Tratto da "Storia degli Italiani nell'Argentina" di Giuseppe Parisi, 1907 – Il brano è a sua volta tratto da "La emigrazione italiana nella Repubblica Argentina"
di Giovanni Graziani, 1905
Cinquant'anni fa, l'Argentina era una terra completamente vergine e, come tutti i paesi nuovi e negli albori della vita commerciale, presentava un sistema primitivo
di scambi: l'esportazione delle materie prime, che allora consistevano specialmente nelle pelli e nelle ossa del bestiame, l'importazione delle farine, dei generi
alimentari e di vestiario di prima necessità e di pochi manufatti.
Da quel tempo i Governanti, persuasi dei benefici effetti cui avrebbe dato luogo l'applicazione pratica dell'assioma «Gobernar es poblar»,
fomentarono in tutti i modi l'immigrazione degli agricoltori, e l'agricoltura diede nei primi anni ottimi risultati. La produzione non poteva essere più fortunata.
Così si colonizzarono, in processo di tempo, grandi estensioni di terreno nelle provincie di Buenos Ayres, di Santa Fè, di Entro Rios, di Cordoba, e
l'immigrazione, mentre portava al paese un numero sempre maggiore di consumatori e di contribuenti, tendeva ad elevare il valore reale delle terre.
Gli Argentini avevano comperato dai paesi esteri tutto quello che avevano in casa; ma dopo che l'agricoltura ebbe reso a loro messi abbondanti, e il grano
cominciò a bastare al consumo interno, e le colture del lino, del mais, a prendere un forte sviluppo, e il tabacco, la canna da zucchero, la arachide a dare una
notevolissima produzione; dopo che la grande copia del bestiame suggerì a molti di trarre profitto delle carni, che per l'addietro si abbandonavano sul terreno, e
di procedere all'esportazione di esse, sorsero gli ovifici, i molini, le distillerie a vapore, i saladeros, ed i macchinari s'importarono dall'Europa.
Qui si manifestò la genialità dei nostri fabbri, i quali, imitando i modelli delle macchine loro affidate per le riparazioni, cominciarono a fabbricarne per
loro conto e, trasformate le modeste officine in stabilimenti metallurgici, divennero concorrenti delle stesse case importatrici.
Il rapido accrescimento della popolazione aveva, di conseguenza, determinato il bisogno di nuove e numerose abitazioni, ed ecco che squadre di numerosi muratori
italiani ampliano le città costruendo nuovi quartieri, di altre cangiano senz'altro l'aspetto, abbattendo gli umili ranchos, le vecchie capanne di fango
fiancheggianti le superbe chiese spagnuole o la casa del cabildo, e sostituendole con case nuove fabbricate con mattoni e con calce, o addirittura fanno
sorgere città intere dal nulla, dal piano stepposo, livellato e senza limiti della Pampa. Qui i nostri muratori diventano architetti, grandi costruttori.
Il consumo locale, aumentando per l'accrescimento della popolazione, aveva reso più intensi gli scambi coll'estero ed anche fra le città dell'interno. Uniche
vie di comunicazione nel paese erano allora i fiumi. La navigazione di cabottaggio era in mano di liguri. - I guadagni compiuti con i redditi dei trasporti
trasformarono gli umili marinai in noleggiatori e in armatori di grosse flottiglie. I piccoli negozianti, gli almaceneros, mercé la loro solerzia e la loro
buona volontà, divennero proprietari di grandiosi negozi di sartorie, di cappellerie, di ombrellerie, di sellerie, di calzolerie. In ogni ramo dell'attività umana,
adunque, i nostri connazionali si distinsero e fecero fortuna. Molti umili coloni divennero grandi proprietari di terre e fondatori di imprese di colonizzazione.
Senonchè questo fu possibile ai fortunati, che si erano stabiliti nel paese quando l'agricoltura, appena iniziata, aveva elementi favorevoli di sviluppo nella
fertilità naturale della terra e nel suo tenue valore venale, nel consumo del luogo, nei prezzi dei trasporti dei generi importati, i quali non potevano entrare
vantaggiosamente in concorrenza con la produzione locale che non aveva nel suo passivo altro che il lavoro.
