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Elogio dei ranocchi
di Orso Carboni

Le Vie d'Italia – febbraio 1942

Diciamo ranocchi, anziché rane, perché questo maschile è più appropriato, e ci presenta con maggiore immediatezza le care bestioline nel momento in cui sono inequivocabilmente destinate alla padella o al tegame.

11 Fanno giocherellare il «boccone» davanti al musetto…

I cercatori di ranocchi si dividono in due categorie: dilettanti e professionisti. Lasciamo perdere i primi, anche se più numerosi. Non sono che spaventapasseri o altrettanti Barbariccia, se vogliamo seguire padre Dante nella sua viva rappresentazione del XXII canto del Purgatorio:
E come all'orlo dell'acqua di un fosso
Stanno i ranocchi pur col muso fuori
Sì che celano i piedi e l'altro grosso,
Sì stavan da ogni parte i peccatori;
Ma come s'appressava Barbariccia
Così si ritraean sotto i bollori.

I secondi, invece, i professionisti, meritano qualche considerazione. Essi hanno due sistemi per pigliare ranocchi: uno meno redditizio, ma più sereno, piacevole, pastorale; l'altro faticoso e disagevole, ma che rende bene. Il primo è il sistema della canna, il secondo della lanterna: quest'ultimo ha bisogno della complicità delle tenebre. Escono i ranocchiari del giorno, all'alba o verso il tramonto, ché sono le ore migliori, perché i ranocchi hanno fame. In cima alla canna hanno appesa una cordicella e, in capo a questa, è il «boccone»: un batuffolino di seta vergine (bozzolo).

22 Vanno i ranocchiari nelle ore buie e silenziose…

Stanno sull'orlo del fosso o dello stagno, possibilmente in modo da non essere visti dal basso. Immobili nella persona, la canna sulla destra, fanno giocherellare il «boccone» davanti al musetto del ranocchio, con moto lievissimo e con tale arte che questo, solleticato e incuriosito, zompa e abbocca. Ma appena i giovani denti si sono piantati nel groviglio della seta, in questo preciso momento - attimo fuggente - il pescatore dà il colpo maestro per trarre la bestia a sé. Il ranocchio, che ha mangiato… la foglia, apre la bocca e si libera dall'insidia; ma la forza dello strappo ben misurato, avveduto, deciso, lo lancia - gambe all'aria - in quella traiettoria che lo porta addirittura sulla mano sinistra del pescatore, già pronta ad agguantarlo. Da questa stretta passa nella limitata libertà del carniere. Ma non sa quello che l'aspetta.
Osservare un ranocchiaro intento a questa dilettosa fatica è quanto mai divertente e interessante; direi stupefacente, non solo per la precisione dei movimenti, per la sicurezza dell'occhio e la disciplinata abilità del braccio; ma anche per i moti del volto, su cui passano i segni, lievi ma percettibili, dell'ansia e della soddisfatta compiacenza.
L'altro sistema di caccia (questa è veramente caccia più che pesca) si svolge, dicevo, con la complicità delle tenebre notturne. Vanno i ranocchiari nelle ore più buie e silenziose, muniti di una lanterna tutta chiusa, con un solo spiraglio laterale provvisto di lente. Sul limite estremo di un margine, a pelo d'acqua, si adagiano, protetti dall'ombra, ed aprono la luce. Sono vicini così all'acqua da poter comodamente raggiungere le bestie con una mano. I ranocchi, attratti dalla luce, affiorano curiosi, si accostano e si fermano stupefatti nel cono luminoso che si proietta. Allora, la mano svelta, con gesto garbato e silenzioso, li afferra e li cattura. Quando ero ragazzo - ma non stupido - e mi capitava di vedere certi comizi organizzati dai socialisti nella piazza del paese, all'uscita dalla Messa, pensavo sempre alla cattura delle rane con la lanterna. Questa buona e brava gente che, in fondo, non chiedeva che lavoro e pane per vivere, era ingaggiata da imbonitori di professione, i quali, col magico trucco di paroloni pieni di incognite, la incantava, ne sconvolgeva le idee, sì che essa finiva per non capire più nulla. Ma, per non passare da stupida, e per una vaga speranza, abboccava. Oggi uno, domani due… Poi venne l'Inno dei Lavoratori col sole dell'avvenire. Canta tu che canto anch'io… Mi pareva tutto un facile inganno. Poi la faccenda prese un aspetto più serio e concreto. Ma io non ero più ragazzo.

