunti che fossero all'età legale, e fissante le arre in lire due mila, il tutto con l'approvazione del Governo.
Ma la più parte, come sopra dissi, si contraevano privatamente; e così pure quasi sempre privatamente si promettevano le doti, delle quali poi solo constava per l'atto di ricevuta fattane dallo sposo compite le nozze. Oppure, fatti gli sponsali in modo privato, si redigeva dal notaro l'atto di promessa o costituzione della dote. Di questi atti abbiamo un'infinità nei nostri archivi. A modo di curiosità, fra molti accennerò ad alcuni perché riguardano illustri personaggi e ci possono somministrare qualche notizia finora sconosciuta sopra i medesimi.
Primo sarà quello della nostra S. Caterina, sotto la data del 13 gennaio 1463 in rogito di Oberto Foglietta, concluso nelle vicinanze di S. Lorenzo e precisamente in una casa dei Fieschi posta nel vicoletto del Filo. Intervennero all'atto lo sposo Giovanni Adorno, la madre della sposa, Francesca Di Negro vedova di Giacomo Fiesco, e Giacomo e Giovanni Fieschi fratelli di Caterina, oltre due merciai vicini chiamati per testimoni.
La dote è di un migliaio di lire, di cui l'Adorno promette far istrumento celebrato il matrimonio, assicurandola sopra una sua casa nella contrada di S. Agnese. In essa dote però sono comprese lire ottocento promesse dalla madre della sposa, quattrocento in luoghi di S. Giorgio ed abbigliamenti da soddisfarsi a richiesta, e le altre entro due anni, restando intanto assicurate sopra una casa in detto vico del Filo, dove essa Di Negro ha investito le proprie doti, e dove intanto Giuliano colla moglie e la famiglia potranno recarsi ad abitare per detto tempo.
Come si vede la circonlocuzione dell'atto è abbastanza intricata e confusa; ma chiaro appare che la dote data dalla madre e dai Fieschi era di sole lire ottocento e che l'Adorno prometteva accrescerla di altre dugento.
Il secondo atto concerne Bianchinetta Terrile, sposa dell'infelice Paolo da Novi, e si legge ne' rogiti di Lorenzo De Costa sotto la data del 26 di marzo 1468, al suo banco notarile posto nel Palazzo del Comune.
Da questo apprendiamo che i tre fratelli Luca, Marco e Giacomo Terrile del fu Marino assegnavano alla promessa sposa del doge futuro, allora tintore in seta, lire trecento novanta, computatevi duecento di un legato paterno, delle quali si obbligavano a pagar subito centosettanta in danari contanti, e centoventi in vesti ed ornamenti della fanciulla, e le rimanenti entro di un anno.
L'ultimo atto che citerò è della moglie del rinomato pittore pavese Francesco Sacchi, della quale finora fu sconosciuto il nome ed il casato. Questo era dei Masenna; ed essa chiamavasi Moisola o Moisetta, figlia di un Giacomo che alla data del contratto, 6 novembre 1510 in notaro Vincenzo de Reggio, già figura come morto, mentre ancor vivo appare il Giovanni Antonio padre del pittore. Ambrogio Masenna, fratello della Moisetta, a suo nome ed a nome di Agostino e di Geronima suoi fratello e sorella ancora minori, assegna le doti in lire seicento formate da una casa nella contrada di S. Ambrogio e da tanto corredo per lire cento. L'atto è conchiuso nella contrada degli Squarciafico, nello studio dello spettabile Giacomo Spinola il quale pure interviene come testimonio.
In nessuno degli atti succitati è notato l'intervento della sposa. Lo stesso era affatto inutile, trattandosi di interessi nei quali essa non poteva interloquire. E per le obbligazioni che contraeva verso di lei il futuro marito accettavano il padre od i congiunti, ed a cautela il notaio come pubblica persona. E così è in tutte le assegnazioni o promesse di dote, eccetto quelle dove è costituita dalla sposa medesima o già maggiore di età e priva di genitori e con patrimonio a sé, od in posizione insomma legale per poterlo fare.
Oltre la dote spesso nel contratto si stabiliva anche, come vedemmo, l'ammontare del corredo, delle gioie e dei gingilli, jocalium, secondo la condizione degli sposi; né qualche volta si ommette una cassettina ornata e pulita corredata più o meno di ori e d'altri adornamenti donneschi.
In atto del notaro Parisola del 26 febbraio 1502, Teodorina vedova De Via promette di dare alla figlia sua capsietam unam a sponsis fulcitam condecenter secundum gradum ipsorum jugalium. Lo stesso è in altro del 1505, nello stesso notaro, pel contratto della figlia di un coltellinaio con un barbiere, ove nonostante la modesta condizione dei contraenti e la esiguità delle doti, lire 200 fra vesti robbe e denari, non si oblia capsietam unam sponsalem fulcitam.
Oltre a questo poi vi si stabilivano tutti i patti e le condizioni che erano stati combinati, dei quali non farò cenno perché poco differenziano da quelli dei nostri giorni.
Di uno però, registrato in atti di Cristoforo Rollero sotto la data 10 aprile 1488, non posso tacermi perché abbastanza stravagante ed in opposizione agli attuali costumi.
Ivi un Domenico Deferrari, fabbro, promette a Giovanni Genzano, fabbro anch'esso, sposo di Teodorina sua figlia, le doti di costei in lire 400, compreso il corredo, le argenterie ed i gingilli da pagarsi dopo quattro anni, intervallo frapposto alla celebrazione del matrimonio. Fin qui nulla di strano; ma dove questo appare si è che il buon genitore si obbliga a tenere insieme con sé sotto lo stesso tetto ed alla stessa mensa i fidanzati per tutti i quattro anni, provvedendo la fanciulla dei necessari abbigliamenti, ed accogliendo anche in bottega il futuro genero, col patto espresso che questi non possa sposare definitivamente la Teodorina prima del termine convenuto, ma debba comportarsi con essa castamente ed onestamente, che altrimenti, cioè traducendola a nozze od abusando di lei, poteva mandarli via entrambi di casa e bottega, ed essere libero da ogni obbligo, meno la dote dopo gli anni citati.
Forse la molto giovane età degli sposi, o qualche altro motivo, a noi ignoto, avrà consigliato quel padre ad una simile convenzione. E' certo però che al dì d'oggi difficilmente troverebbe dei sottoscrittori.
Nella combinazione dei maritaggi avevano gran parte gli amici comuni, e talora anche i sensali. Dei primi vedemmo un esempio nel contratto nuziale della figlia del Carmagnola, e moltissimi se ne trovano indicati o individualmente o in genere in altri atti. I sensali poi erano in Genova, perché città commerciale, professione da tempi antichi estesa ad ogni genere di contrattazioni e lucrosissima; onde non è da far meraviglia che ve ne fossero anche occupati particolarmente in combinare matrimoni, a fine di ricavarne la mediazione. Ed i nostri antenati, che in materia di tasse non la cedono a noi tardi nepoti, iscrivevano sui registri delle avarie questi sensali, perché pagassero le contribuzioni sopra i loro guadagni. Compulsando le antiche carte si trovano i nomi di parecchi. A me basti accennare un Bartolomeo Lomellino, indicato nel 7 febbraio 1380 come sensale del matrimonio di un Matteo Cicogna colla figlia del fu Antonio Fiesco, e tassato per questo nella somma di lire quattro di quei tempi.
In epoche a noi più vicine anche i preti ed i frati si occupavano grandemente dei matrimoni. Il lucchese Francesco Maria Fiorentini, che verso la metà del secolo scorso visitava Genova, segnala nei suoi scritti quali incaricati di tal faccenda i Chierici della Madre di Dio, e specialmente ancora i Gesuiti. E dalle stampe fatte in Roma, pure verso quell'epoca, per lo scioglimento del matrimonio celebratosi nel 1726 fra il Principe Giovanni Andrea D'Oria, allora Conte di Loano, con Giovanna Maria Teresa D'Oria figlia del Duca di Tursi, si conosce che appunto un sacerdote si era adoperato grandemente in concludere quell'infelice maritaggio.
Vittorio Alfieri poi, in altra delle sue poco note commedie, intitolata il Divorzio, dove intende stimmatizzare i costumi italiani ed in ispecie genovesi, essendone l'azione figurata in Genova sulla fine del secolo scorso, pone un prete a trattare il matrimonio della figlia del suo padrone, presso cui trovasi come precettore. Né questo carattere ha alcun che di esagerato, ché negli ultimi due o tre secoli della Repubblica i membri del clero, come appare anche dai citati atti per lo scioglimento del matrimonio D'Oria, avevano una grandissima parte negli intimi avvenimenti delle nostre famiglie; e tanto più quanto erano ragguardevoli e doviziose, imitando costumi, certo non lodevoli, derivati dalla Spagna.
Dal momento che una fanciulla era fidanzata, le leggi suntuarie le accordavano una maggiore larghezza ne' suoi abbigliamenti. Un decreto della Signoria del 6 febbraio 1440 ingiungeva alla commissione preposta a dette leggi di stabilire che fosse permesso alle fanciulle fatte spose e non ancora condotte a marito, l'usar generi di vesti e gioielli proibiti alle altre donne. E questo diverso trattamento si vede accennato in tutte le disposizioni che si seguirono sopra detta materia.
Dopo gli sponsali viene naturalmente il matrimonio.
Parlando di questo, noi che generalmente siamo avvezzi ai ragionari dei moderni scrittori di cose religiose, i quali in questo atto solenne della vita riguardano soltanto il sacramento, e ce lo descrivono come circondato in ogni tempo da sacre cerimonie, difficilmente possiamo concepirlo valido e legale anche in faccia alla Chiesa, fatta astrazione da quelle e senza l'intervento di un sacerdote.
Eppure la cosa è ben diversa. Presso i nostri avoli il matrimonio era privo affatto di cerimonie religiose, non vi assistevano i sacerdoti, e ciò nonostante primeggiava il suo carattere di sacramento.
Lo stesso compievasi generalmente in casa della sposa, alla presenza di amici e di parenti, ed in tale occasione avean luogo banchetti, festini ed altre allegrezze secondo la maggiore o minore agiatezza delle famiglie.
Gli sposi erano vestiti di abiti nuovi, che quindi indossavano durante lor vita nelle più solenni circostanze. In molti bandi dei secoli XIV e XV, fatti per convocare i principali cittadini a processioni o ad altri pubblici festeggiamenti, è prescritto che debbano indossare le vesti nuziali, allo stesso modo che al dì d'oggi vediamo indicato l'abito nero e la cravatta bianca.
Talora quando qualche particolare interesse richiedeva che del matrimonio constasse per atto pubblico, vi interveniva un notaro, che lo registrava ne' suoi rogiti. Ma di ciò non era bisogno alcuno per la validità del medesimo. Infatti, se moltissimi contratti colla presenza notarile si trovano nei fogliazzi, relativamente al numero dei matrimonii che devono essere stati fatti si vede però sempre che sono una minima minoranza.