Quando poi la produzione interna cominciò a divenire eccessiva rispetto al numero della popolazione, allora essa trovò un campo aperto nell'esportazione, e i
cereali argentini, lanciati nei mercati europei in mezzo alla concorrenza mondiale, poterono fruttare ai nostri connazionali generosi guadagni.
Allora furono accumulati i capitali che crearono le prime industrie. Queste, nella stessa guisa dell'agricoltura, diedero vistosi profitti, finché ebbero come
elementi protettivi il consumo interno e i prezzi dei trasporti nei manufatti d'importazione. Ma, anche nel campo industriale, la produzione cominciò a divenire
eccessiva rispetto ai bisogni della popolazione interna, e per poter trovare un consumo, dové aprirsi uno sfogo nei mercati stranieri.
Però, se i mali della sovraproduzione nel campo agricolo poterono essere in parte eliminati, traendo profitto della meccanica agraria e ribassando i prezzi dei
vari generi lanciati nel mercato straniero, non bastò tale misura per rimediare ai danni della sovraproduzione nel campo industriale. Bisognava qui ottemperare ad
un'altra necessità: quella di accontentare i gusti e i bisogni dei consumatori.
La immigrazione intanto cresceva senza posa, attratta specialmente dalle notizie, divenute quasi tradizionali della fertilità del paese e dei guadagni cospicui
fatti dai primi colonizzatori.
La popolazione aumentata cominciò a far pressione sulle sussistenze, mentre la terra aveva acquistato sempre più valore ed i capitali accumulati coi redditi
dell'agricoltura erano stati in gran parte invertiti in lavori pubblici, in opere di lusso e nelle industrie cadute ben presto in decadenza e costrette, per vivere,
a ricorrere al protezionismo governativo. La fiducia commerciale diminuita e la renitenza dei Governi nazionali e provinciali, quasi falliti, nel pagare gli
stipendi, crearono un eccesso di in-termediari ed aprirono l'adito ad una nuova industria, quella dei tramitadores; la coltura si rese sempre più estensiva e
la piccola proprietà, appena costituitasi, andò gradatamente scomparendo dando luogo al latifondo.
Il latifondo è l'indice più sicuro della rovina: prodotto genuino della decadenza, esso attesta anche nella storia della civiltà passata, la tragica fine dei
grandi cicli economici.
La terra oltreché essere cresciuta di valore, si era impoverita per i sistemi vampirici di coltura ai quali era stata assoggettata in quegli anni di attività
febbrile, in cui, davanti all'ideale della rapida ricchezza, la vita sociale, sovreccitata dal delirio del guadagno, si era sciupata in una combustione operosa.
Le fonti della produzione insomma si erano a poco a poco immiserite, la popolazione aumentata; era naturale che sopravvenisse una crisi.
La amministrazione di Juarez Celman doveva segnare il trapasso da uno ad altro ciclo economico, in mezzo all'imperversare dei fallimenti e della rovina.
Doloroso contrasto ! Davanti alla massa grigia e miseranda dei nostri proletari che, raggiunta appena una modesta agiatezza, vedono i loro sudati risparmi
irremissibilmente perduti sotto l'impero della crisi, si para al nostro sguardo la folla petulante e sboccata dei figli del paese, affaristi, borsisti, politicanti.
Essi hanno in mano il Governo. Sono essi che con un complesso di atti, di disposizioni, di leggi, hanno dissestato il paese e divorato i frutti del lavoro
italiano.
Essi dapprincipio hanno fatto acquistare alle terre un valore enorme e inverosimile, attribuendo loro una fertilità di gran lunga superiore alla reale, convinti
che la feracità del suolo non ostante i sistemi irrazionali di coltura, non dovesse esaurirsi mai, ed ipotecandone le risorse future. Così, al primo periodo di
colonizzazione tranquillo e prospero sottentrò quello tumultuoso della speculazione. Enormi estensioni di terra posseduta da ricchi argentini, amici del Governo,
per diritto di denuncia, o per favoritismi, o per compensi di armeggi politici, venivano da costoro divise in porzioni che nei remates erano comperate da
Società di colonizzazione, cioè da associazioni di speculatori.