I cacciatori di ranocchi, raccolta la preda, non hanno concluso la loro fatica. Immaginate voi gli strilli e le ripulse della più coraggiosa massaia, davanti ad un cesto di queste bestiole, una sull'altra in un groviglio di zampe, di teste, di pance? L'idea di un altro batrace si affaccerebbe ardita, e la massaia fuggirebbe con orrore. Errore spiegabile, ma ingiustificato. Sentite questa, accaduta in un Istituto nel Regio Parco di Torino, tenuto da religiosi. Un villico del Vercellese mandò in omaggio un cesto di bei ranocchi: la suora cuciniera, come l'aprì, lanciò un urlo di spavento. Non aveva mai visto rane. Accorre la conversa, accorre la guardarobiera, accorre la Superiora… Consiglio di famiglia. Decisione: si mangia il pesce di acqua dolce? Si mangeranno pure questi animaletti. La cuoca li preparò come credette meglio: sgozzate le povere bestie, cercò di far loro l'operazione per cui San Bartolomeo fu martire, non sempre riuscendovi; cavò e buttò via - sciagurata - tutte le interiora, poi mise il resto a bollire in un tegame, con comune battuto. Quando l'inusitato intingolo giunse alla tavola dei reverendi Padri, non ci fu allettante odore che li trattenesse dalla smorfia del disgusto. Le teste, dall'aspetto macabro - bocca semiaperta ed occhi spalancati - affioravano dal liquido e pareva aspettassero la loro vendetta; zampe unghiute oscenamente commiste… vignetta
Converrà rilevare qui come la rana, in genere, abbia grandemente sofferto della sua somiglianza col rospo. Penso che là dove si dice, nella sacra Bibbia, al capo ottavo dell'Esodo, che il Signore estese all'Egitto la piaga delle rane perché liberasse il popolo ebreo, forse - perché no? - si trattava di rospi. Comunque, anche se erano veramente rane, il castigo consisteva naturalmente, nella moltitudine, più che nel genere dell'animale. Se il rospo non esistesse, rane e ranocchi (le prime hanno più vocazione per la musica, i secondi per la padella) sarebbero ben visti come graziosi animaletti, innocui ed utili, dalle forme svelte, dalle membra sciolte ed agili, dal colore del corpo di un bel verde, che si confonde col morbido tappeto dei prati. Ma come gli imbecilli confondono uomo e scimmia e credono ad una continuità e ad una assurda derivazione, così gli ignoranti sentimentali confondono rospi e rane, forti, se occorre, della testimonianza del naturalista e dello zoologo, che cataloga gli uni e le altre nella comune famiglia dei batraci. Come se fosse vero questo sillogismo: che, poiché la pecora ha quattro gambe e la sedia ha quattro gambe, la pecora è una sedia…
Comunque, i pescatori di rane che conoscono il mondo pensano loro ad invogliare il prossimo di ranocchi, con la piccola operazione che mi proverò a descrivere. Dall'idillio agreste si passa alla sala anatomica, e non bisogna aver paura di teste mozzate.

