Testata Gazzetta
    Pezzi di storia

La cucina genovese, un grande racconto di avventure
di Manlio Fantini

Genova – marzo 1970

Cercatela ovunque - in Europa o in America o dove vi pare - ma non la troverete. Segaligne pizze, minacciosi spaghetti, emaciate tagliatelle, lagrimevoli cucina tortellini: la cucina italiana, nel mondo, è solitamente rappresentata così. Un'offesa alla tradizione napoletana e bolognese, se volete, ma pur sempre un omaggio, un ambiguo tentativo di seduzione nel nome di un prestigio troppo spesso usurpato ma comunque ricorrente.
Una «romana», cioè munita di un'acciuga, pagata a Parigi millecinquecento lire: trenta fettucce verdi pagate a Copenaghen milleottocento; sulla «romana» c'era un pizzico di salsa nemmeno capace di mimetizzare il pallore marmoreo della sfoglia e sulle Trenta Fettucce Trenta uno schizzo di ragù cavato da una scatolina di latta.
Ma il pesto e la farinata e il minestrone e i cuculli e la Pasqualina e la cima e la buridda e i ripieni e il latte fritto e il pandolce e tutto il resto di questa grande, geniale, fantastica cucina genovese nemmeno vengono contraffatti, come non fossero mai esistiti, come non costituissero, al modo del dialetto e della luminescenza grigia delle case e della stessa gente e addirittura del riflesso sdegnoso del mare, una delle isole più remote e impervie del grande arcipelago italiano e proprio per questo, ci pare, degna di essere difesa con l'omaggio e il costante ricordo.

foto 1 Piatti di pesce alla genovese

A Berlino, un ristorante che porta il nome - pensate - d'una città in provincia di Genova non propone ai suoi clienti un solo episodio di quel grande racconto d'avventure che è la cucina genovese o quanto meno ligure; un racconto che sa di lontananze dolorose, di arcaiche paure, di dignitosa povertà, di lotta diuturna per foto 2 la vita. Nei luoghi dove si finge di cucinare all'italiana - e son tanti, come ognuno sa - trovate dipinti sulle pareti vesuvi e colossei, garisende e belle madonnine, bianconi e ponti dei sospiri ma di lanterne, di quelle no, non ne trovate mai. Colpa nostra? Certamente. foto 3
Non è colpa, per esempio, consentire che s'ignori il supremo monumento barocco della cucina italiana, cioè quel cappon magro che nemmeno tutti i genovesi hanno assaggiato? E consentire che ogni giorno, a ogni pranzo e a ogni cena, venga quasi ovunque oltraggiato quell'altro colpo di genio che è il pesto, fornito da molti ristoranti nella stessa Genova dopo essere stato maciullato fino alla riduzione in un'untuosa poltiglia (orrore) nel frullino elettrico? O che si sbattano in tavola ravioli sedicenti genovesi farciti di salsicce industriali anziché di tettina e cervella e laccetti? O ancora che si affoghino in un presunto quanto fallace minestrone spaghetti e maccheroni anziché bricchetti e pennette senza curarsi, quantunque estate, di accompagnarli con i fagioli lumèe?