Il Cav. Belgrano nella sua Vita privata dei genovesi, sulla fede di uno di questi atti colla data del 30 dicembre 1304, emetteva il dubbio che fosse già allora fra noi conosciuto il matrimonio civile; e lo stesso pure dicono altri scrittori, essendosi di consimili atti trovati anche in diverse parti d'Italia.
Ma il matrimonio civile, nel senso in cui lo ammettiamo noi di contratto dinanzi alla laica autorità, nulla ha che fare con questi atti; e se qualche somiglianza vi si trova, è solo dall'esser dessi privi dell'apparato religioso e della presenza del sacerdote. Invece nella loro essenza ne differenziano, non essendo l'attuale dalla Chiesa riconosciuto come sacramento, mentre l'altro lo era presso i nostri antenati. Ben inteso prima della pubblicazione del Concilio di Trento.
Il matrimonio si contraeva esprimendo gli sposi la loro volontà o consenso. Quantunque non in tutti gli atti di matrimonio per verba de presenti redatti dai notari siano indicate le formalità che erano in uso, limitandosi i più ad accennarle in genere, pure alcune essendo ora in uno ora in un altro segnate, colla scorta dei medesimi si può stabilire quanto segue.
Avanti tutto gli sposi erano interrogati da altro degli intervenuti, che pare non fosse mai il padre od altro parente da cui avessero immediata dipendenza. Se eravi un notaro, un qualche magistrato, un sacerdote, un ragguardevole personaggio insomma, era compito suo. Prima ad interpellarsi era la fanciulla, la quale, come ancora adesso si costuma nelle campagne, per far pompa di pudore si faceva ripetere la domanda due o tre volte, pronunciando un timido . Le vedove che si rimaritavano, e quelle per le quali il matrimonio veniva a sanare una illegale posizione di stato, rispondevano alla prima, senza aspettare la seconda e la terza interrogazione. Lo stesso faceva lo sposo, più o meno francamente secondo la voglia che ne aveva.
Espresso il consenso, gli sposi si davano la mano, si abbracciavano e si baciavano; indi lo sposo poneva l'anello in dito alla sposa, e l'atto era compito secundum ritum Sanctae Romanae Ecclesiae et consuetudinem civitatis Januae.
Verso il principio del 1471, due giovani spagnuoli innamorati cotti l'uno dell'altro e contrariati dai parenti fuggirono dalla loro patria e fermarono stanza fra noi. Qui, passata la prima foga dell'amore, pensarono seriamente ai casi loro, e considerando che se è umana cosa peccare è angelica l'emendarsi, a tranquillar la coscienza risolsero di regolare la loro posizione e di diventare legittimi marito e moglie, secundum quod institutum fuit a Sacrosancta Romana Ecclesia ac ipsius fidem et legem.
Credete voi che perciò ricorressero al vescovo, al parroco, ad un sacerdote, ad alcuno insomma rivestito di religiosa autorità? Tutt'altro. Chiamati a convegno alcuni amici che erano dei principali della città, in casa loro posta nella contrada del Campo contrassero il matrimonio secondo il sopra accennato formolario, interrogandoli Paride Fiesco ed essendo testimoni Borruele Salvago e Giovanni Pinelli.
Perché poi del fatto potesse in ogni tempo constare da pubblico documento, vollero presente il notaro Lorenzo Costa, che lo registrò ne suoi fogliazzi colla data del 7 marzo 1471, giorno in cui fu celebrato.
Un altro esempio. Certo Giovanni di Val di Stura conviveva con una Caterina, già schiava presso distinte famiglie, la quale lo regalava di parecchi figliuoli. Egli le aveva promesso di sposarla, e tenevasi vincolato in coscienza, anzi in certo modo con lei segretamente ammogliato. Ma vero e legittimo matrimonio non aveva mai con essa contratto. Così trascorsero parecchi anni, finché volendo mettersi in regola et matrimonium in faciem Ecclesiae palam et publice contrahere, fece venire in sua casa in via da S. Siro il notaro Domenico Conforto, ed alla di lui presenza, sulle interrogazioni di certo Picembono speziale loro vicino, chiamati per testi due sarti, anch'essi loro vicini, addì 4 settembre del 1546 compivano l'atto secundum morem et consuetudinem Sanctae Romanae Ecclesiae con tutte le richieste formalità.
Potrei moltiplicare gli esempi, che molti di tali atti abbiamo nei rogiti; ma me ne astengo essendo più che bastanti i due succitati.
Presso il volgo poi vigeva la consuetudine che espresso il consenso gli sposi fossero aspersi di vino, del quale, ben inteso, facevansi ampie libagioni: uso derivato da vecchi riti, che prescrivevano gli sposi bevessero alla stessa coppa, e dei quali resta ancor traccia nel contado ove ogni negozio o contratto si suole sanzionare con tracannare di molti bicchieri. E la benedizione degli sponsali fatta col vino insieme alla credenza di considerarli per questo come validi matrimoni, si mantenne ancora fra il popolo per molto tempo, nonostante le prescrizioni del Concilio di Trento pubblicato fra noi nel 1567 dal Sinodo Pallavicini, come lo prova quello di monsignor Sauli del settembre 1588, ove si accenna a tale abuso e si insiste perché venga estirpato.
Anche il matrimonio contraevasi talora per procura, specialmente da parte dello sposo. Di questo doveva però constare per atto pubblico o per lettera, che si inseriva nell'istrumento notarile. Le formalità erano le stesse come se fatto di presenza: ugualmente avevan luogo le interrogazioni per due o tre volte alla fanciulla ed al delegato dello sposo, ugualmente si stringevano le destre, come pure costui le poneva in dito l'anello, e talora anche l'abbracciava, ma certo non la baciava come il vero sposo faceva.
Non rari poi sono i casi in cui lo sposo incaricava più d'uno di questa faccenda, come avvenne nelle nozze di Teodorina figlia di Simone Negrone con Giorgio dei Vivaldi, il quale per trovarsi a Palermo, faceva procura in due suoi amici, Oberto Spinola del fu Luciano ed Agostino Cattaneo pure del fu Luciano. Costoro addì 28 febbraio del 1522, in atto del notaro Giovanni Costa, sposavano a nome del commitente la fanciulla, le davano l'anello e l'abbracciavano ac se dicti contrahentes mutuo amplexi sunt.
Altro caso di due procuratori, vediamo nello stesso notaro sotto la data del 12 maggio 1522. Ivi Geronima figlia del fu Vincenzo Fiesco si marita con Gerolamo Grimaldi rappresentato da Giovanni Battista ed Ambrogio suoi fratelli, i quali abbracciarono la ragazza per di lui conto: in signum etiam contracti matrimonii se mutuo amplexi sunt.
Quantunque il matrimonio per procura fosse e sia tuttora riconosciuto ed ammesso dalle leggi canoniche, agli occhi dei nostri antichi non aveva tutto il desiderabile grado di validità e di legalità; ché in quanti furono da me trovati, vedesi segnato in calce l'atto di ratifica, od a meglio dire la rinnovazione del matrimonio coll'istesso e completo formulario d'uso. Talora anche il procuratore all'atto prometteva a nome dello sposo che questi lo avrebbe ratificato o rinnovato, come se si trattasse di semplici sponsali e non di vero matrimonio per verba de presenti.
Come esempio di matrimonio per procura, rinnovato personalmente dallo sposo, indicherò quello del 16 luglio 1579 in atto del notaro Andrea Rossano, di due fratelli De Castello con due sorelle De Vivaldi. Nel quale per l'assenza del Giacomo, altro degli sposi, supplì come procuratore il Giovan Battista suo fratello, che prima sposò la Maddalena per costui, e poscia l'Annetta per sé. Ma venuto in Genova il vero sposo dopo poco tempo, ai 5 del mese seguente ratificavasi il matrimonio, procedendosi a nuove interrogazioni ed espressioni di reciproco consenso. Ed è a notarsi che chi fece le interrogazioni in entrambi gli atti fu il reverendo Matteo De Fabris, del quale si tace la qualità, se cioè le facesse come amico di casa o parroco. Eppure era da dodici anni dacché il Sinodo Pallavicini aveva dichiarato in vigore il Concilio di Trento.
Compito il matrimonio, dopo i conviti, le feste e gli altri divertimenti aveva luogo la traductio, cioè l'andata della sposa alla casa del marito. Solennità importantissima che dava sanzione al matrimonio, non sembrando questo inappuntabile finché la sposa non era entrata sotto il tetto coniugale.
D'altronde contraendosi privatamente le nozze in casa della sposa, era solo per mezzo della traductio che la cittadinanza veniva ad esserne fatta partecipe, e così in grado di potere in ogni tempo testimoniare delle medesime. Onde, come già avvertivo poco innanzi, a quei matrimoni nei quali, per essere gli sposi già assieme conviventi o per altro motivo, la traductio non poteva aver luogo od era differita, interveniva il notaro per constatare il fatto con atto pubblico, ed occorrendo darne la prova.
La traductio pertanto compendiava in sé tutta la solennità delle nozze, ed il matrimonio istesso; ed è ai festeggiamenti di essa che si volle alludere nella proibizione di nozze solenni fatta dal Concilio di Trento per alcuni tempi dell'anno.
Nella circostanza della traductio, specialmente se trattavasi di famiglie illustri e doviziose, il popolo faceva calca per ammirare la sposa, il vicinato accorreva alle finestre; ed essa si partiva in mezzo agli addii, agli augurii di felicità ed alle acclamazioni, ed a concerti di musicali strumenti dai quali spesso era accompagnata la comitiva. A tutto questo naturalmente si univa l'inconsiderato e gaio brulicare dei fanciulli, pronti a cogliere ogni occasione di far gazzarra e confusione. E ad essi nei tempi antichi, seguendo un vecchio costume romano, distribuivansi nocciole, onde ancora adesso la locuzione quando mi darai le nocciole, detta ad una fanciulla, equivale a chiederle: quando sarai sposa? Di che pure è nato il proverbio: pane e noci, mangiar da sposi.
L'uso di distribuir nocciole nelle nozze vige ancora in qualche luogo del contado; ma fra noi a poco a poco fu sostituito dalle nocciole confetturate e quindi da ogni genere di confetti, che attualmente si mandano ai parenti ed amici in eleganti cartocci ed in ricche bomboniere.
Prima dell'uso delle lettighe e delle portantine, cioè anteriormente al secolo XVII, la sposa andava a casa del marito a piedi od a cavallo, con grande accompagnamento di parenti e d'amici, e col corteo di paggi e servitori. Di questo le leggi suntuarie del secolo XVI si occuparono; ché del 1571 trovo vietato che le spose fossero accompagnate da più di dodici cittadini, e da quattro servi compreso il paggetto.
