la Repubblica – 29 agosto 2006
Turista viene da tour, giro: era il viaggio che i giovani aristocratici facevano un tempo per acculturarsi, quasi sempre in Italia, seguiti da stuoli di
servi e cumuli di bauli.
Villeggiante, invece, era chi trascorreva l'estate in villa (in realtà una redditizia tenuta agricola) per sfuggire ai miasmi della città o al clima malarico della
pianura.
Oggi gli epigoni dei giovani aristocratici appassionati di arte rinascimentale sono orde vocianti di "turisti culturali", armati di reebok, frontino, shorts e
camera digitale, che invadono senza guardare (tanto fotografano e guarderanno dopo) piazze, palazzi, ruderi e musei.
Sono gli economisti ad averci insegnato a valutare le opere d'arte in base al numero dei visitatori e alla spesa giornaliera di ogni visitatore, rigorosamente
distinto in italiano o straniero, escursionista o pernottante.
Gli epigoni di chi andava in villa sono invece gli inquilini dei condomini (detti seconde case) costruiti sul bagnasciuga dell'intera linea costiera o sulle balze
che avvolgono quel che resta di villaggi montani soffocati dal traffico e dai gas di scarico.
Entrambe queste categorie sono accomunate – come turismo culturale e residenziale - in un vasto aggregato statistico che assomma anche i turismi d'affari, sportivo,
religioso, sessuale, congressuale e altro. Ciascuna di queste categorie ha i suoi antesignani e i suoi epigoni.
Il turismo d'affari è l'epigono dei mercanti di un tempo: carovanieri e navigatori armati, metà affaristi e metà guerrieri, che fin dentro il diciannovesimo
secolo hanno percorso deserti, attraversato oceani e catene montuose, fraternizzato o combattuto con tribù sconosciute, per trasportare, insieme al loro prezioso
carico, miti, racconti e nozioni di popoli tra loro estranei.
Oggi le funzioni dei mercanti d'antan sono dissociate: il trasporto è una cosa; e nessuno chiama turisti i relativi addetti: marittimi, ferrovieri,
piloti, hostess o camionisti. Mentre il turista d'affari è il manager o il diplomatico che organizza o prepara quei viaggi. Quanto alla protezione armata dei
traffici, ci pensano eserciti più o meno regolari.
Il turismo esotico, che va alla ricerca del "colore locale", per lo più nel terzo mondo o in paesi emarginati, è l'erede delle esplorazioni di un tempo. Dopo
gli esploratori sono venuti gli etnologi, grandi catalogatori di usi e costumi esotici, e poi gli antropologi, che ai loro reperti hanno aggiunto la polpa della
teoria; e, alla fine, i turisti: alla ricerca di un folclore spesso inventato ex-novo a scopo promozionale. Sono sia giovani un po' hippy che anziani danarosi e si
ritrovano tutti insieme nei souk, alla caccia di prodotti "tipici" per lo più fabbricati a Taiwan e in Corea. Poi si dividono: i primi vanno a dormire à la belle
étoile, in spiaggia o in qualche stamberga; i secondi fanno ritorno al loro hotel internazionale.
Si tratta di una istituzione totale che fornisce tutto: camera con vista, centinaia di canali tv, tre o quattro tipi di ristorante, trenta o quaranta menù, due
o tre diversi night club, barbiere per uomo e parrucchiere per signora, istituto di bellezza, cinema, piscina, sauna, palestra, tennis, squash, shopping center,
segretarie, interpreti, sale riunioni, banca, agenzia di viaggi e, naturalmente, massaggi e prostitute a richiesta. Uno può girare il mondo facendo tappa negli
hotel della stessa catena, dove troverà sempre gli stessi arredi, gli stessi menù, gli stessi servizi, come se lui stesse fermo e il mondo gli girasse attorno.
Questi turisti esotici sono una copia malriuscita dei turisti d'affari: facilmente riconoscibili nella hall degli hotel,perché gli uni vestono in grisaglie di
tasmanian e gli altri si aggirano in shorts e T-shirt; gli uni parlano sottovoce e gli altri sono sguaiati; gli uni sono quasi tutti maschi e gli altri si portano
dietro cento chili di moglie a testa. Tutti, comunque, bevono smodatamente.
