Genova – febbraio 1971
Una gabbia di metallo, in cui veniva mantenuto acceso il fuoco, tenuta alta sulla torre di Capo Faro. Così funzionava, nel XII secolo, la Lanterna, quella torre
del faro "esimia ed antica" che divenne il simbolo di Genova, e la cui storia è strettamente legata a quella della Città. La Lanterna rimane per i genovesi immutata
nel suo fascino e, anche se i recentissimi restauri e le innovazioni tecniche l'hanno aggiornata con i tempi, essa rappresenta ancora, per chi la scorge da lontano,
un pezzetto della "vegia Zena".
I lavori che da circa venti mesi fervono sullo scoglio della Lanterna sono quasi giunti a compimento. Da poco è stato liberato dal bozzolo di impalcature che lo
ricopriva, il faro che da secoli è il simbolo di Genova, quel faro che ha illuminato la strada della «Superba» ai tempi dei suoi massimi fasti, delle
sue attività, delle sue crisi.
Ma vediamo di fare un po' la biografia del «nonno» di tutti i fari non solo italiani, ma del mondo (l'unico più vecchio è quello di Alessandria
d'Egitto che, però, non è più in funzione).
Le pagine della storia ci ricordano come, da tempi antichissimi, fosse d'uso accendere sui litorali grandi fuochi, sia per segnalare l'approssimarsi della costa
alle navi in arrivo, sia per inviare messaggi e allarmi circa ciò che accadeva in mare. Anche sulla costa ligure e, in particolare, sul Capo Faro gli abitanti del
libero comune di Genova tenevano accesi fuochi di segnalazione.
Non si conosce esattamente la data di nascita della Lanterna. La prima fonte certa che ne parla è del 1129: un decreto del comune ripartiva tra gli abitanti
delle delegazioni genovesi la suddivisione dei compiti relativi alla torre: difesa e approvvigionamento dei fasci di legna per l'alimentazione del fuoco. Un'altra
«breve» comunale nel 1161 stabiliva che ogni padrone di nave doveva pagare, ad ogni approdo, una tassa «pro igne faciendo in capite fari»,
cioè per collaborare alle spese di mantenimento del fuoco.
A quanto ci è dato di sapere a quei tempi il fuoco era mantenuto acceso in una gabbia di metallo tenuta alta sulla torre del Capo Faro. Dapprima si bruciava
brisca inumidita, poi pece, poi catrame; erano anche utilizzati l'erica e il brugo con l'aggiunta di steli di ginestre.
La storia della Lanterna è strettamente legata a quella di Genova: non solo per le evidenti ragioni di tattica militare dipendenti dalla favorevole posizione
geografica del Capo Faro rispetto al Porto, ma anche perché le fortificazioni che più volte vennero erette sul Capo, si trovarono spesso al centro di drammatici
scontri o lunghissimi assedi.
Nel 1317 i Ghibellini, guidati da Marco Visconti, tentarono di espugnare la rocca strenuamente difesa dai Guelfi che resistettero per due lunghi mesi. In quei
tempi, intorno al 1326, si procedette a migliorare il sistema di illuminazione del faro, provvedendo la torre di un potente fanale ad olio.
Inoltre, per le
segnalazioni con la città, si usavano degli speciali mezzi visivi. Tali erano i coffini (specie di ceste che indicavano il numero delle navi in avvicinamento) con
cui si stabiliva un codice particolare per comunicare le notizie al Palazzo del Doge; successivamente il sistema fu perfezionato con l'aggiunta di vele e bandiere.
Tra i guardiani del faro, il più celebre, non per suo merito, fu nel 1449 un certo Antonio Colombo, zio di Cristoforo.
Nel 1507, durante la dominazione dei francesi di Luigi XI, il rialto di «Cò de Foa» si trasformò nella fortezza della Briglia. Probabilmente i
genovesi ci tenevano già molto al loro faro visto che il Senato della città mandò 200 scudi d'oro agli ufficiali francesi perché nella costruzione dei nuovi
baluardi di difesa avevano risparmiato la torre del faro «esimia ed antica».
Durante le alterne vicende legate alla costituzione della Lega Santa i francesi, a Genova, si dovettero ritirare nelle fortezze di Castelletto e del Faro. Si
era intorno al 1511: l'assedio condotto dai genovesi guidati dal doge Ottaviano Fregoso durò due anni e due mesi. A proposito di quest'assedio sono ricordati vari
aneddoti circa i rifornimenti della Rocca che avvenivano per mezzo di complicati congegni di funi e ceste collegati con navi in rada.
La fortezza, comunque, dopo essere stata espugnata, fu fatta distruggere in 40 giorni. Secondo alcune fonti il compenso per chi vi lavorò fu di «4.500
lire genovesi e quanto di pietra e di legno e di ferramenta» si traesse dalle rovine. Quello che è certo è la parziale distruzione del vecchio faro; non è
chiaro se ciò avvenne durante quest'opera di sbancamento di fortificazioni nemiche o durante i bombardamenti avvenuti nelle battaglie precedenti la vittoria.
Dopo qualche anno, nel 1543, il simbolo della Città venne di nuovo eretto nelle sue forme attuali (76 metri sul Capo e 117,5 sul livello del mare) utilizzando
per la costruzione la roccia dello stesso Capo Faro su cui sorge.
Chi fosse l'architetto a cui si deve la paternità dell'opera, non si sa.
C'è chi dice fosse Francesco da Gundria. C'è invece chi ricorda l'editto della Signoria genovese che si diceva soddisfatta di Giovanni Maria Olgiati per i
servigi prestati a munir la città: da ciò si dedurrebbe che il costruttore della Lanterna potrebbe essere proprio questo architetto.