Così pure intorno a questi tempi costumava che le vesti che doveva portare la sposa in detta occasione si mandassero alla di lei casa qualche giorno prima, non già in una cesta piegate e coperte, ma con grande apparato di nastri ed altri adornamenti sostenute da certe assicelle, onde apparissero diritte e distese come se fossero indossate, presso a poco quali le vediamo ora nelle vetrine dei magazzini di mode, ed affatto scoperte perché ognuno potesse ammirarne la bellezza e lo sfarzo.
Ciò pure fu vietato dalle leggi nel 1571; ma queste come le precedenti dell'accompagnamento e moltissime altre proibizioni di simil genere vediamo pubblicate replicatamente per diversi anni successivi; segno evidente che non erano mai osservate.
In molte parti d'Italia era costume che nell'andata della sposa a casa del marito, da amici e parenti di essa si fingesse impedirla facendo il così detto serraglio, ridottosi in ultimo alla formalità di far cerchio intorno alla stessa; dal quale solo poteva liberarsi dando in pegno uno smaniglio, un anello od altro gingillo, che poscia portato a casa del marito veniva da questi riscattato con una somma che la brigata spendeva in una cena od in altra allegria. Rifiutandosi la sposa di dare il pegno, o cercando il corteggio di sforzare il passo, nasceva una collutazione nella quale la persona della fanciulla era presa di mira, allo scopo di portarla via e d'obbligare lo sposo ad andarla a riprendere per così venire a patti.
Com'è facile immaginare, talora da questa usanza nascevano inconvenienti grandissimi; onde le leggi vennero a frenare siffatti giuochi, i quali a poco a poco andarono in disuso o limitaronsi a simboliche formalità.
Di questa costumanza del serraglio non trovansi notizie positive fra di noi; ma l'essere nelle più volte citate leggi del 1440 proibito a chicchessia, uomo o donna, da serio o per gioco, di nascosto o palesemente, il condur via la nuova sposa dalla casa del marito, mi fa sospettare che anche in Genova qualche cosa di consimile si usasse anteriormente al secolo XV.
Generalmente la traductio si faceva il giorno stesso del matrimonio, o dopo due o tre giorni. Qualche rara volta si differiva ancora di più per particolari ragioni.
In tali casi però se urgeva che il matrimonio non offrisse alcun appiglio per essere disfatto, era costume nei secoli XV e XVI che immediatamente dopo la celebrazione gli sposi si ritirassero e rinchiudessero da soli in qualche camera, ritornando dopo un po' di tempo; e con ciò il matrimonio si considerava come consumato.
Né mancano esempi di matrimonio della cui contrattazione si fece rogito da notaio, ove dopo la redazione dell'atto è notata la circostanza che gli sposi si ritirarono o furono lasciati soli per qualche tempo, e quindi tornarono alla presenza del notaro e de' testimonii che tramandarono ai posteri la notizia del fatto.
Che questo poi fosse una semplice formalità od un'allegoria come l'abbracciarsi degli sposi, il por l'anello in dito alla fidanzata, che si ritengono quali simboli dell'atto materiale di presa di possesso, non puossi ammettere; almeno in tutti i casi, ché da qualche occorso risulta chiaro che era o poteva essere una vera consumazione di matrimonio. Ne citerò uno in appoggio.
Nel 1510 i parenti allontanarono dalla casa di Geronima vedova di Antonio de' Sale (forse della famiglia che in tempi a noi più vicini si estinse in quella dei Brignole) una costei figlia a nome Minetta, di non ancora tredici anni, collocandola coll'autorità del Senato presso Battista dei Gropallo; e ciò perché la madre passata a seconde nozze con Lodisio dei Magnasco aveva in animo di sposarla, contrariamente ai loro desideri, con un giovane di diciotto anni figlio del suo secondo marito. Mentre la fanciulla era nella villeggiatura del Gropallo in Castelletto, al dopo pranzo del 14 settembre la madre con un'altra donna andò a trovarla, e trattenendola con discorsi bel bello la fece allontanare di colà, conducendola nella strada del Campo in casa sua e di suo marito, ove alla presenza del notaro Cristoforo Rollero le fece contrarre il matrimonio col giovine prescelto. E perché il tutto fosse compito in modo che non ammettesse scioglimento, chiuse i due giovani assieme in una camera lasciandoveli soli un buon quarto d'ora, il tutto come appare dall'atto notarile che fu redatto.
Se restassero sorpresi i parenti saputa la cosa ognuno lo può immaginare. Ma o perché la fanciulla non era creduta libera nel suo consenso presa così di sorpresa, o perché l'atto porgeva qualche appiglio da essere dichiarato nullo, come tale si volle impugnato. Quel che però ad essi cuoceva per l'onore della Minetta, era l'essersi trattenuta chiusa nella camera collo sposo quel quarticello d'ora, onde prima di andare oltre volevano conoscere positivamente come era andata la cosa.
In affare di tanta delicatezza ricorsero al confessore di essa, e gli si diede incarico di destramente interrogarla e di ricavarne la verità.
Addì 20 settembre pertanto costui, che era il Padre Urbano da Savona dei Predicatori di S. Maria di Castello, andò colassù dove pure trovossi il notaio Vincenzo De Franchi-Reggio, e dopo aver interrogata per bene da solo a sola la Minetta, faceva in atto di detto notaro il suo rapporto corroborato dalla di lei attestazione.
Da questo i parenti, e certo con loro soddisfazione, poterono conoscere come ad eccezione di qualche piccola libertà presasi dallo sposo, null'altro era avvenuto. In qual modo sia poi andata a finir la facenda finora non ho trovato. Ma quanto già si conosce è bastante a provare come la indicata circostanza non poteva essere sempre una semplice formalità.

II. Delle maritate, delle vedove e delle seconde nozze.
Entrata la novella sposa nella casa del marito, altri banchetti si apprestavano a festeggiare la di lei venuta. Era la volta dello sposo e della costui famiglia, i quali dovevano far grata accoglienza a lei che entrava allora a farne parte.
E questa costumanza dei banchetti in occasione di nozze, che noi vediamo usata in ogni tempo e presso tutti i popoli, doveva aver preso presso di noi, nel secolo XV, proprio il carattere di un eccesso, sia pel replicarsi dei medesimi, sia pel gran numero dei convitati, vedendo le leggi affaticarsi in moderarla.
Colle stesse infatti si stabiliva che non più di due conviti avessero luogo in casa del padre della fanciulla, nel primo dei quali lo sposo potesse condurre sino a due amici, e nel secondo non più di otto. Per quelli poi in casa del marito, era vietato che avessero luogo fuorché ne' primi tre giorni, cioè domenica, lunedì e martedì: la qual cosa conferma quanto si conosce da diversi altri riscontri, che cioè la traductio generalmente si facesse di sabato o di domenica; dopo avessero da cessare, assieme ad ogni altro festeggiamento nuziale.
Dalle stesse leggi poi conosciamo che in occasione dei maritaggi era uso regalarsi la sposa dai parenti e dagli amici, e contraccambiarsi costoro di gingilli, di manicaretti o di vini e d'altre bevande: usanza che nonostante le leggi fatte a frenarla, sopravvisse sino ai dì nostri.
Non sempre però le leggi erano fatte per moderare le spese delle nozze, ché qualche volta trovansene di quelle deliberate apposta in senso contrario.
Infatti a' 15 maggio del 1408 la Signoria concedeva che per le feste nuziali del nobil uomo Lorenzo De Albertis di Firenze, da farsi nei successivi giorni di domenica, lunedì e martedì, 20, 21 e 22 di maggio, fosse permesso alle donne adornarsi di perle a loro talento, ed a tutti, uomini e donne, portar vesti di panni e stoffe d'ogni qualità e taglio, senza essere molestati dai collettori delle gabelle. Oltre a ciò, concedevasi che potessero esser chiusi da appositi tavolati i vicoli conducenti alla piazza dei Banchi, dovendosi dare in questa non so quale spettacolo di giuochi e sollazzi; con che però il tutto fosse rimesso nello stato primitivo a spese degli ordinatori della festa, liberando per detti giorni i banchieri dall'obbligo di tenere aperti i loro banchi.
Cotesti festeggiamenti fatti in maggio, mi rammentano un proverbio che sconsiglierebbe gli sposalizi in tal mese dicendo: di maggio si maritano gli asini, dettato certo derivato da antichissimi pregiudizi, leggendosi in Ovidio:
Mense majo, malas nubere vulgus ait.
Al quale però non si bada oggidì più molto, sembrando alle nostre fanciulle ancor pochi per maritarsi i dodici mesi che abbiamo. Né pare che diversamente la intendessero le antiche, ché oltre i precitati esempi del matrimonio del De Albertis, e della Geronima Fieschi con Gerolamo Grimaldi fatto per procura, altri ne abbiamo contrattatisi in maggio, fra i quali pur quello del già nominato Paolo da Novi, come dirò fra breve.
La prima notte che la sposa doveva passare assieme col marito fu sempre oggetto di particolari cerimonie presso tutte le nazioni. Tralascerò di parlare di ciò che altrove praticavasi, quantunque vi siano delle costumanze abbastanza curiose, né talora prive dell' intervento religioso come si può vedere in qualche antico rituale; e per quel che praticavasi da noi, dirò soltanto che nel secolo XV era uso che lo sposo non giacesse colla sposa finché non fossero compiti i festeggiamenti ed eseguita la traduzione, e che spesso, come sopra ho accennato, usavasi anche sottrarre la stessa alle ricerche del marito facendola uscire e dormir fuori del tetto coniugale. La qual cosa forse è reliquia di più antica costumanza, che le leggi vietarono, e di cui non hassi più memoria in appresso.
Nel secolo XVI poi e nei seguenti a cura di amici e di parenti usavasi ad alta notte fare la serenata, suonando concerti di musicali instrumenti sotto alle finestre degli sposi, o più comunemente ancora la mattinata, cioè eseguendo gli stessi concerti nelle prime ore del mattino, accompagnati talora da salve di archibugi e moschetti, le quali se hanno che fare colla musica e col diletto, Giovanni Andrea Spinola scrittore di quei tempi, se ne rimetteva al ridere di Democrito.
Non mi tratterrò perciò sulla costumanza la quale voleva che la suocera od altra vecchia parente andasse al mattino per tempo, e prima che gli sposi fossero alzati, a bussare alla porta della loro camera, portando ad essi non so che brodo o cordiale; come tacerommi di altre bizzarre e spesso indecenti usanze, delle quali trovasi ancora qualche traccia presso i nostri contadini e nella parte più bassa della popolazione.
Al domani della traductio, cominciavano le visite che le amiche e le parenti si affrettavano a fare alla sposa: visite per cui fuggivano di casa, come dice il citato Spinola, i suoceri ed i mariti, e così continuavasi per parecchi giorni finché essa usciva per restituirle.
Questa prima uscita della sposa era anch'essa aspettata con particolare curiosità dal vicinato e dai conoscenti, sia per ammirare la donna negli abiti da maritata, come per altre femminili indagini; per cui i primi passi che muoveva fuori di casa costituivano un'altra specie di solennità.