Il turismo sanitario, che aveva distrutto le armate di Annibale negli "ozi di Capua", è ripreso due secoli fa nelle stazioni termali e nei sanatori, dove si andava
per guarire da malanni poco chiari e dove sono stati concepiti o ambientati alcuni dei capolavori letterari dell'Ottocento e del primo Novecento. Ma oggi è
rappresentato soprattutto da viaggi della speranza di coppie sterili in cerca di una fecondazione assistita messa al bando dalla legislazione italiana, o da
trasferte disperate di malati terminali o in fuga da servizi sanitari dissestati da mafia e camorra.
Speranza o disperazione accomunano il turismo sanitario a quello religioso, che mobilita flussi pari solo a quelli attirati dalla tintarella. E' la forma più
antica di turismo: quello di chi si metteva in viaggio per interrogare l'oracolo di Delfi, adempiva agli obblighi verso Dio raggiungendo la Mecca o Gerusalemme, si
metteva in viaggio verso Roma o Santiago de Compostela, lungo sentieri che hanno disegnato la geografia dell'Europa medioevale.
Ma oggi si va ai santuari soprattutto per venir miracolati. Fino a qualche anno fa le terre di San Francesco erano la meta principale del turismo religioso. Ma
San Francesco non fa miracoli e Assisi è stata surclassata da San Giovanni Rotondo, perché Padre Pio, invece, fa miracoli a iosa: più che a Lourdes. Si moltiplicano
così le madonne che piangono o sanguinano - magari con dna maschile nei propri umori - che assessori di destra e sinistra si dannano a promuovere per risollevare
finanze malconce.
Tutto ciò accomuna al turismo religioso il turismo sessuale: un pellegrinaggio verso il motore immobile dell'intera storia dell'umanità che da tempo si sviluppa
lungo direttrici contrapposte. Da un lato, verso il terzo mondo, per chi non riesce a soddisfare in patria, sotto sguardi indiscreti, la propria fame di corpi
giovani; o non trova il coraggio di affrontare con la propria partner rapporti alla pari, sempre esposti al rischio dello scacco. Dall'altro, dal terzo mondo e
dall'Est europeo: giovani donne reclutate con l'inganno, destinate alla prostituzione in condizioni di schiavitù e, loro sì, fornite per lo più di visto turistico
(venduto alla borsa nera dai nostri consolati), anche se turiste non sono.
Infine il turismo sportivo risale ai giochi che trascinavano verso Olimpia, il luogo-simbolo dell'unità nazionale della Grecia, atleti e supporter, compresi aedi
addetti alle lodi dei loro beniamini, come il divino Pindaro: una specie di Gianni Brera d'antan. Ma anche il turismo sportivo si è diviso in filoni: da un
lato, negli sport che "fanno spettacolo", le trasferte di atleti, manager e tecnici addetti al loro babysitteraggio si sono trasformate in gigantesche aziende
semoventi.
Dall'altro anche i tifosi si sono divisi: vip in tribuna, magari con biglietto premio fornito dai Servizi segreti (vedi l'agente Betulla, al secolo Renato
Farina, vicedirettore di Libero); e torme di disperati, scalmanati e sudati che negli stadi non possono mettere piede e si accontentano del maxischermo, per
poi passare la notte tra osterie, stazioni, giardini pubblici, o sui sedili di un'automobile. Poi c'è il turismo di chi lo sport lo pratica: sciatori e alpinisti
all'assalto delle vette più alte del mondo, dopo aver inondato le piste o il campo-base di lattine, escrementi e attrezzature non recuperabili; rallysti da Camel
Trophy alla vana ricerca, tra le sabbie del deserto o le piste di quel che resta della giungla, della loro virilità perduta; amanti del windsurf all'inseguimento
delle onde più alte, ecc.
Insomma, dentro quel calderone della modernità che è il turismo siamo precipitati tutti: scagli la prima pietra chi può non riconoscersi in una, molte, o anche
tutte queste figure.
C'è una sola categoria di viaggiatori che sfidano l'ignoto come gli esploratori di un tempo; che attraversano i confini senza visto turistico; e che pagano il
viaggio di sola andata (perché il ritorno non è previsto, o può non rendersi necessario per sopravvenuto annegamento, o può avvenire a spese del governo "ospite")
più del "tutto compreso" in business class e in un grand hotel. Loro, i migranti clandestini, loro no; non sono turisti.