Certamente, se si deve prestar fede alla leggenda, chiunque fosse, il costruttore non dovette fare una fine piacevole: pare infatti che, durante l'inaugurazione
della Lanterna, aiutato da mani sconosciute, egli prendesse una via troppo veloce per scendere a terra dalla sommità della costruzione. I committenti genovesi,
gelosi delle proprie cose, non volevano che egli potesse un giorno rifare un'opera simile per qualche città nemica. A prestar fede alle fonti dell'epoca sembrerebbe
che noi genovesi, anche riguardo alla manutenzione della Lanterna, avessimo modo di dimostrare il nostro proverbiale senso del risparmio.
Infatti, già dai tempi di Colombo, la potenza della luce della lampada ad olio era proporzionata al numero degli stoppini che si accendevano. Da documenti del
tempo risulta che nel 1573 gli stoppini erano 18 in inverno e 12 d'estate. Più tardi furono portati a 30 con un consumo di 12 barili d'olio all'anno. Per non
spendere troppo i genovesi ne ridussero successivamente il numero fino ad otto; inoltre, per garantirsi da frodi, instaurarono l'uso di far giurare i custodi sul
numero degli stoppini accesi. Ma il colmo le «pigne secche» genovesi lo raggiunsero nel 1708, quando deliberarono di non accendere più il faro nelle
notti dì luna: ovviamente i risultati furono disastrosi per i continui pericoli di naufragio delle navi.
Anche le poche stanzette libere all'interno della torre furono utilizzate: vi si custodirono i condannati a morte. Tra i prigionieri che vi trascorsero il
periodo di detenzione è ricordato Jacopo Lusignani che, assieme alla moglie, vi fu tenuto, ostaggio del re di Cipro, per cinque anni fino al giorno della
liberazione avvenuta per l'intervento del doge Leonardo Montaldo. C'è ancora, secondo molti, la stanzetta dove nacque Giano, figlio dei due prigionieri.
Pochi anni prima, intanto, la Lanterna aveva subito, ancora una volta, gravi danni alla cupola durante un bombardamento navale dei francesi di Luigi XIV.
Il bombardamento uno dei primissimi nella storia per le dimensioni e la potenza, durò ben undici giorni dal 17 al 28 maggio 1672.
Ma non furono solo i bombardamenti i nemici della Lanterna: le cronache del tempo ci rimandano ancora l'eco dei danni provocati dai fulmini che, periodicamente
si abbattevano sulla costruzione nonostante le immagini sacre e le scritte religiose che erano state dipinte sui suoi muri per ingraziarsi i Santi. Finalmente nel
1778 un fisico dell'Università di Genova, padre Glicerio Sansais, la provvide del parafulmine realizzato una ventina di anni prima da Franklin.
Nel 1831, ancora una volta, attorno alla Lanterna furono erette nuove fortificazioni ad opera del Re Carlo Felice e del suo successore Carlo Alberto.
Dieci anni dopo nel 1841, l'antiquato sistema di lampade ad olio fu sostituito dal lume girevole a petrolio tipo Fresnel.
Per assistere all'installazione di una lampada elettrica sulla Lanterna, però, si dovettero attendere ancora un centinaio di anni fino al 1936. Questa
innovazione seguì di poco la grande opera di restauro eseguita sotto la direzione del geometra Giovanni Bistrotti per conto del Genio Civile e del Consorzio
Autonomo del Porto. La Lanterna era gravemente lesionata e, secondo molti tecnici, il crollo sembrava ormai sicuro. Le opere consistettero in iniezioni di cemento e
rivestimenti di ferro e piombo per dare stabilità e proteggere il vecchio monumento dalla corrosione marina.
Il costo fu di 325 mila lire con un risparmio di 75 mila (!) sul preventivo.
Lo scudo con la croce fu dipinto dal pittore genovese Giglio che si fece rimborsare solo le spese vive (270 lire).
Nuove opere di restauro furono eseguite nel 1954 per riparare le lesioni dovute alla guerra. In quell'occasione, tra l'altro, si sistemò un ascensore che
permette di raggiungere la cupola evitando di salire i 375 scalini che alcuni secoli fa avevano sostituito le scale mobili di legno.
I lavori di oggi, quasi conclusi, sono iniziati circa venti mesi or sono e consistono in un riesame di tutto il «fasciame» della costruzione con
l'inserzione di robusti rinforzi. La variazione maggiormente percepibile che è nata da questi lavori è l'inversione del «giro» della luce della Lanterna.
Dal luglio dello scorso anno, infatti, la luce si sposta da destra a sinistra guidata da un comando automatico che ha preso il posto del vecchio sistema a
manovella ormai superato dalla tecnica.
Queste innovazioni tecniche, però, non scalfiscono minimamente il fascino della Lanterna che continua a rappresentare qualche cosa di indefinibilmente
importante per tutti i genovesi e per chi si allontana dal nostro porto verso altri paesi e altre fortune. Oggi non sono più i giorni delle emigrazioni di massa,
triste caratteristica di non molti anni fa, in cui uomini e donne partivano dal loro paese senza sapere che cosa li attendeva. I tempi sono cambiati non poco: anche
il ruolo della «Superba» nell'Italia ricostruita e in progresso è diverso e, in troppi casi, incerto.
La Lanterna, da lassù, uguale ed immobile da secoli, continua a compiere qualche cosa di più del suo dovere. Rappresenta una città e una storia gloriosa di
tradizioni e ricca di speranze nel futuro.
Rappresenta per chi la scorge da lontano il primo, o l'ultimo, pezzetto dell'Italia e «da vegia Zena».