Tali noiose costumanze e formalità si mantennero fra noi si può dire sino a dì nostri, non avendo cominciato a cessare che nei primordi del presente secolo, in cui gli sposi che erano in grado di farlo, per liberarsene, cominciarono dall'espediente di passare i primi giorni della loro unione in campagna, e quindi, come si costuma adesso, facendo un viaggetto di diporto.
Oggidì, da tutti coloro un po' agiati che contraggono maritaggio se ne spedisce la partecipazione stampata ai parenti ed agli amici delle due famiglie. Questa usanza fra noi è recentissima, né risale di molto oltre la fine del secolo scorso, e sino alla metà del presente era, si può dire, esclusiva della nobiltà e delle altre famiglie che le andavano di paro.
A poco a poco si diffuse a tutte le classi, ed attualmente prese un'estensione, specialmente relativa alle persone alle quali si distribuisce, che quasi diventa una ridicolezza.
Nei tempi antichi la solenne andata della sposa alla casa del marito suppliva alla partecipazione. Poscia si faceva a voce; e nel secolo XVII i novelli mariti appartenenti alle famiglie che si volevano distinguere e sulle altre primeggiare, andavano di persona a dar parte del contratto matrimonio al Doge, all'Arcivescovo, all'Ambasciatore di Spagna e ad altri personaggi; e dalla importanza che annettevano alcuni a questi atti, lo Spinola già citato prende occasione di dar loro la baia.
Colla traductio spesso lo sposo portava seco a casa anche la dote. Talora invece gli veniva pagata effettuata la solennità; ed il marito ne faceva la debita ricevuta, che negli ultimi tempi chiamavasi controcarta.
Innumerevoli sono questi atti di ricevute di doti che si trovano nei rogiti notarili, ed in molto maggior numero che quelli delle costituzioni dotali. La ragione ne è ovvia; ché mentre per le promesse di dote spesso suppliva la semplice parola o la scritta privata, appodixia, dovendo in regola generale passare poco tempo dalle promesse al matrimonio, nella ricevuta si preferiva l'atto pubblico, per tutte le possibili conseguenze, che spesso non potevano verificarsi prima della morte di altro dei coniugi, e perciò in epoca presumibilmente remota. D'altronde pagandosi la dote, quasi sempre, quando il matrimonio era completo, e colla traduzione della sposa non poteva più patire eccezione, l'atto di ricevuta serviva in ogni tempo, in mancanza di altro documento, a far fede del contratto matrimonio.
Nemmeno a quest'atto era necessario che fossero presenti la sposa o i di lei parenti. Il marito faceva la dichiarazione della dote ricevuta, e per la moglie e gli altri aventi diritto accettava il notaro.
Coll'atto istesso, quando non era stato fatto in quello degli sponsali od in altro precedente, lo sposo dichiarava pure l'ammontare dell'antefatto o donazione che era stata pattuita, o che voleva largire alla moglie.
Circa questo nome di antefatto (antefactum), osserverò che il P. Spotorno fu d'opinione doversi leggere piuttosto antefatum, cioè avanti la morte, quasi fosse una donazione fra vivi, e non antefactum che nulla secondo lui vorrebbe significare; e questa interpretazione da molti fu adottata.
Ma dessa a me non soddisfa, sembrandomi impossibile che in tutti gli atti dove è scritta, dal 1130 sino agli ultimi tempi della Repubblica, quanti notari e legulei che si successero, abbiano potuto commetter l'errore di scriver antefactum invece di antefatum. Per cui sarei d'avviso che almeno fra noi questo donativo, che in certo modo potevasi considerare come una donatio propter nuptias, si chiamasse antefactum, perché come questa, in regola generale non poteva farsi che prima del contratto matrimonio.
Nei rogiti di Giovanni Scriba stampati fra i Monumenta Historiæ Patriæ, si possono leggere moltissimi atti di ricevuta di doti ed altri ov'è stabilito l'antefatto sia prima come dopo delle nozze, e così formarsi un'idea della loro varietà. Io ne citerò solo due più recenti, cioè del secolo XV.
Il primo è nei fogliazzi del notaro Lorenzo Di Costa, e con questo il già citato Paolo da Novi, al quale nel marzo del 1468 fu, come vedemmo, promessa la dote della sposa Bianca Terrile, dichiara di averla ricevuta da' suoi cognati il dì 13 maggio successivo, per cui è a ritenersi che il matrimonio siasi effettuato a' primi di maggio. Ed egli era già, come dichiara nell'atto, maggiore di 25 anni e separato di interessi da Giacomo suo padre.
L'altro è del pittore Francesco Deferrari di Pavia, per le doti di Tobietta figlia del fu Urbano da Tortona, moglie sua iam traducta, le quali ebbe da un Giovanni Maria fratello della sposa, in lire 200, facendo alla stessa antefactim seu donationem propter nuptias de libris centum januinorum secundum consuetudinem seu formam ordinamentorum civitatis Januæ.
Anche il pittore è maggiore di venticinque anni, e faciente i fatti suoi indipendentemente dal proprio padre Bartolomeo, il tutto come appare dall'istrumento del 18 aprile 1471 nei rogiti del citato Lorenzo Di Costa.
Come ognuno può aver rimarcato, nel primo di questi atti non si parla di antefatto, mentre nell'ultimo è stabilito secondo le leggi. Il risultato però era il medesimo, come vedremo più avanti parlando dei diritti delle vedove sui beni del marito.
Secondo l'antico diritto romano la donna, maritandosi, cadeva tanto nella podestà maritale che più non conservava alcuna personalità: conveniebat in manum viri. In progresso questo principio così assoluto ebbe qualche maggiore larghezza nella sua applicazione, ma non tanto che la donna non fosse sempre, durante tutta la sua vita , sotto una continua tutela.
A questa massima erano informate le nostre leggi, le quali se permettevano che la donna potesse obbligarsi e contrattare, richiedevano per la validità dell'atto l'intervento del padre o degli ascendenti e tutori se fanciulla, del marito se maritata, de' congiunti se vedova, ed in mancanza di essi dei vicini, i quali dovevano giurare come erano nella convinzione che l'atto era fatto a di lei vantaggio e non ne avrebbe potuto aver danno.
Le donne per le loro doti godevano di ipoteca privilegiata sopra i beni del marito, per cui erano pagate prima degli altri creditori. Siccome però se da tempo antico, conoscevasi la ipoteca che obbligava i beni, era ignota la pubblica registrazione della stessa, mediante la quale resta in modo certo stabilito l'ordine progressivo dei creditori sopra gli stabili ipotecati, allorquando il marito era sulla via di andare in rovina, le donne dovevano ricorrere alla Signoria per avere il permesso di conseguir l'estimo sopra i di lui beni, cioè di averne assegnata una parte per le loro doti ed antefatto; la qual cosa facilmente ottenevano.
E queste disposizioni tutte si mantennero sino alla fine del secolo, e caddero col cadere della Repubblica.
Nei tempi antichi quando la società era di costumi più semplici e patriarcali, l'aver molti figliuoli costituiva una ricchezza per i genitori. Ma cresciuti il lusso e le sociali esigenze, il gran numero di essi si andò considerando come causa di depauperamento delle famiglie. E ciò tanto più fra noi, quando collo stabilimento delle primogeniture si voleva far ricco un solo a perpetuare il nome del casato, e gli altri erano destinati a miseramente vegetare. Onde, come dice chiaramente lo Spinola già citato, che viveva nel secolo XVII, alle grandi famiglie rincresceva l'aver molti figliuoli.
A sollievo però de' genitori ricchi di figliolanza, le leggi accordavano franchigie dalle gabelle; e questo privilegio ridotto negli ultimi tempi ad una sovvenzione pecuniaria, si mantenne sino a' principii del secolo corrente.
Il curioso poi si è che ne' secoli XIV e XV nel computo de' figli per essere esenti dalle gabelle, i padri annoveravano anche quelli che potevano aver procreati fuori del matrimonio. Su questo riguardo i tempi trascorsi erano meno schifiltosi dei presenti, ne' quali spesso genitori agiati, per un male inteso decoro, abbandonano alla sorte la prole illegittima, aiutati in ciò dalle leggi che sembrano fatte per favorire simili atti. Ben sovente accadeva allora, che assieme ai figli legittimi il padre allevasse i naturali; né era cosa strana che a costoro pubblicamente provvedesse e li chiamasse del suo cognome.
I privilegi poi onde erano dotati dagli imperatori e dai pontefici i numerosi conti palatini o del sacro romano impero, aprivano facile via alla legittimazione di ogni figlio, nato dal più dannato congiungimento; e numerosissimi sono gli atti dove persone di ogni ceto sociale, dall'infimo alle più alte dignità civili ed ecclesiastiche, riconoscono e fanno legittimare i loro bastardi.
Altra particolarità di quei tempi era che le donne quando si avvicinavano al tempo di partorire, e specialmente se per la prima volta, facevano il loro testamento. E ciò spiega perché siano molto più numerosi i testamenti fatti dalle donne che quelli degli uomini.
Il motivo di questo atto era per disporre delle loro sostanze a favore delle proprie famiglie pel caso che esse morissero, e che ai loro parti toccasse pure tal sorte, prima di superare l'età infantile, o senza aver discendenza.
Difatti in tali testamenti, dopo le consuete disposizioni per i funerali ed i legati per opere pie o per ricordo ai parenti, o di benemerenza alle persone di servizio, disposto spesso dell'usufrutto a .favore del marito, sono chiamati eredi o in genere il ventre pregnante, o i figli nascituri maschi e femmine, in quella proporzione che la donna meglio desiderava. Ma eravi sempre la condizione che morendo costoro in età infantile, o prima di accasarsi, o senza figli, dovesse l'eredità passare a qualche parente della testatrice.
Spesso accadeva che non pensando la giovane sposa in istato di gravidanza a far testamento, e per motivi di delicatezza o pel timore che si spaventasse ed avesse ad incoglierne male, non volendo alcuno sollecitarla a tale atto, fra i parenti della moglie ed il marito si concordavano speciali convegni relativamente alle doti ed ai beni di essa, verificandosi le sopra dette circostanze della morte di lei e de' suoi figli. Ben inteso che tali testamenti e convenzioni non avevano più effetto, od erano rivocati in progresso di tempo, vivendo la donna nel consorzio maritale ed avendo figliolanza già inoltrata in età.
Una delle principali cure dei nostri antenati fu mai sempre quella di farsi ricchi, ed al più presto possibile.
Appassionatissimi perciò furon sempre di tentar la fortuna, giuocando ad ogni genere di giuoco d'azzardo; e se non andavano in Borsa era per la sola ragione che la Borsa anticamente non esisteva.