Afferrata la cara bestiolina per le cosce, un colpo ben assestato di coltello libera il corpo dall'ormai inutile capo. Presala, quindi, per il devastato collo con una mano, un ben deciso strappo dell'altra libera il corpo dalla pelle, che si stacca intera rovesciandosi, come una tuta a doppia faccia. Messo, quindi, nell'acqua, il ranocchio subisce un primo bagno purificatore, intanto che il ranocchiaro, munito di forbici, li trae dall'acqua uno dopo l'altro, per tagliarne le zampette e procedere ad una toletta più accurata. Dal fragile corsetto estrae, con delicata manovra, le interiora, senza staccarle; cerca fra di esse il nascosto sacchetto del fiele - una perlina dai riflessi turchini o verde cupo - e lo butta; incrocia, quindi, le gambe posteriori della bestia e sul corsetto stende le interiora, il cosiddetto «pasto»: fegato, uova, intestino e quella bella macchia di grasso in filamenti a raggiera giallo oro, che sembrano la fiamma di un bersagliere.
Eccoli che arrivano ben disposti sul piatto. E sono lì, in cucina, sotto lo sguardo ammirato di tutti. Le interiora, ben distese, scendono dal corsetto fino a raggiungere le cosce lucide e muscolose come di atleti. E' un'iride di colori: sul fegato – un velluto marrone tralucente di delicatissime sfumature – s'innesta la fiamma viva del grasso; sotto, è il sale e pepe delle uova, anch'esse lucide come una divisa per cerimonie; e da un lato, un po' nascosto, delicata nota di rosa pallido, spunta l'intestino. Questo insieme che, nominato nei suoi componenti, può fare arricciare il naso ad uno schizzinoso, va considerato come un tutto inscindibile; una sinfonia di sapori, oltre che di colori, per la gioia di chi li intende. Lo scienziato, che scruta i misteri della natura, dovrebbe spiegarci la correlazione fra i molteplici pasti del ranocchio - larve, insetti, lumachelle, piccoli molluschi, oscuri abitatori di acque stagnanti, grano - e queste voluttuose sfumature degli organi più delicati ed essenziali del suo organismo. Se ben si osserva, il ranocchio è tutto interiora e tutto gambe posteriori: queste servono al salto per la preda che nutrisce quelle. Altra carne non c'è, ché tutto il resto della bestia si riduce a pelle tesa su delicati ossicini. Ma quella che c'è è tenera, bianca, delicata. Assomiglia alla carne di pollastro, specie se il ranocchio ha mangiato grano.
Non vi dice proprio nulla un bel piatto di ranocchi fritti alla cacciatora, cioè rallegrati di pomodoro fresco a pezzetti?… Cacciatora non caotica, come certe cacciatore di pollastri che, quando ti servi, specie se gli altri ti guardano e aspettano, è una sofferenza: vorresti un'ala e spunta una coscia; cerchi il petto, e trovi un'anca; punti su una coscia e poi ti accorgi che è il collo; ma una cacciatora dove i bei ranocchi escano dalla padella rosati e profumati, nello stesso ordine e nella stessa compostezza come vi furono messi, uno per uno, col trofeo intatto del bel pasto esibito. Non vi dice nulla, ripeto, una bella cacciatora di ranocchi così fatta, insieme ad una polenta di farina novella, tagliata a fette e arrostita alla brace ardente adagio adagio, fin che il giallo si tinga, qua e là, di rosa e, così calda bollente (a scottadèo, dicono i Veneziani), raccolga, concentri, e vi porti alla bocca, fumante e fragrante, quel sugo delicato che si scioglie in una ineffabile ghiottoneria di delicati sapori?
Le care rane, che, bollite, danno un brodo squisito, sono soggette a diversi trattamenti.
L'uomo, prima fa il carnefice con le bestie, martoriandone la carne con la più feroce inventiva; poi diventa umano e le coccola nel più fantasioso dei modi. Ho sentito gente contrastare, per rivendicare a sé il modo migliore di cuocere i ranocchi. Fedora, una ragazza che per sveltezza e disinvoltura ai fornelli non scherza, dice che bisogna mangiare i ranocchi alla finalese, per rendersi conto del raro boccone… Finale Emilia, se non lo sapete, è terra di ranocchi, come tutti i paesi della bassa. Conciate le bestioline a festa, come sopra dicevamo; preparo un garbato battuto con aglio, olio, prezzemolo, sale e pepe, quando accenna ad arrossare vi si adagiano dentro le rane ben composte dei loro attributi, e si lasciano cuocere. Esse, piano piano, si copriranno di acqua: è la loro seconda natura. Lasciatele bollire ancora, finché non l'avranno riassorbita per metà. E' questo il momento giusto per mettere il pomodoro. Se si prosciugassero un po' troppo stando ancora al fuoco, correggere col burro. Tuttavia, a questo trattamento, noi - non sappiamo le rane – preferiamo quest'altro, meno tipicamente finalese, ma certo più gustoso e fine. I ranocchi, sempre acconciati nel modo noto e convenientemente salati, si lasciano un paio d'ore nel piatto, su di un graticcio, perché «facciano l'acqua». S'indorano poi di uova sbattute con formaggio, si passano nel pane grattugiato e si friggono in padella a fuoco lento. Aver cura che il «pasto» non si scomponga. Quando sono bene arrosolati, si mettono nel tegame con burro e pomodoro.