foto 4 La savoiarda alla genovese

Eppure ciò accade giorno dopo giorno, mensa dopo mensa, a Genova, nel Settanta; cioè in un'epoca in cui la gente ha imparato a valutare la buona cucina come un mezzo sovrano per illuminarsi d'antico, avendo scoperto che certa purezza dell'antico funziona a meraviglia come antidoto contro l'intossicazione da troppo avvenirismo? La gente pensa così e ha ragione dì pensare così, quindi ha ragione di non apprezzare la cucina del pesto e della Pasqualina al modo in cui le viene presentata troppo sovente, salvo eccezioni, s'intende, in questa città che sembra compiacersi d'essere dimenticata e d'essere scambiata per quella che non è, rovine, mare sporco e fumi laddove germina invece una caratterizzazione così radicata, una testardaggine così trionfalmente umana nel respingere vezzi e luoghi comuni di tipo consumistico da avere, crediamo, scarsissimi eguali o addirittura nessuno.
Rivalutarla o no questa cucina aspra e splendida, ancor primitiva e virginale seppure studiata ed elaborata come poche? Rivalutarla sì, ma come, se è purtroppo vero che a Genova la tradizione è affidata al sentimento delle comari di ceppo arcaico più di quanto non sia difesa da un'adeguata organizzazione salvo le sparse iniziative di non molti valorosi trattori, discutibile spesso la loro parte?
Se uno pensa al modo, comunque, il modo lo trova. Per esempio un'associazione di esercenti capace di creare una sorta di ristorante in cooperativa da situare in pieno centro affinché per forza naturale diventi un passaggio obbligato, un tempio sacrificale del basilico e della maggiorana, del pecorino e dei laccetti, del ripieno e dei lumèe, della farinata e dei pesci di scoglio e laddove al posto d'onore troneggi il cappon magro come va fatto, sulla scorta delle sacre «cuciniere» del tempo antico?
Qualcosa come un Pesto Grill, per dire una sciocchezza, dove si mangi solo genovese e si beva solo ligure poiché il vino di città - siamo sinceri - s'è prosciugato sotto turbini acri di cemento e di catrame ma non è che certi vermentini del ponente siano troppo dissimili dal compianto coronata e che certi altri rossesi non riescano ad accordarsi, poniamo, con le tomaxelle come ci riuscivano un tempo i rubinelli del Polcevera o dell'alto Bisagno.
Come ogni cosa veramente e appassionatamente genovese, anche l'inimitabile cucina verde è riuscita a conservarsi integra; è tuttavia evidente che le sue colonne portanti vacillano da tempo, minacciate in ogni direzione da terribili insidie come il basilico di serra e l'olio di semi, le salsicce, i surgelati e gli elettrodomestici; pensate che non tutti i giorni, ormai, si possono trovare dal fruttivendolo le reverende borraggini, che con le bietole costituiscono il vegetale di fondo per i veri, gli unici, gli irreversibili ravioli alla genovese. Cioè il piatto che - vivaddio - non può non piacere.

foto 5 La «cima»

E si pensa ad altre cose. Per esempio a una sagra gastronomica genovese da presentare in ogni grande avvenimento popolare dentro e fuori d'Italia. Non potrebbe accadere, se portassimo oltregiovo, oltremagra e oltreroja i minestroni e le pasqualine che tanta gente si disponga a immaginare Genova diversa da quella che solitamente s'immagina, cioè un frustrante luogo di porto e di ciminiere? Se è vero che quantunque vaghe, balenano oggi velleità turistiche perché non incoraggiarle partendo dal basso, senza spendere capitali e senza pretendere la formulazione di programmi a lunga scadenza, dal momento che si sa bene, in fondo, come finiscono certi programmi quaggiù da noi? Ma se industria turistica significa vendere quel che di buono c'è da vendere in un certo posto, ebbene, perché non si comincia con la farinata e le trenette passando per il minestrone e le tomaxelle, i ravioli e la cima, le frittelle di baccalà e i ripieni, su e su fino alla trionfante basilica del cappon magro?
Nota e diffusa a buon diritto in tutto il mondo l'onesta, la commendevole, la geniale paella valenciana; ma il cappon magro, che della paella non è meno geniale e non è meno commendevole sul piano della culinaria intesa propriamente come una splendida arte minore, non lo conosce nessuno. Un certo signor Parodi - ma veramente Parodi -confessò una sera a un gran pranzo in cui comparve appunto il cappon magro di non averlo mai assaggiato; eppure quell'arcobaleno di orate e di aragoste, di carciofi e di patate, di uova e di gallette, di gamberi e di funghi, di carote e barbabietole non era che una delle più felici dimostrazioni della fantasia che animò i suoi avi; una sintesi niente meno che mirabile d'ogni risorsa della terra e dell'acqua per creare un piatto di fatata bellezza e di commovente simpatia. Eppure, si torna a dire, il cappon magro è ridotto a una sorta di negletto geroglifico; un po' come i palazzi di via Garibaldi: sono così gelosamente difesi dalla gente che la stessa gente forestiera potrebbe passarci sotto dieci volte al giorno senza degnarli d'uno sguardo. Per forza: siamo noi che dobbiamo vendergliene l'incanto, portarcela sotto e farle alzare il naso per aria, crearle l'atmosfera adatta e infine chiederle: mai visto niente di simile?