Usavano invece le scommesse, le quali ne' secoli XVII e XVIII si facevano sopra gli avvenimenti politici, sulla morte dei papi, imperatori, re, ed altri illustri personaggi, sull'esito delle guerre e d'ogni impresa guerresca, per cui giornalmente ognuno andava a far la sua passeggiatina a Banchi e per i ponti del mare, onde raccogliere le notizie e così regolarsi.
Più specialmente davano motivo a scommesse le elezioni dei nostri dogi e degli altri magistrati della Repubblica. Anzi da queste ripete origine il giuoco del lotto, cagione di tante diatribe de' moderni economisti, ma che intanto è una tassa bella e buona pagata da volontari contribuenti: invenzione tutta nostra, nata all'ombra della torre di Palazzo e del campanile di S. Lorenzo, d'onde poi si sparse in altri luoghi.
Oggetto poi di scommesse generali, alle quali potevano prender parte anche coloro che non si occupavano di politica, erano le donne , sia per i matrimonii che avrebbero potuto contrarre più con uno che con un altro, e dentro un termine fissato, come per la loro fecondità, scommettendosi se avrebbe la tale fatto o no figli in un dato tempo, o se, essendo gravide, il parto si sarebbe verificato più maschio che femmina.
Anzi le scommesse fatte sulle donne gravide, chiamate col nome particolare di redoglio, erano, specialmente nel secolo XVI, diffuse presso ogni classe di persone, e causa di riprovevoli inconvenienti, tanto che la religiosa autorità venne colla sua sanzione a riprovarle.
Un editto infatti del Vicario Arcivescovile stampato in data del 7 gennaio 1588, dichiarandole cagione di morti e di rovine, le proibisce sotto pena di peccato mortale. Quale intromissione del Vicario in simil faccenda, non puossi altrimenti spiegare che come una lodevole condiscendenza dell'Arcivescovo alla richiesta del Governo, per frenare gli eccessi di un giuoco, che invero dovevano essere deplorabili.
Ma nonostante queste ed altre proibizioni, e l'essere espressamente vietate dagli statuti, consimili scommesse si mantennero per molto tempo, cessando a poco a poco, col diffondersi del giuoco del lotto, che divenne la passione generale del popolo e delle donne, di quelle del volgo in ispecie.
Le nobili però in giuocare non erano da meno delle altre, ché le relazioni dei viaggiatori, che furono in Genova, e molti biglietti di calice conservati nelle filze Secretorum e dei Collegi, ed altri documenti accennano a questa passione delle signore le più ragguardevoli, nella quale spendevano delle egregie somme.
Il giuoco più diffuso fra tutti e da esse preferito, era quello del lotto reale o biribissi, che continuò, quantunque dalle leggi vietato, a formare l'occupazione delle nostre serali società sino alla metà del secolo presente. Né sono ignoti ai raccoglitori di artistiche curiosità le bellissime tele che per farlo si spiegavano sul tavolo attorno a cui sedeva la compagnia, ove nelle rispettive caselle assieme ai corrispondenti numeri sono dipinti, da qualcuno dei nostri primari pittori, gli oggetti voluti dal giuoco, come figure, stemmi, animali ed altro, il tutto in vivi colori, con finissimi ornamenti, riquadri ed arabeschi, qualche volta persino lumeggiati ad oro, come richiedevasi in oggetto su cui si dovevano posar le mani eleganti delle donne e dei cavalieri.
Usanza pure di quei tempi era che le donne avessero un bracciere, detto anche cicisbeo, la qual cosa è comune a diverse città d'Italia e venne tanto derisa dagli stranieri.
Non è mia intenzione di qui addentrarmi su tale soggetto, per esser notissimo e da molti trattato. Osserverò soltanto circa la sua origine, che probabilmente ciò avvenne dal principio che le donne non dovessero mai andar sole; per cui essendo invalsa la moda di spesseggiare nell'uscir di casa, né potendo sempre il marito prestarsi ad accompagnarle, trattenuto o da pubblici o privati affari, si incaricava alcuno che lo supplisse. La era pertanto una carica che davasi a persona di condizione inferiore, e che accettava per questo un salario. Infatti nelle spese per i nostri ambasciatori all'estero è notata questa del bracciere, pagata co' denari del pubblico.
In progresso la si volle circondare coll'aureola della galanteria; e certo deve aver dato luogo a gravi inconvenienti, quando a' braccieri pagati sottentrarono i cicisbei eleganti. Ma io credo che tale aureola sia stata di molto accresciuta dalle moderne apprezziazioni.
In un libro stampato a Colonia nel 1769, col titolo L'Espion Chinois, si riportano otto articoli che formano il codice del cicisbeismo fra noi; e contengono tali condizioni che non rendono molto onorifico, per un cavaliere che si rispetti, l'esercitare la professione di cicisbeo. E la stessa cosa confermavasi dal già citato lucchese Francesco Maria Fiorentini, che diceva: il mestiere di servire dame a Genova è mestiere da lacchè vestito in mantelletta.
Relativamente al costume del secolo XVIII, osserverò ancora come l'abate Richard, che stampò una descrizione dell'Italia nel 1766, dice che a Genova erano molto comuni i processi di scioglimento di matrimonio per impotenza. E lo dice in modo da lasciar credere che il tribunale ecclesiastico, al quale spettò sempre decidere sopra questa faccenda, si lasciasse indurre con danari a pronunziare la insussistenza del vincolo.
Io non ho dati sufficienti per definire se tale imputazione abbia o no fondamento. Quel che però già mi occorse di segnalare, è che invero intorno a quei tempi furonvi diversi matrimonii della più alta aristocrazia dichiarati nulli per tale motivo.
Fra tutti menò gran rumore il processo del Principe Giovanni Andrea D'Oria colla principessa Teresa D'Oria, figlia del Duca di Tursi, la quale dopo dieci anni di coabitazione col marito impugnò il matrimonio dichiarandosi ancora vergine; onde nonostante le affermazioni del Principe e le molte prove recate in contrario, si chiuse con una sentenza di nullità pronunciata addì 3 marzo 1741 da Benedetto XIV, basata sul fatto della non consumazione per impotenza del marito.
Dalla qual taccia volendo egli purgarsi ed insieme provvedere alla continuazione della famiglia, nel 1743 sposavasi colla nobil donna Eleonora Carafa figlia di Fabrizio duca d'Andria, la quale dopo un anno, ai 2 dicembre del 1744, lo fece padre di un figlio distinto col nome di Andrea IV. E questi è il grand'avolo dell'attuale principe e della principessa Olimpia, della quale in questi giorni appunto celebrossi in Roma il matrimonio con don Fabrizio Colonna.
Per tale questione di scioglimento si pubblicarono dalle parti molti atti e documenti, che riuniti assieme formano ben quattro volumi in quarto, ove discendesi a molti intimi particolari sopra la vita dei litiganti, in relazione al punto della controversia, e costituiscono una indecentissima pubblicazione, tanto che al suo confronto i più osceni racconti dei novellieri sembrerebbero trattati di morale.
Tolto ciò, sono di molto interesse per farci conoscere infinite particolarità sulla vita ed i costumi delle ricche famiglie nobili genovesi, e sull'ibrida educazione che davasi alla gioventù maschile di quei tempi.
Per quel che riguarda poi le donne e le cose femminili, ci apprendono come la Principessa era usa andare spesso a Pegli da Genova a cavallo in abito maschile, comprovando con ciò quanto si sa anche da altri riscontri che le donne allora spesso si compiacevano di cambiare abito indossando quello del sesso forte, per cui diversi anni prima avevano trovato molto dilettevole in carnovale travestirsi da abatini, e così andare galantemente a trovare le loro amiche per la città.
Apprendesi pure dai detti atti che il Principe e la Principessa nei reciproci discorsi davansi sempre del voi, come costumossi ancora dai nostri nonni, che nelle lettere scritte quando non era in rotta con lui, la Principessa si sottoscriveva sempre devotissima serva od usava altra dichiarazione consimile, donde appare che nelle intime relazioni avevano gran parte le convenienze a pregiudizio dell'affetto. E ciò oltre molti altri dettagli, che presi isolatamente possono sembrare inutil cosa, ma nel loro assieme servono a darci la fisonomia di quei tempi, e che io ommetto per non dilungarmi di troppo dall'argomento.
Le donne restando vedove oltre al ricupero delle doti ereditavano, in forza delle antiche consuetudini di Genova, il terzo sui beni del marito, avessero o no figliuoli.
Questa disposizione, secondo scrive il Varagine, fu abolita nel 1143, onde le donne acerbamente se ne dolsero come di cosa ad esse pregiudizievole, per cui a compensarle del danno, fu stabilito che le dotate in meno di dugento lire dovessero ereditare sull'asse del marito quanto corrispondeva alla metà della dote, e avessero cento lire senza più le altre che erano dotate in somma maggiore. La qual disposizione si chiamò legge dell'antefatto: parola di cui, come dissi più sopra, si ha già notizia da atti del 1130, e che fu adoperata al caso presente in cui si regolarono sopra nuove basi i diritti della moglie all'eredità del marito, mentre prima non indicava che le donazioni fatte dal medesimo a cagione delle nozze, le quali pure rimasero in vigore, non dovendo la legge dell'antefatto legale essere applicata che in mancanza del convenzionale. Oltre a ciò, le donne avevano diritto sulla eredità del marito ad una somma per procurarsi le vesti vedovili; la quale somma, secondo lo Statuto, non poteva eccedere in Genova lire venticinque e nel resto del dominio lire cinque.
Ma la vedova colla restituzione delle doti e dell'antefatto non acquistava la piena libertà di disporne; ché ad ogni atto, anche di semplice procura, occorreva, come già dissi, la presenza di due parenti giuranti che l'atto non era a lei di pregiudizio ma di vantaggio.
In mancanza di parenti, perché lontani dalla città e da un dato raggio di miglia all'intorno, o perché essendo essa bastarda o liberta non ne avesse, erano chiamati i vicini. I quali pure potevano intervenire con autorizzazione del giudice, ove i parenti per qualche ingiusto motivo si fossero rifiutati. In somma, il solo atto che le donne potevano fare durante tutta la loro vita, senza tale controllo, era il testamento, giunte che fossero all'età legale, e ciò sino che fu in vigore lo Statuto genovese.
Come a tutti è noto, il passare a seconde nozze, disciolti dalla morte i primi legami, non era nei primi tempi guardato dalla Chiesa con occhio benevolo, sembrando contrario all'ideale del perfetto cristiano.
E questo tanto più per le donne, le quali particolarmente lodavansi se perseveravano in istato vedovile conservando fede al defunto marito.
Di ciò porge testimonianza Tertulliano, il quale a dissuadere sua moglie dal rimaritarsi rimanendo vedova, dice che la disciplina della Chiesa ed il precetto dell'Apostolo che proibisce di sollevare i bigami alle dignità della Chiesa e che vieta sia ordinata una femmina maritata due volte, fanno vedere quanto le seconde nozze pregiudichino alla fede e facciano ingiuria alla santità.