Spesso passando da un remate all'altro, quelle lontane terre selvaggie, non ancora fecondate dal lavoro dell'uomo, aumentavano in modo incredibile il
loro valore venale, finché, divise in lotti, venivano acquistate a prezzi rovinosi dai coloni.
L'agricoltore italiano giunto nell'Argentina non ha altra brama che di divenire proprietario. Ma per giungere alla proprietà terriera bisogna che egli possa
disporre di un piccolo peculio. Per formare la somma di qualche migliaio di pesos egli deve prestare l'opera sua, dapprima come peone o bracciante, poi come
mediero o mezzadro; infine, racimolato il piccolo gruzzolo, potrà presentarsi al remate, realizzare il vecchio sogno, divenir colono. Ma il remate è divenuto
il campo di una speculazione indegna, che ha per base lo sfruttamento della giusta aspirazione del coltivatore. Il prezzo talvolta risulta centuplicato. I coloni
vengono allettati alla compera con ogni mezzo. Se i compratori non accorrono, si cambia nome alla Colonia in vendita; una Colonia che sotto il nome spagnuolo non
trovava acquirenti, venne chiamata Nuova Torino e si popolò di emigrati piemontesi, contenti di trovare almeno nel nome un dolce ricordo della patria
abbandonata. Due Colonie vicine, situate in terreni paludosi, trovarono presto compratori italiani quando vennero battezzate coi nomi di Umberto e
Margherita. Nei cartelli réclame di queste Colonie erano disegnate due belle piazze, intorno alle quali dovevano sorgere le abitazioni. I poveri
contadini recatisi sul posto trovarono che al punto delle piazze c'erano delle canadas, piccole paludi. Domandarono la rescissione dei contratti, ma il
venditore rimediò creando per le due Colonie un centro solo al quale dette nome di Nuova Roma, e tutti contenti. (Barzini).
Ma c'è di peggio. Spesso nelle obbligazioni di vendita si nasconde la frode, spesso certi contratti diventano di nessun valore, perché si è scoperto che il
venditore non era proprietario della terra venduta. La vendita al remate dei terreni per parte di gente che non vi aveva alcun diritto prese all'epoca delle
speculazioni uno sviluppo fantastico
Una società per azioni, la «Colonizadora popular» il cui gerente fuggì a New-York, una grande Società che
possedeva perfino dei piccoli vapori sul Rio della Piata e sul Paranà, vendette, senza mai sognarsi d'averne il diritto, una straordinaria quantità di terreni al
nord, si può dire quasi tutto il Chaco Australe, frodando un tre milioni di pesos che, manco a dirlo, erano in gran parte di italiani. Un argentino ricchissimo, che
aveva mal comperato certi terreni in San Vicente, nella provincia di Santa Fè, pensò di rifarsi vendendoli a dei coloni italiani. Nell'affare figurò un agente, il
quale cedette i lotti ai coloni a rate annuali e passò gl'incassi all'argentino ricchissimo; il fatto è ben noto in tutta la provincia. I veri proprietari, dopo
alcuni anni, fecero un processo ai coloni e ottennero di sloggiarli tutti quanti. Alcuni di quegl'infelici preferirono pagare di nuovo, ma dovettero pagare il
doppio, poiché il terreno, dopo sette anni del loro lavoro, aveva raddoppiato di prezzo. Essi così pagarono tre volte la terra.
I prezzi crescono disastrosamente. I ricchi latifondisti, pel fatto di cedere spesso il terreno a credito alle imprese di colonizzazione che, eccettuato il
versamento della prima rata, pagano in seguito le rimanenti col reddito delle quote dei coloni, oltre a ripromettersi un guadagno di dieci pezzi per ettaro, devono
assicurarsi dei rischi e rinfrancarsi delle enormi spese della réclame. «Ho saputo - così il Campolieti - di un'impresa che pagava 53.000 pezzi
all'anno solamente per avvisi di quarta pagina: oltre a ciò aveva venti impiegati viaggiatori, una casa centrale a Buenos Ayres con impiegati, ecc., e succursali
nelle provincie. Le vendite ascendevano in anni buoni ad 80.000 ettari.»