foto 6 «U stocchefisciu accumudou»

Dei palazzi di via Garibaldi (e del cappon magro) quella gente risponderà di no, che non aveva mai visto niente di così imperiosamente ma dolcemente fascinoso. E sarà vero. Dunque, un ristorante in cooperativa.
«La vecchia Genova», tanto per non affaticare la fantasia il cui esercizio - nell'ipotesi che non s'arrivi addirittura a trarne un utile - potrebbe richiedere contribuzioni irrisorie qualora una base molto ampia di commercianti, di albergatori, di operatori in genere che abbiano in qualche maniera a trarre convenienza dall'impulso del turismo, per non parlare d'un gran numero di associazioni di categoria, fossero chiamate, come dev'essere, a parteciparvi. Un ristorante che avesse addirittura uno statuto precipuamente inteso a salvaguardare e a difendere i sacri confini della cucina genovese. Entra un tale e chiede una paillard, una pizza, gli spaghetti o una wiener schitzel? Spiacenti non ne abbiamo. Abbiamo, cima, farinata, trenette e ripieni fatti - ma veramente - come li facevano al tempo del signor Regina. Qui è così: prendere o lasciare. Se il tale lascerà, pazienza o peggio per lui; ma se il tale prenderà allora ne avremmo fatto un amico. Non foss'altro che per quel certificato di garanzia, come si fa per i vini di lusso o per i mobili antichi, che avremo avuto cura di rilasciargli ad ogni portata; bell'idea, no?

foto 7 Lasagne al pesto

Esempio: questo pesto è fatto con basilico cresciuto in una vecchia latta, al sole marino; poi è fatto con olio d'oliva garantito dal frantoio tal dei tali; poi con pecorino del tal posto e il basilico è battuto nel mortaio di marmo, tutto a forza di polsi e di bicipiti. Così come un altro tale che, capitato a Genova, volesse mangiare delle triglie, poniamo, o degli scampi o delle aragoste di giornata per il solo fatto di essersi affacciato in una città di mare. In questo ristorante si dovrà dare all'altro tale la consapevolezza che la cucina ittica genovese è fatta soltanto di pesce povero perché povero, da sempre, è il suo mare aggrottato e scontroso. Solo pesce blu, la qualità più umile; le acciughe, le sardine, gli sgombri, gli zerli, le zigoele; ogni tanto qualche gambero e qualche orata, giusto per consentire il cappon magro. Ma quanti miracoli le antiche comari non riuscirono a compiere con questo brulichio di reietti dei fondali, di questi spauriti profughi da scoglio corredati dai patetici gianchetti, quando siano stati pescabili? Povertà e ingegno forse realizzato davanti ai fornelli meglio che altrove, e talvolta genialità: perché non spiegare che il miracolo della cucina genovese è questo, cioè lo sfruttamento intensivo delle scarse e scadenti risorse naturali?
Diciamoglielo chiaro, all'ospite: niente bistecche perché a Genova non ci furono mai pascoli e una bestia doveva servire per tante cime e tantissime frattaglie da metter nei ravioli e nei ripieni; niente selvaggina perché i boschi, qua intorno, scomparvero chissà quando; niente pesci di lusso perché certi ingrati sali dell'acqua - si dice - consigliano la nobiltà ittica a sistemarsi altrove; niente intingoli burrosi e cremosi, niente salumi opulenti, niente formaggi soavi. Che cosa, allora?
Per una sera potete fidarvi: siamo assolutamente convinti, cucinando secondo le nostre sacre leggi, di offrirvi una cena che non dimenticherete.

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