Se a questa ragione religiosa si aggiungano quelle di interesse, pei figli od i parenti del primo letto, i quali dalle seconde nozze dei genitori possono trovar motivo d'essere pregiudicati, non fa meraviglia che i secondi matrimonii, in regola generale, fossero fatti senza le consuete solennità dei primi, ma il più spesso quasi cosa rea, di soppiatto, onde togliersi in certo modo alla vergogna inerente ad una mala azione, ed alle risa ed ai motteggi degli interessati e dei curiosi.
Da ciò è facile comprendere come sia nato, e quanto sia antico il costume, tuttora vivo fra noi nel volgo e nelle campagne, di fare una serata di chiasso, o, come dicesi, di suonar le tenebre con pentole, caldaie, ed altri arnesi di metallo o di cotto, sotto alle case dei vedovi passati a seconde nozze, imponendo loro talvolta una taglia se volevano liberarsene.
Di parecchie di tali serate abbiamo memoria, per l'occasione che diedero di far rinnovare i decreti che le proibivano, o di punire gli eccessi che ne scaturivano; ma l'essere sopravissute sino a noi, mostra che l'uso era antico, radicato nel popolo, ed ispirato da principii religiosi e da interessi materiali. Fra tutte è notevole quella fatta nelle vicinanze di Banchi nell'aprile del 1498, al dottor Francesco Marchese sposo di Marietta Zaba, vedova di Abramo da Campofregoso, avendo la grande popolarità di cui godeva questo insigne giureconsulto, il quale serviva il Comune ed i privati coi suoi consigli e colle sue opere, grandemente contribuito a fare più solenni il chiasso ed il tumulto. Le carte criminali poi segnano molti processi che dalle tenebre avevano origine, perché spesso o i tumultuanti trasmodavano, od i mariti irosi scendevano a vie di fatto contro i medesimi, onde nascevano violenze, risse ed uccisioni.
Né solo per una sera durava l'infernale concerto, ché spesso si ripigliava per alcune altre di seguito, con quanto maggior apparato di ridicolo vi si poteva aggiungere. Ed ove ciò non bastasse, talora i rimaritati, passando per la città o soli od assieme, erano trattenuti da tristacci che volevano far loro pagare una multa o pedaggio, colla minaccia di impegnarli in qualche ridicola burla.
Così avvenne nel 1690 ad una donna, rimaritatasi con un vedovo, la quale nelle vicinanze di Soziglia, fu da quei facchini fermata colla intimazione di sborsare lire cinquanta se non voleva esporsi ai loro dileggi. E poiché rifiutossi di pagare la taglia, nonostante che gridasse e si dibattesse, venne posta a forza sopra di un asino, tolto ad un erbaiuolo del Bisagno che di là a caso passava, e condotta per la città in mezzo ad un gran concerto di corni, paiuoli, caldaie ed altri diabolici istrumenti.
Per questo si fe' d'ordine della Signoria un processo; e, come segnano le carte criminali del tempo, ben sedici imputati comparirono innanzi ai giudici, i quali condannarono i rei a varie pene, ed alcuni persino alla galera.
Altro fatto gravissimo furono pure le tenebre suonate nel gennaio 1699 per le nozze del magnifico Giovan Luca Pinelli, nelle quali oltre il solito tumulto, si passò a vie di fatto contro la costui persona, che fu tolta di portantina, furono strappazzati e battuti i facchini di questa, e commessi altri eccessi, sotto gli occhi di molto popolo e di non poca nobiltà. Pare anzi che alcuni di questa vi avessero una mano, onde il Governo nella tema che ne nascessero odii ed inimicizie fra le famiglie, capaci di danneggiare la cosa pubblica, si diede gran premura di calmare gli animi eccitati, e mettere come si suol dire una pietra sopra l'occorso.
I discorsi però ed i pareri espressi nei consigli della Signoria in occasione di questo fatto furono moltissimi; e nelle varie opinioni emesse sulle deliberazioni a prendersi in proposito, non mancano coloro che mentre biasimano gli eccessi ed i trasmodamenti, approvano in massima la costumanza delle tenebre e vogliono permesso un po' di chiasso, ritenendolo come freno al rimaritarsi, considerato da essi nel senso primitivo della Chiesa quale azione non lodevole.
Ma le tenebre, cagione quasi sempre di gravi disordini, non furono mai d'impedimento alle seconde nozze di quelli che vi trovavano il loro tornaconto; delle vedove specialmente le quali, se ancora giovani, sono esposte a mille pericoli ed in genere hanno molto maggior voglia di maritarsi che non le fanciulle, per cui, come trovo segnato nelle pagine del già citato Gio. Andrea Spinola, a quei tempi formavano la disperazione dei confessori.
Né è da ommettersi che spesso per molte il rimaritarsi era necessità, onde avere un appoggio a far valere i loro diritti pel ricupero delle doti e dell'antefatto, contro la ingordigia dei parenti del defunto marito che ne le volevano privare, specialmente se non eranvi figliuoli, aiutati in ciò dalle sottigliezze dei legulei, giacché se è antica la massima della giustizia che i legali debbano proteggere e difendere gli orfani e le vedove, più antico ancora è il costume fra i legali ed i non legali di mangiarsene le sostanze.

III. Delle donne nelle chiese, nelle processioni, nei monasteri.
La donna in tutte le religioni occupa un posto prima dell'uomo. Essere debole com'è naturalmente deve attingere dalle pratiche religiose quella forza nelle sventure, quei conforti nei dolori, quella ispirazione nelle incertezze della vita che talora non può altrove procurarsi. D'altra parte essendo per natura e per educazione molto più impressionabile dell'uomo, trova presso di lei facile accoglimento ogni pratica devota. La Chiesa dà al sesso femminile l'epiteto di devoto, leggendosi nell'ufficio della Madonna preghiera pro devoto femineo sexu, e se noi entriamo nelle chiese vediamo che la maggioranza dei frequentatori si compone di femmine.
Non è a credere però che il solo principio religioso attragga le donne alle sacre funzioni; ché queste specialmente, in antico, procacciavano loro anche un po' di svago.
Imperocché quando le donne erano tenute più schiave, che di rado uscivano, e facendolo lo dovevano con mille riguardi, ogni occasione che loro permettesse con una scusa onesta e lodevole un po' di divertimento, l'abbigliarsi oltre il consueto, andare a vedere ed a farsi vedere, rompere insomma, come suol dirsi la monotonia della vita, era da esse colta e graditissima.
Sino alla fine del secolo scorso le porte delle case si chiudevano sull' imbrunire, cioè all'ave maria, e fra questa e l'una di notte tutti i galantuomini rientravano alla loro abitazione. Genova era completamente al buio, ed i soli lanternini che ardevano innanzi alle sacre imagini illuminavano di fioca e rara luce i tortuosi vicoli della nostra città.
A quell'ora le donne in attesa del padre, del marito, del fratello, dell'amante, erano tutte alla finestra, o chiaccherando colle vicine, o recitando il rosario, o facendo dir le orazioni ai bambini.
Spesso laddove sorgeva una sacra immagine, si faceva o la novena od il triduo, dando così occasione alle donne, particolarmente del popolo, di soffermarsi sulla porta o di scendere assieme alle altre del vicinato nel trivio, a recitare le litanie od altre preci, mentre le più riservate, potevano loro far coro, dimorando oltre il solito alla finestra.
Cadendo poi i titolari delle imagini, quelle che le avevano in cura si affaccendavano in andar di porta in porta ad accattar olio ed elemosine per convenientemente ornarle ed illuminarle: incombenza tanto più gradita in quanto che dava loro l'opportunità di gironzare attorno, di ciarlare con questa e quella, e di saper qualche fatterello sul conto dei vicini e delle vicine.
Onde non dee far meraviglia il gran numero delle Madonnine e dei santi che conservossi lungo le vie di Genova, sino ai dì nostri, innanzi ai quali brillava una lampada mantenuta a spese dei vicini, ispirati dal religioso sentimento, ed anche dal vantaggio reale che in una città priva di illuminazione arrecavano quei lucignoli accesi, spargendo un po' di chiarore ne' dintorni. Di tal guisa erano difese le porte dai ladri, e si provvedeva alla sicurezza dei cittadini che per qualche occorrenza avessero dovuto uscire di notte.
Altra occasione poi alle donne per farsi alle finestre o per andar fuori, offrivano il passaggio del viatico, e specialmente le processioni. Pel primo, se di giorno, quelle che lo potevano, lasciata ogni altra faccenda, andavano ad accompagnarlo; se di notte correre alle finestre e collocarvi le accese lumiere era l'uso generale. Intanto le donne si toglievano alquanto dall'usato lavoro, e trattenendosi ai davanzali per attendere il ritorno della pia comitiva potevano far quattro chiacchere colle vicine.
Per le processioni poi la era una vera festa. Nelle case sotto le cui finestre dovevano passare, radunavansi parenti ed amici, le vie erano gremite di popolo d'ogni condizione e d'ogni sesso; una o più file di seggiole si apprestavano lungo le stesse a chi di casa non poteva godere della festa, ed a mille altri incidenti desiderati spesso dalla gioventù; le sacre immagini brillavano per molti ceri accesi e per istraordinarii ornamenti; per le piazze, ove si ergevano ricchi altari, ai quali soffermavasi talora il clero a dare la benedizione, suonavano musicali concerti; l'atmosfera era impregnata da un olezzo inebbriante di fiori, che le venditrici distribuivano attorno a mazzetti e spiccati, sia per adornamento della persona, come per spargerli sulla processione; e nella maggiore libertà che nasce dalla generale confusione e dalla comune allegria, le donne, i fanciulli e gli innamorati erano quelli che più profittavano.
Era invero un attraente spettacolo quella confusione di popolo brulicante, quella miriade di teste affacciatesi dalle finestre, dai poggioli, dai tetti, adorni di arazzi, di damaschi e d'altre ricchissime stoffe, ove fra tutto distinguevansi in grandissima maggioranza le femminili sembianze nelle più vaghe acconciature, sparger manate del tradizionale fiore di ginestra, di rose, e di margherite sul sacro corteo, non dimenticando i profani dai quali volevano essere osservate.
Le fanciulle anticamente prendevano gran parte nelle processioni e nelle cassccie.
Nelle diverse processioni fatte in aprile del 1507 d'ordine di Paolo da Novi, a fine di ottenere da Dio aiuto in quei politici trambusti, intervenivano numerose le fanciulle. I bandi fatti per invitarle prescrivevano che vi dovevano andare quelle da dieci anni in giù ed avere il capo coperto.
Ma a nulla valsero le loro preci, che Luigi XII poco tempo dopo prese Genova, ed un numeroso stuolo di esse attendeva piangendo il vincitore sovrano nella chiesa di S. Lorenzo per supplicarlo ad usare misericordia alla conquistata città.
