Genova – maggio 1959
Salvator Gotta rievoca l'antichissimo rito della benedizione dei marinai con le reliquie di S. Giorgio, custodite nella bianca serena chiesa che alta, su l'istmo
roccioso, vigila il mistero del mare.
In quella specie d'istmo roccioso alto scosceso, ove la penisola s'inserta al monte, v'ha una piccola chiesa dedicata a San Giorgio dai tempi della prima Crociata.
Sta lassù, bianca e serena a guardare i due mari: il mare sconfinato e periglioso, insidiato - ove la rupe s'inabissa - dai voraci verdoni, e il placido mare chiuso
nel Porto dei Delfini. Quivi l'acqua si insinua nell'ansa profonda, lambe le case del borgo pittoresco ove la bellezza e la pace si fondono in perfetta armonia. Il
piccolo porto, ricetto di panfili da crociera e da corsa, animato da gusci da svago e di barche pescherecce, persuade al quieto vivere felice.
Pare quasi impossibile che un breve istmo separi così nettamente i due opposti destini degli uomini: il rischio e la pace; e che basti doppiare uno sprone
roccioso per passare, in pochi minuti, dalla faticata immensità degli spazi contesi, alla tranquilla intimità raccolta tra dolci monti ammantati di pini e d'ulivi,
rallegrata da tante case e ville e giardini fioriti.
La chiesetta di San Giorgio sta lassù, da secoli, a dominare le due mete, i due destini umani, e serba un rito che credo sia unico al mondo: prima di partire per
lunghi viaggi, i marinai di Portofino vo-gliono essere benedetti da San Giorgio. La campanella della chiesa suona a raccolta, invita i fedeli a salire sull'istmo
scosceso. Il sacerdote trae dalla cripta l'urna contenente le reliquie del Santo, la pone sull'altare e, vestito dei sacri paramenti, intona l'inno del martire
soldato: Deus, tuorum militum!. Quindi reggendo alta tra le mani l'urna delle reliquie, esce sul sagrato, traccia con l'urna stessa un grande segno di croce
verso il mare aperto, traccia un altro segno di croce verso il mare chiuso, benedice l'orizzonte che il marinaio sta per tentare e benedice il piccolo porto ove il
marinaio vorrà un giorno tornare, santifica l'audacia e la pace, la fatica e il riposo, la conquista e la casa, l'ignoto e la certezza.
Questo rito è antichissimo; risale, come dissi, al tempo delle Crociate.
Le popolazioni del litorale genovese furono tra le prime a partecipare, numerosissime, alle Crociate tantoché si leggeva sulla pietra del Santo Sepolcro la frase
praepotens Genuentium praesidium a testimoniare quanto preponderante fosse la falange dei Crociati liguri.
I portofinesi, gente tutta data alla marina e che nell'arte del navigare, come nella fede in Cristo, a nessuna è seconda, fornirono alla Repubblica Ligure
marinai e capitani eroici per le galee di Terrasanta. Di là essi portarono in patria la maggior parte del corpo di San Giorgio, il martire soldato fatto decapitare
da Diocleziano in Nicomedia; considerato fin da que' tempi come il prototipo della sanità spirituale in corpore sano; milite di Roma e milite di Cristo;
cavaliere di Dio; uccisore del drago; simbolo d'audacia e di giustizia; di forza e di purezza, armato di lancia e di spada e di teologali virtù.
Il culto di San Giorgio nel Medioevo si diffuse in tutta la cristianità; le reliquie dell'eroe purissimo, dissepolte a Giaffa, furono contese in tutto l'orbe
cattolico. Parte del capo, la punta della lancia e un brandello della bandiera vennero traslati da San Zaccaria papa nella chiesa di San Giorgio in Velabro a Roma;
altra parte del capo fu dai veneziani trasferita dall'isola Egina al monastero di San Giorgio Maggiore in Venezia; i veneziani posseggono pure una parte di un
braccio trasportato nella loro città dal monastero di San Giorgio de Flore in Calabria; parte notevole d'un osso mascellare fu di Terrasanta recato in Brabanzia nel
1608; San Germano vescovo di Parigi, tornando da Gerusalemme, portò una mano di San Giorgio datagli dall'imperatore Giustiniano e la collocò nella chiesa di San
Vincenzo. Genova serba del suo Santo Patrono, nella chiesa ad esso intitolata, parte delle braccia e, nella cattedrale, parte d'una gamba e un piede chiusi in una
statua d'argento.
Ma la maggior parte delle ossa che composero lo scheletro di San Giorgio è, dal secolo undecimo, custodita sul monte di Portofino, a guardia dei due mari.