Un'altra donna di Morando - Decima di Persiceto - mi sosteneva che il modo migliore è il loro: rivestire il ranocchio, come di una dalmatica, in una colla fatta di farina, uova, formaggio (sale e pepe) e poi friggerlo in padella a fuoco lento. Sarà… In Piemonte trattano i ranocchi come il pollo, meno lo spiedo: ne fanno il brodo, li mettono in umido con patate (ed è la maniera più comune e più redditizia per le famiglie) alla cacciatora… In quel di Vercelli li adagiano in padella su di un cuscinetto di cipolla, pomodoro e non so quale altra cosa; ma un tutto così ghiotto, che il ranocchio diventa pretesto per gustare quel sugo. In un pranzo dato da Lucrezia Borgia in onore di Prospero Colonna a Ferrara, nel 1511, furono serviti anche ranocchi lessati, con salsa piccante.
Ma la prima maniera, quella della padella a fuoco lento di legna sotto il camino, con pomodoro, ma non tanto da confondere i connotati delle bestiole, tirate così con garbata avvedutezza e occhio sicuro al punto giusto… e poi più. In aggiunta, la polentina arrostita alla brace.
Le rane, come cibo, furono sempre tenute in buona considerazione. Ho letto in un trattato del sec. XVI che esse non sono buone se concepite durante la pioggia. E «cotte lesse con olio, sono la theriaca de' veleni di tutte le serpi»; e «la decotione fatta con acqua et aceto giova al dolore dei denti».
Piemonte, Emilia, Romagna e Lombardia sono terre di ranocchi. A Milano sanno fare una fricassea di rane che nemmeno tento di descrivere. E' un piatto che richiede grande studio e grande amore. Di non minore impegno il lombardo «riso con le rane», altra specialità della regione. Succulentissima specialità. Sebbene anche qui, come nella fricassea, la chiave, dirò così, del piatto, stia nel separare la carne delle cosce da tutto il resto della bestia, che va pestato in un mortaio e passato allo staccio, sì da trarne un sugo denso. Una classica ricetta di zuppa di ranocchi ce la dà l'onesto Artusi, il quale lamenta, e giustamente, che al mercato di Firenze, quando nettano i ranocchi, gettano via le uova, che sono le migliori.
Nell'Umbria (si trovano nei pressi di Bevagna caliginosa e delle Fonti del Clitunno) le chiamano le «ballerine», per il modo audace con cui stendono le gambe, quando, infilate una dopo l'altra in uno spago, vengono offerte dai venditori. Conselice - grosso centro sulla Lavezzola-Massalombarda - è celebre per i ranocchi; tanto celebre da esser chiamata: Tèra d'ranoc. Posta fra due fiumi - il Santerno ed il Sillaro - attraversata da un canale, circondata da risaie, quali condizioni migliori? Qui i ranocchi hanno l'ambiente per vivere ed il granaio per mangiare, perché si nutrono anche di grano e di riso, e per questo sono eccellenti. Come arrivano alla spiga? Così. S'appoggiano con forza allo stelo dal basso; lo piegano e, tenendolo fra le gambe, come fa il marmocchio che sale l'albero della cuccagna, lo percorrono fino alla spiga. E lì mangiano. Dicono i competenti che sono tanto squisiti, da non avere rivali. Si spiega, quindi, il grande accorrere dei ranocchiari in quella zona. Partono la sera da paesi distanti venti e più chilometri, con la lanterna intatta e il sacco vuoto; tornano verso l'alba con la lanterna consunta e il sacco pieno. Visitare, per esempio, il mercato dei ranocchi a Lugo, è godere uno spettacolo. Portano lì le bestiole ancora vive a sacchi; e lì le preparano e le passano ai banchi di vendita. Una volta un ranocchiaro tornò, anziché all'alba, a notte alta col sacco pieno. Pensò che poteva dormire qualche ora e posò il sacco nel cortile di casa. Ma nel sacco c'era un buco: uno ad uno i ranocchi se ne uscirono e, in una gara di zompi, invasero il cortile e quanti più locali adiacenti trovarono.
Morirono in esilio; non si sa se di crepacuore o di fame.
Se con questa chiacchierata fossi riuscito a conciliare qualche lettore col piatto dei ranocchi, mi sarei forse guadagnato un piccolo merito nel campo dell'autarchia.
Sappi, comunque, o lettore, che la rana - la quale ha legato il suo nome al genio del bolognese Galvani - è stata oggetto di attenzione e di studio fino dall'antichità: Plinio, Giovenale, Orazio. Dante la ricorda due volte nella Divina Commedia.
Goethe tesse sulle rane una spiritosa parabola, per sorridere dei leggeri propositi e delle fantasiose illusioni degli uomini. Tutti conoscono la poesia del Giusti Il Re Travicello, e sanno della Batracomiomachia, e della commedia di Aristofane: Le Rane. Ma costui non si è forse dato la pena di inventare una parola per riprodurre il grido Brekekeukoax koax?
Signor pollo, di aristocratica smorfia, avanti: dove, quali, quanti i vostri poeti e celebratori? Soltanto il gallo ha legato il suo nome al più triste dei tradimenti, che si ricollega alla divina tragedia del Golgota: e ci voleva la magnanima indulgenza di un Sant'Ambrogio a riabilitarlo, quando lo innalza a simbolo di Cristo, che preannuncia la luce e taglia la notte in due.
Ma chi cerca mai il gallo, da mettere in pentola o allo spiedo?

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