Da quest'ultimo fatto altri volle che avesse principio fra noi l'uso di mandar le fanciulle vestite da pellegrine nelle casaccie. Ma da diversi indizi sembrerebbe più antico di questa epoca, e forse derivato da vetusti riti delle processioni pagane.
Le casacce in origine, come a tutti è noto, processioni di penitenza, si ridussero negli ultimi tempi a spettacolose rappresentazioni, ove si faceva gran sfarzo di sontuosi apparati e di ricchi vestiarii. Ancora nel secolo XVII vi intervenivano le donne e le fanciulle vestite di sacco, le quali così travestite andavano a visitar le chiese nella città e nel contado. L'anno 1688 ebbero luogo molte di tali processioni, e nacquero disordini offensivi pel buon costume; onde la Signoria dovette tenerle d'occhio, tanto più che si temeva volessero alcune uscire dalla città per andare nei vicini villaggi, attrattevi dalle prediche del padre Segneri, causa di non pochi tumulti, specialmente a Nervi, per cui fuvvi nei consigli del Governo chi proponeva di imbarcare e trasportar senz'altro fuori Stato il popolare predicatore.
Le fanciulle nelle processioni e particolarmente nelle casaccie in abito da pellegrine, cantando adatte canzoni, si mantennero in Genova sino ai primordi di questo secolo, e continuano tuttora nel contado, specialmente nei grossi borghi, ove vanno pure le donne d'ogni età, e veggonsi non solo in tal foggia travestite, ma figurano ancora da Madonne e da sante nelle diverse attitudini in cui le rappresentano più comunemente i pittori.
Nei secoli scorsi si soleva ancora mandarle in qualche modo più o meno sacro travestite, a raccogliere elemosine per straordinarie funzioni religiose. E ciò fecesi per quelle della Madonna della Fortuna l'anno 1636, in cui andarono attorno due fanciullette vestite da angioli, come scrisse il buon priore della chiesa di S. Vitto.
Oltre le processioni, anche le altre feste religiose erano gradite occasioni per le donne di godere una maggiore libertà, e di uscire oltre il consueto. Fra tutte solenne ne' secoli scorsi era quella di S. Giovanni Battista; ché allora luminarie, fuochi artificiali, falò, ed in tempi più antichi in Campo dei fabbri, l'attuale Campetto, straordinari giuochi e sollazzi. Inoltre, ciò che meglio importava, era conceduta permissione alle donne di portar monili e collane, vestir sete .ed altre stoffe usualmente vietate dalle leggi suntuarie.
La chiesa pertanto e le funzioni religiose erano ne' tempi scorsi il luogo di convegno generale: chi voleva vedere una donna od una fanciulla, anche delle più riservate, era sicuro che alle sacre funzioni aveva occasione di vederla. Da ciò l'uso degli uomini di fermarsi sul piazzale per veder le donne accorrere alle chiese, riservandosi essi ad entrare all'ultimo scampanellio, come oggi ancora possiamo osservare nelle campagne.
Le donne nelle chiese, come ogni volta che uscivano fuori andavano velate, o col capo in qualche modo coperto. Questo è un uso antichissimo fra i cristiani, e che molto bene si confà alla naturale timidezza ed al pudore che sono il più bello ornamento delle femmine. Ciò non tolse però che la moda qualche volta fosse più potente, se è vero che nel 1407 andata in disuso cotesta costumanza, fu poi ripigliata per le esortazioni e le prediche di S. Vincenzo Ferreri.
Da questa epoca vogliono alcuni che abbiano avuto origine quei veli bianchi trasparenti detti pezzotti, e quelli altri più fitti chiamati mezzari, che portavano tanto bene le donne genovesi, dei quali non possiamo che lamentare la decadenza, e per la città la quasi totale disparizione. Che però cominciassero allora non sembrerebbe conforme al vero, avendosi memorie di veli per capo, di mezzari e d'altri tessuti consimili molto prima dell'epoca succennata. Neppure è a credere che da S. Vincenzo Ferreri in appresso le donne siano andate in chiesa sempre col capo coperto dal mezzaro o dal pezzotto. Nel secolo XVI e specialmente nel XVII, epoca di grande decadimento morale, le dame portavano il capo così straordinariamente acconcio con fiori d'ogni foggia, da superare al paragone la moda d'oggigiorno; e adorne in tal guisa, e talora col seno e le braccia scoperte, recavansi alle sacre funzioni. La Signoria dovette spesso occuparsi di questo abuso; e le carte di quei tempi deplorano come le chiese, più che case di orazione e di raccoglimento, avevano aspetto di feste da ballo.
Un'altra costumanza generalmente biasimata, e che fu causa di molti ragionari nei consigli di allora ed anco lungo tempo appresso, si era quella di far sedere le donne a' banchi nelle chiese per raccogliere le offerte dei fedeli.
Questa ha origine dai raccoglitori o questori delle indulgenze, cagione di tante perturbazioni in Europa nel secolo XV, e ch'ebbero nel successivo quelle funeste conseguenze che tutti sanno. Essi ponevano i loro banchi nelle chiese e vi facevano assistere alcune giovani e belle donne, le quali chiamavano i fedeli e li invitavano a deporre le loro offerte in vassoi innanzi ad essi collocati, presso a poco come ora si usa dagli amministratori di qualche opera pia, alle porte dei teatri o dei pubblici stabilimenti in occasione di qualche straordinario spettacolo destinato a beneficenza.
Il sinodo del 1567 vieta con acerbe parole questa costumanza, proibendo alle donne che avessero meno di cinquantacinque anni lo assistervi. Ma quello del 1609 è più largo concedendolo a quelle di quaranta.
Tali provvedimenti però o per poco furono osservati, o rimasero senza frutto, ché spesso negli anni seguenti i Collegi si dovettero occupare di questa faccenda, ove le donne della nobiltà erano quelle che davano il pessimo esempio. Da molti biglietti di calice, che chiamavano l'attenzione del Governo sopra tal fatto, si conosce come veramente doveva essere uno scandalo vedere giovanette spiritose con attorno una corona di giovinotti simili ad esse, elegantemente e spesso ancora poco modestamente vestite, sollecitare le elemosine da questo e da quello, chiaccherare, far chiasso ed amoreggiare come se fossero state ad un festino.
Il più curioso dovea essere nel secolo XVI, se, come lo tanno supporre diversi indizii ed alcune espressioni della lettera pastorale di monsignor Bosio, le donne ai banchi con una verga in mano battevano gli offerenti, come ancora usano a Roma i penitenzieri nella basilica di S. Pietro, aiutando così il collettore delle indulgenze nella rimessione del peccati.
Ma usassero o no della verga sulle spalle dei fedeli, è certo che le donne furono di grande aiuto ai questori delle indulgenze, i quali raccolsero somme enormi in pro della fabbrica della Basilica vaticana.
I Collegi, a' 16 di settembre del 1681, sulla relazione degli Inquisitori di Stato proibivano alle donne minori di cinquanta anni di assistere ai bacili in alcuna chiesa, escluse però la cattedrale e quella delle Vigne, per le quali volevasi una speciale licenza; e vietavano che intorno ad esse potessero stare altre donne, se non erano di simile età. Imperocché, ad eludere le proibizioni, accadeva spesso che le donne di età matura vi andassero contorniate dalle figlie, dalle nipoti e da altre giovani.
L'uso però o l'abuso di far assistere le donne ai vassoi nelle chiese, specialmente in quelle delle monache, continuò sino al cadere del secolo scorso; ed una reliquia ne abbiamo nelle chiese di campagna, ove in certe solennità vi seggono ancora, ed ove vanno attorno durante la messa a raccogliere con un piattellino in mano le offerte.
L'antica disciplina cristiana voleva che le donne in chiesa restassero separate dagli uomini, e ciò praticavasi in Genova e nella Liguria; anzi nelle nostre campagne tuttora si osserva. Le donne quasi sempre sono alla sinistra degli uomini; in qualche chiesa però veggonsi a destra.
A Genova le fanciulle andavano in particolari logge o tribune che sorgevano nelle chiese principali, e che furono demolite d'ordine di Monsignor Bossio nel 1582, perché sulle pareti delle stesse, aveva trovato scritti versi amorosi e motti indecenti. Ma la separazione degli uomini dalle donne già più non si usava, ed immense sono le lamentazioni che per la promiscuità degli uomini e delle donne nelle chiese si trovano registrate fra le carte di quei tempi. Le cose infine giunsero a tal punto, che il Governo dovette mantenere delle spie in tutte le chiese coll'incarico speciale di sorvegliare questo e quella, di badare ai convegni che vi si davano, onde ammonire in prima, e poscia punire di relegazione chi dava occasione di scandali. Curiosissimi sono questi rapporti che impinguano parecchie filze del nostro Archivio di Stato, ove vengono indicate signore nobili e cittadine, patrizi e mercanti, preti, frati ed artigiani, persone insomma d'ogni classe sociale.
Ma poco o nulla giovavano i provvedimenti del Governo, ché gli scandali continuavano. E nel 1684, quando la Repubblica si trovava in cattive condizioni per la prepotenza del re Luigi XIV, qualche anima pia volle appunto vedervi una punizione di Dio per i peccati de' genovesi, ed in ispecie per quelli derivanti dalla miscela degli uomini e delle donne nelle chiese, onde fu fatta proposta di collocare in esse una sbarra che corresse da cima a tondo, affinché, dice la relazione, assolutamente restassero separati gli uomini dalle donne, come usasi in molte citta d'Italia, in qualche luogo del dominio, ed anche in Genova ne' tempi andati.
La proposta fu presa in considerazione ed approvata dai Collegi addì 13 settembre di quell'anno, con riserva di parlarne all'Arcivescovo per porla ad effetto. Ma non pare che lo fosse, perché in novembre dell'anno seguente trovansi nuove disposizioni ed ordini per tal pratica. E credo che anche allora i nostri governanti preoccupati dalle politiche faccende poco curassero tal pratica, o che posta in esecuzione durasse poco tempo.
Oltre a ciò verso questi anni e nei seguenti trovo segnato che vi erano donne, le quali ammantate di falsa devozione usavano frequentare le chiese per avvicinare e sedurre le fanciulle inesperte lasciatevi talora sole, come in luogo sicuro, dai parenti; onde più volte il Governo ammoniva i rettori delle chiese a non permetterne l'apertura prima della suonata a giorno della campana della cattedrale, e di vigilare perché le sacre funzioni non si protraessero a notte avanzata. Ma furono quasi sempre parole al vento.
