Testata Gazzetta
    Pezzi di storia

Le «crose» genovesi
di Giuseppe Marcenaro (disegni di Elena Pongiglione)

Genova – ottobre 1970

Crêuza – scrive il Casaccia – dicesi quella strada fuori città, che traversando dalla strada principale mena per le ville.

disegno 1 Dalle parti d'Albaro c'erano le «crose». E si fa così per dire, poiché di esse, dei lunghi passaggi quasi stritolati dagli alti muri pesanti parietaria e traforati da buchi ove s'intanavano lucertole ratte, se n'è perduta traccia.
Dopo la pioggia qualcuno va ancora a raccogliere le lumache che, grasse, s'espongono lasciando la perlacea striscia del loro camminato.
Il ricordo che ognuno ha delle «crose» è diverso: stinto e secco: quasi come lo scalpiccio di chi ancora le sale. Una volta, prima d'essere ammantate d'asfalto, avevano la passiera di mattoni al centro e i risseu accanto.
La «crosa» è l'essenza - pur non essendola - d'una strada campestre: tra campi tra fiori e profumate foglie pendenti da muretti rabberciati. Poi, disegno 2 più d'ogni altra cosa, è l'ombra; e la luce tagliata a fette dalla proiezione d'un cancello a righe, sul bianco ciottolato dell'entrata d'una villa.
S'usa, fra noi liguri, il macadam dei giardini e delle ville fatto in bianchi cògoli e in neri, che li rabescano a disegni. Talvolta un fiore, una disegno 3 scritta augurale, una proprietà, uno stemma: e sono cose che si spingono anche fin fuori dei cancelli delle ville; si spingono fin sulla «crosa».
Potrei dire che il più bel ricordo delle «crose» rimasto in me è l'aria e il petalo d'una rossa camelia che in essa cadeva. E del petalo il dolce tonfo tra la parietaria e l'erba alta delle bordature della straduccola. Tonfo quanto più pesante - nel rumore -, se lenta e sfregante era stata nel petalo la caduta rimbalzando tra sassi erosi che s'aprivano allo sguardo sul muro torto della «crosa».
Accompagnandomi dicevano, poi sulla porta: «Mi raccomando». E nel saluto della mano: «Fai il bravo».
Mi avevano portato dalle suore: alla mia prima scuola pretesca. E salendo passavo davanti ad una casa rossa e mi dicevano additandomela lì avesse abitato uno scrittore. E già allora mi pareva un mestiere importante. Più tardi, quando riuscii a leggere, scopersi il nome Dickens tra alcune righe stinte. disegno 4
Nelle «crose», un tempo, non passavano, come ora, automobili. Era perché non erano qua e là sventrate da nuove strade: asettiche e fredde, orlate da moderni casamenti. Ebbene, nelle «crose» si poteva correre e gridare; in quelle in discesa sembrava di volare portati via dal basso, e si correva in avanti. E i passi, e i gridi, e il batticuore facevano eco contro i muri alti e grigi.
Una «crosa» m'è rimasta fissata come una fotografia: andavamo con la mamma a portare vestiti smessi alle suore d'un convento che apriva sulla «crosa» la sua tremula calma fatta d'ombra, d'odori di cere da pavimenti, di vetrate opalescenti, di fruscii e di foglie d'aspidistra. In cambio offrivano brocche di rossi gerani.
Ogni qualche pomeriggio a primavera, si andava nella villa di Francesco, che aveva l'ingresso sulla «crosa» di San Nazaro. Nel giardino crescevano muri di pitosforo e tornando ne raccoglievamo fasci. Sapevano di asprigno quei fiori: e noi li chiamavamo limonetto. La mamma urlava perché li raccogliessi col gambo lungo.
In certe «crose» Madonnette occhieggiano tra alberi di gaggia. Altre sotto acacie cimbri o platani. E dalla loro altana guardano mutare il paesaggio. disegno 5
Talora, quasi come per cambiare, la mattonata d'una «crosa» diventa scalea e, per le alture della città, pare avvitarsi al cielo. S'apre così un nuovo metro alla prospettiva dell'esploratore che dal caruggio voglia salire alle colline che aggiogano. Ed in quello la fatica di arrancare ha il sapore del riscatto.
Nella «crosa» si andava a riposare per ripararci dalla calura e dalla zaffata dell'estate. Tra gli slarghi degli alti muri qualche ardesia fungeva di panchetta. Le foglie, dai muri, facevano ombrello e, per guardare in alto, si riparavano gli occhi con la mano: dall'ombra della «crosa» il pesante e spesso sole d'agosto s'infilava tra le foglie dei limoni.
I cancelli delle ville che s'aprono sulle «crose» sono in ferri battuti: a ricciute, a puntali, a borchie. Tra essi, l'inverno, raccolti negli anfratti e negli slarghi, non passa che raramente un vento veloce e freddo. I giardini chiusi dai muri delle «crose» ne sanno di mistero: specialmente quando, curioso, qualcuno s'insinua da una fessura dell'ingresso.
Allora il rumore della ghiaietta è tuono e rimbalza nel cuore per la conquista d'un terreno mai non suo.

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