La chiesa è umile, quasi disadorna. Nella sagrestia, inevitabilmente deturpata dalla salsedine (in tempi di gravi procelle il mare sale fino a buttar spruzzi
d'ondate entro i finestruoli), un'antica lapide ricorda come ivi giacciano le ossa dei Crocesignati che nel secolo undecimo resero alto onore al loro paese
trasportando dalla Palestina le reliquie di San Giorgio. (Crucesignatorum Delphini Portus - qui saeculo XI - e Palestina transvectis – Georgii M. Cappadocensis
reliquiis - patriam ditavere - hic ossa quiescunt).
Un'altra lapide, murata nella chiesa, attesta come la maggior parte del corpo del Santo ivi sia conservata e come la cappella primitiva sia stata rifatta nel 1154
dai pescatori di corallo del mare portofinese.
Le reliquie giacciono in un sacrario scavato nella pietra che è sotto l'altare. Quattro chiavistelli d'antichissima foggia, formanti una rozza croce, tengono
chiuso il pesante coperchio; alzato questo, appare una cassetta rettangolare di velluto azzurro ricamata in argento, il cui vetro soprastante è fermato da due
nastri rossi incrociati, fissati ai bordi della cassetta coi sigilli dei vescovi che autenticarono le reliquie
E' questa la cassetta che benedice i navigatori di Portofino; l'urna miracolosa cui, da quasi mille anni, vengono rivolti i voti di migliaia e migliaia di
marinai in pericolo su tutti i mari del mondo; è il reliquario prezioso che salvò i portofinesi da pestilenze e carestie, come si legge nelle epigrafi murate del
Santuario e nelle carte chiuse in una teca metallica serbata sotto l'urna, conservata con essa nel cavo della roccia.
I salvati dalla peste del 1656 istituirono una cerimonia religiosa (approvata con breve di Pio VII), la cui celebrazione è quanto mai pittoresca. La seconda
domenica di luglio gli uomini del paese, a piedi scalzi, salgono al Santuario, ove il sacerdote espone le reliquie e intona una preghiera che il popolo canta in
coro. Si forma quindi una processione che, discesa giù dal monte, si reca alla chiesa parrocchiale, ove vengono celebrati i Vespri, quindi la processione percorre
la via del mare lungo tutto il porto e risale al Santuario, ove le reliquie vengono richiuse sotto l'altare.
Il corteo della gente marinara e soprattutto degli uomini dalle caratteristiche facce abbronzate, scalzi per i sentieri del colle e lungo le calate ingombre di
reti e di sartie, il corteo che segue i gonfaloni storici, le enormi croci nere, il sacerdote in rossa mozzetta e il reliquiario alto sul porta-reliquie dorato,
pesantissimo, recato a braccia da quattro portatori in cappa bianca, ha il fascino d'una mirabile composizione artistica quale può essere pensata e rappresentata
da un popolo di fede e di fantasia, capace di solennizzare le feste del suo spirito soltanto con forme di bellezza.
Come vorrei che un giorno si scrivesse un libro sui riti popolari in Italia! Ogni regione, quasi ogni borgo n'è ricco; ed è soprattutto per questi riti che
sopravvive in forma evidente, ovunque bella, sempre artistica nelle sue espressioni, la storia delle nostre virtù religiose e civili attraverso i tanti secoli della
italica gloria.
Sul sagrato di San Giorgio, a Portofino, lassù sulla roccia che divide due mari, fino al 1860, ogni cinque anni, il popolo usava anche celebrare una sacra
rappresentazione intorno al martirio del suo Santo protettore. Ho letto questo, che l'autore-poeta - tale Giuseppe Puccio, da Chiavari - ha definita
«tragedia» ed ha per personaggi nientemeno che l'imperatore Diocleziano, la sua consorte imperatrice Alessandra, San Giorgio e maghi, sacerdoti della
Palestina e angeli del Paradiso. Non credo varrebbe la pena di ripristinare un tale «spettacolo all'aperto», dal momento che il popolo, supremo
buongustaio, ha giudicato opportuno di metterlo in disuso.
Sul sagrato di San Giorgio meglio giova salire e soffermarsi in solitudine, cercare in noi stessi il rapporto fra l'orizzonte che sconfina sul mare e il nostro
spirito rinnovato. Noi Italiani d'oggi siamo gente non dissimili, per razza e per destino, da quei navigatori che, nei tempi delle nostre migliori fortune,
cercarono la gloria in lontanissimi lidi. La inquietudine operosa è lievito di potenza; e v'è pure un Santo soldato che la benedice. Benedica egli anche i voti del
ritorno, secondo il rito in uso da secoli a Portofino, gemma del mare italico.