Le dame della nobiltà nel secolo XVII cominciavano a volere nelle chiese delle sedie speciali, sia in cappelle particolari come altrove, ed all'inverno cuscinetti e tappeti a difendersi dal freddo. In ciò furono presto imitate dalle non nobili, onde le chiese erano ingombre, ed il Governo non tardò a proibire le sedie nelle chiese. Ma l' buso continuò; e la Signoria ad ogni istante interveniva con i suoi decreti. Di questi indicherò quello del 16 aprile 1660, con cui si ordina ai Padri di S. Siro di togliere il tappeto e le sedie poste in altra delle capelle di quella chiesa per la principessa D'Oria; e l'altro del 18 agosto 1716 che tollera provvisoriamente lo strato di velluto, i cuscini e l'inginocchiatoio posti in S. Francesco di Castelletto per la principessa Orsini, con l'avvertenza di vigilare affinché non si estendesse tal uso alle altre chiese. Ma le donne trovaron modo di eludere le disposizioni della Signoria, e se non potevano aver sedie fisse e particolari, ogni volta che andavano in chiesa ne erano provviste dai sacristani e dai chierici mercé una tenue moneta; cosicché l'uso delle sedie, nonostante le reiterate proibizioni governative col finire del secolo XVII divenne generale, ed ora entrato nelle abitudini comuni, costituisce una fonte di reddito non indifferente per le chiese, che lo fruiscono talora dandolo in appalto e talora in economia.
Sulle donne nelle chiese osserverò ancora due cose. Primo, che verso il 1660 molte delle classi elevate in occasione della morte del padre, del marito o d'altro loro stretto parente, stavano qualche settimana rinchiuse in .casa, non uscendo nemmeno per ascoltar la messa alle feste, quantunque l'autorità religiosa segnalasse questa trascuranza come un grave abuso. Secondo, che intorno ai tempi medesimi le signore della nobiltà volevano che le non nobili loro cedessero il posto migliore nelle chiese. Tale pretesa però fu causa di qualche inconveniente; ché molte signore del secondo oidine, per ricchezza, fasto ed alterigia procedenti di pari passo colle patrizie, non volevano a queste mostrarsi inferiori ed apertamente si rifiutavano. Il quale spirito di resistenza, unitamente ad altre tendenze a liberarsi dalla supremazia della nobiltà che chiaramente si palesano nel secolo XVII, mentre appunto questa voleva in tutto essere contraddistinta e separata, vanno notate fra i sintomi precursori della rivoluzione che la detronizzava nel secolo seguente.
Ora alcunché delle donne ne' monasteri, cioè delle monache.
La prima notizia che di esse si abbia in Genova, si riferisce al 969, ed è di certa Sarra o Serra abbadessa nel monastero di S. Stefano.
Altre scritture ce ne indicano alcune che, verso il 1109, abitavano in case particolari presso gli orti di S. Andrea. Ma sia fossero in queste come nei monasteri, non essendo soggette a clausura, le monache uscivano e rientravano a loro talento, ricevendo le visite di chi meglio volevano. E poiché, rispetto a molte, il loro stato era una conseguenza delle condizioni sociali dei tempi, più che di una vera ispirazione religiosa, non devono far meraviglia gli scandali gravissimi cagionati dalle monache.
A questi accennano innumerevoli documenti dei nostri archivi, e la sollecitudine dei governanti in porvi riparo, ricorrendo anche all'autorità dei Pontefici perché provvedesse. Infatti molte disposizioni furono emanate dalla Santa Sede, e sulla fine del secolo XV si decretava che tutte le monache fossero ristrette in clausura.
Le opposizioni fatte dalle monache a tali saggi provvedimenti furono moltissime, sostenute anche qualche volta dai religiosi degli istituti maschili da cui esse dipendevano, onde scorse gran tempo prima che le cose procedessero a dovere. E certo non erano ancora sulla buona via nella prima decina del secolo XVI. In una predica fatta verso il 1506 nella chiesa di S. Maria di Castello, il Padre Silvestro Prierio, allora priore di quel convento, e che fu poi tra i teologi consultori del Concilio di Trento, dopo aver detto che le fanciulle erano molto facili a darsi a turpi amori, mentre per coprire la loro vergogna uccidevano i parti gettandoli nelle cloache, accusa dello stesso peccato le monache, e chiama i monasteri: monasteria diabuli, quæ sunt turpissima lupanaria, digna milies igne.
Anche da un breve di Papa Clemente VII, in data del 25 novembre 1529, emanato sulle istanze della Signoria, apparisce come allora le monache lasciassero molto a desiderare per la troppa frequenza e famigliarità con estranei, per cui si provvede onde vi sia posto riparo.
Dalla iniziativa presa dal Governo ne' secoli scorsi per la riforma dei monasteri femminili, ebbe origine uno speciale magistrato cittadino intitolato delle monache, al quale nel secolo XVII fu addossato l'incarico di provvedere a quanto ad esse si riferiva, e che continuò sino al cadere della Repubblica. Lo stesso invigilava anche per mezzo di spie, altre delle quali, come già dissi per le chiese, incessantemente soggiornavano attorno ai monasteri, onde male usanze non vi si introducessero e le cattive si estirpassero. E per questo ebbe moltissimo a fare; imperocché se a poco a poco le monache si ridussero a clausura ed i più gravi scandali cessarono, non è a credere che finissero del tutto.
Molti sono gli incidenti ai quali anche dopo la clausura diedero causa le monache, e di cui il magistrato si dovette occupare.
Ma di questi eccessi, giova ripeterlo, non devono incolparsi tanto le povere monache quanto le istituzioni ed i tempi. Esse erano le vittime di questi, ché la maggior parte prendevano il velo prive di vocazione, e poi nei monasteri conservavano troppe relazioni col mondo esteriore. Già dissi nella prima parte di questi appunti della molta gente che accorreva ai parlatorii delle monache: fratelli, parenti, amici vi erano giornalmente. A ciò si aggiunga che i conventi accoglievano fanciulle in educazione, alcune delle quali destinate a marito, per cui spesso e pretendenti e fidanzati erano chiamati a visitarle. E tutto sugli occhi delle povere recluse! La più parte poi, lo ripeto, eransi fatte monache senza averne la vocazione, e se non veniva adoperata un'aperta violenza per far loro prendere il velo, i mezzi morali erano stati largamente usati per questo. Da bambine frequentavano i monasteri ov'erano messe in educazione; aggiungansi i consigli di taluni confessori, le carezze e lusinghe delle monache, ed una ignoranza completa di tutto che s'appartenesse al mondo.
Tutti gli autori ed i documenti sono concordi su questo, e gli atti pubblicati in Roma nel 1740 per la causa di nullità della professione di suor Paolina Franzoni ci chiariscono del come. Questa povera fanciulla era stata da bambina destinata dal padre al monastero, perché egli voleva lasciar ricca la primogenita maritata in Durazzo. Ma finché visse la madre la cosa non ebbe effetto, opponendovisi essa la quale conosceva come la ragazza non avesse vocazione pel chiostro. Morta però la genitrice, il padre col pretesto di porvela in educazione ve la fece entrare, ed il modo va segnato.
Il Franzone mandò la figlia a visitare la madre abbadessa ed altre suore del monastero di S. Leonardo, dove egli aveva qualche ingerenza, per esserne dei protettori, e mentre essa chiaccherava a quella porta avendo in braccio una sua cagnuola che mai l'abbandonava, le monache a modo di scherzo gliela presero, fingendo volerla tener secoloro; onde la fanciulla congedandosi per andar via, invitata dalle monache che le dicevano: se volete la cagnolina venitela a prendere, per riavere la sua bestiuola varcò di qualche passo quella soglia fatale, di cui le suore si affrettarono a chiuderle la porta dietro le spalle. Pianse, supplicò, ma fu invano; e solo calmossi alquanto alla promessa che eravi posta per starvi in educazione. Aveva allora poco più di tredici anni.
Entrata in monastero, tutte le arti furono messe in opera per indurla a monacarsi. Essa non ebbe abbastanza di forza per resistere: a diciasette anni faceva rinunzia dei beni, a diciotto solennemente professava; e gli arcadi poeti che non mancano mai nelle solennità nuziali e religiose, belarono sonetti ed anacreontiche, applaudendo alla forte giovinetta che fuggiva le insidie e gli errori del mondo. Ma la disgraziata di mondo e d'altro sapeva proprio nulla affatto.
Quel che fa più pena poi e disgusto, e segnala la nequizia dei tempi, si è che quando morto il genitore, essa intraprese la causa per veder dichiarata nulla da Roma la sua professione, chi più di tutti le appariva nemica, e sorgeva con tutti i mezzi a contrastarla, era la propria sorella Paola Durazzo madre di Marcello il doge futuro.
Io ho accennato la storia di questa monaca, perché è storia di molte altre per le quali la vita fu una serie continua di dolori, di sacrifici, di martirii.
Ma ad onore del vero e per debito di giustizia, è da avvertire che non in tutti i monasteri si manifestavano gli scandali che di sopra ho accennato. Essi erano, si può dire, comuni agli antichi e rarissimi nei nuovi.
Fondati questi da donne che avevano acquistato molta esperienza col vivere nel secolo, erano dotati di costituzioni intese a prevenire ogni occasione alle monache di farle fuorviare. Infatti severissime nella interna disciplina, non ammettevano se non donne di provata vocazione, non volevano fanciulle in educandato, non contatti o relazioni col difuori. Le Turchine fondate dalla nobil donna Vittoria De Fornari-Strata, le Cappuccine ed altre, si mantennero sempre in buona fama per regolarità di condotta. E la storia imparziale non può a meno di serbare onorevole ricordanza e di tener nota della loro fondazione, come di una protesta contro la corruzione che serpeggiava negli altri monasteri.
Negli ultimi due secoli della Repubblica, le cerimonie e le solennità della vestizione e della professione delle monache formavano un largo reddito per l'Arcivescovo e per la sua Curia, dovendosi erogare di grosse somme in largizioni e diritti. E siccome nel secolo XVII, specialmente essendo arcivescovo Giovanni Battista Spinola, tutti questi diritti erano stati aumentati, il Governo volle intervenire per moderarli. Per cui fra le istruzioni date nel 1678 a Francesco Maria Lercaro, gentiluomo inviato a Roma per trattare di molte differenze sorte colla S. Sede sia per la sedia arcivescovile in duomo, sia per la inquisizione, se gli raccomanda questa pratica, la quale va posta assieme alle altre che contribuirono a far sì dopo poco l'Arcivescovo rinunziasse.
Dalle suddette istruzioni apprendo che in prima le monache alla vestizione ed alla professione presentavano il vicario di una doppia, d'una fiaccola e d'un vassoio di confetti, e che invece richiedevansi allora lire cento in contanti per monsignor Arcivescovo benché assente, e scudi quattro di argento al suo Vicario, oltre le mercedi delle rinunzie, degli esami, e quelle ai ministri inferiori. Di più si conosce che non poche altre ricognizioni pagavano annualmente in Curia le monache nelle elezioni dell'abbadessa e delle altre ufficiali, in certe feste solenni e per la nomina dei loro confessori.
I numerosi monasteri femminili pertanto fornivano un buon cespite di reddito, e tali si mantennero dappertutto finché le civili autorità non vennero a colpirli colle leggi di soppressione.

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